Nel corso della rivoluzione tunisina che nel 2011 portò alle dimissioni di Ben Ali, Emel Mathlouthi, allora ventinovenne, si esibì davanti ai manifestanti in Avenue Habib Bourguiba, a Tunisi, cantando la sua canzone Kelmti Horra, cioè “la mia parola è libera”: il video ebbe una grande diffusione in rete, e la canzone diventò uno degli inni della primavera araba.
Emel Mathlouthi aveva cominciato a cantare e ad esibirsi fin da bambina, in un sobborgo di Tunisi: da adolescente e negli anni dell’università fece parte di band di heavy metal, ma poi rimase affascinata da Joan Baez e lasciò il rock per mettersi a scrivere canzoni politicamente impegnate, come l’emblematica Ya Tounes ya meskina, ovvero “Povera Tunisia”. Le sue canzoni furono bandite dalla radio e dalla televisione tunisina, e come conseguenza Emel decise di trasferirsi a Parigi, ma la censura sui mezzi di comunicazione ufficiali non impedì alla sua produzione di circolare nel suo paese attraverso la rete: Emel dedicò fra l’altro una versione in arabo di Here’s To You di Joan Baez a Mohamed Bouazizi, l’ambulante che si era dato fuoco nel dicembre del 2010, per protesta contro le angherie subite dagli agenti che da anni gli sequestravano la merce, un gesto che diede il la alla rivoluzione.
Diventata un simbolo della “rivoluzione dei gelsomini”, nel 2012 Emel pubblicò il suo primo album, Kelmti Horra, che mostrava l’influenza tanto di Joan Baez che di Bjork, e nel 2015 fu invitata a interpretare il brano che aveva cantato nei giorni caldi della rivolta di Tunisi a Oslo, in occasione del conferimento del premio Nobel per la pace al “quartetto di dialogo nazionale” tunisino. A sette anni dall’album Ensen, uscito nel 2017 – nel 2018 Emel Mathlouthi si esibì nell’auditorium di Radio Popolare – la cantante tunisina, che vive ormai a New York, torna adesso con un nuovo lavoro, intitolato MRA, la parola araba che significa donna.
Il gusto di Emel Mathlouthi è sofisticato, e l’album coniuga un contesto di ritmi e sonorità elettroniche aggiornato ma molto misurato con il suo temperamento di cantante incline alla melodia, al tono riflessivo e a una certa malinconia: un’estetica in cui si riconoscono molte influenze, non ultime quelle pop e folk anglosassoni. Un’estetica sobria, persino un po’ severa, congeniale ai contenuti: l’album è stato realizzato con il coinvolgimento esclusivamente di donne, dalle cantanti ospiti – come la maliana Ami Yerewolo e l’iraniana Nayomi – fino alle responsabili della produzione, e i brani propongono un punto di vista femminile sul mondo che ci circonda, con temi non banali, come quello della storia, vera, di un’aggressione sessuale subita da bambina da una donna trans.
Il titolo di una delle canzoni, Souty, in arabo significa “la mia voce”: nelle note che accompagnano il video ufficiale del brano, Emel scrive: “Dedicato al coraggioso popolo della Palestina, che mi ispira ogni giorno. La mia voce è per te“.