Domenica 24 aprile, in Kuwait, l’inviato speciale dell’Onu Ismail Ould ha sospeso i negoziati sullo Yemen perché non portavano da nessuna parte.
Troppe le differenze.
Il presidente riconosciuto dall’Onu Mansour Hadi, appoggiato dai sauditi e dagli emiratini, chiede agli Huthi di consegnare le armi e di lasciare le città che hanno conquistato. Da parte loro, gli Huthi esigono che la coalizione guidata dai sauditi metta fine ai bombardamenti che in un anno hanno fatto oltre 6400 morti (più di quanti ne abbiamo fatto gli israeliani a Gaza nelle ultime tre guerre) e 2 milioni e mezzo di sfollati.
Difficile che questi negoziati abbiano esito positivo. Molto più probabile che ricomincino i combattimenti.
Al momento gli Huthi e i loro alleati (in primis l’ex presidente Saleh, un tempo loro nemico) stanno raggruppando le forze sul terreno. Per entrambe le fazioni, l’obiettivo è combattere ancora, riprendersi alcuni territori e ricominciare i negoziati successivi da un punto di forza.
Solo in un momento successivo sarà possibile un vero negoziato politico.
Molti gli attori sulla scena. Contrari a un’azione militare sono Iran, Russia e Cina. A non dare sostegno militare diretto sono Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia (che però forniscono armi e tecnologia), Turchia e Belgio. Ad avere invece preso posizione contro gli Huthi sono Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrain, Emirati (anche se non tutti gli emiri sono d’accordo, la guerra in Yemen ha causato tensioni interne), Giordania, Egitto, Marocco, Senegal, Sudan e Malesia.
Intanto, i bombardamenti della coalizione saudita colpiscono la città portuale di Mukalla, fortezza di al Qaeda che da qui controlla 600 km di costa. 800 i morti tra i miliziani di al-Qaeda.
Un quadro complesso, quello yemenita, dove è presente anche l’Isis, cui si aggiunge il cinismo di un certo Occidente (Stati Uniti e Gran Bretagna in primis) che continua a vendere aerei militari e armi ai sauditi e agli Emirati.
A criticare la guerra sono in tanti. Oltre alle organizzazioni umanitarie, anche i musei: il British Museum, il Louvre, l’Hermitage a San Pietroburgo e il Metropolitan di New York hanno aderito a un programma dell’Unesco per accendere i riflettori sui siti archeologici distrutti nel Paese che un tempo fu della Regina di Saba.