
Uno dei modi in cui Donald Trump si è insediato nel discorso pubblico, ben prima della campagna elettorale del 2016, è stato attraverso il suo essere un insistente “birther”: uno di quelli che non credevano che Barack Obama fosse nato negli Stati Uniti e pretendevano il certificato di nascita per riconoscerlo come presidente legittimo. Ma non è stata la prima e unica volta in cui l’imprenditore newyorkese si è aggrappato con sfrontata inciviltà a un argomento razzista per mettersi sotto i riflettori: trent’anni fa comprò pagine di giornale e fece campagna per chiedere la re-istituzione della pena di morte nello stato di New York, così da poter affibbiare la condanna letale ai cosiddetti “Central Park Five”.
Chi erano? Cinque ragazzini, tra i quattordici e i sedici anni, arrestati e accusati di aver picchiato, violentato e ridotto in fin di vita una giovane donna che stava facendo jogging a Central Park, una sera dell’aprile 1989. Kevin Richardson, Antron McCray, Yusef Salaam e Korey Wise erano afroamericani, Raymond Santana ispanico, tutti venivano dai projects, le case popolari di Harlem; la vittima, Trisha Meili, bianca e benestante, era da poco uscita dall’ufficio, dove lavorava come consulente economica.
L’opinione pubblica insorse e il caso fu per mesi al centro dell’attenzione mediatica, pronta – esattamente come la polizia, il giudice e la giuria – al verdetto di colpevolezza per i cinque minorenni, che quella sera si trovavano nel parco, insieme a molti altri giovani dei projects, per un’improvvisata celebrazione delle vacanze di primavera che era poi sfociata in attacchi violenti ad alcuni passanti. Nessuna prova materiale indicava proprio in quei cinque i responsabili dello stupro di Meili, e infatti nel 2001 un violentatore seriale, già condannato all’ergastolo, confessò il crimine. Nel frattempo però i cinque ragazzi – completamente innocenti: non avevano partecipato nemmeno agli atti di aggressione o vandalismo di quella notte – hanno trascorso tra i sei e i nove anni in prigione.
Questa storia, già rivisitata da un documentario nel 2012, è ora ri-raccontata nella miniserie When They See Us di Ava DuVernay: quattro episodi, disponibili su Netflix, imperdibili. La regista di Selma affronta la materia come farebbe con quattro film: nella prima puntata gli arresti e gli interrogatori, durante i quali i ragazzini furono costretti a confessare il falso; nella seconda il processo, che nonostante l’assenza di prove li vide condannati; nella terza il ritorno a casa e la difficoltà a reintegrarsi dei quattro ragazzi più giovani; e infine l’odissea di Korey Wise che, unico già sedicenne, invece che in un riformatorio giovanile fu inserito nel circuito carcerario adulto, messo spesso in isolamento in seguito alle botte prese dai compagni di cella.
Lontana dalla semplice ricostruzione dei crimini, la miniserie è in un certo senso il prolungamento del discorso iniziato dalla regista con il documentario candidato all’Oscar 13° emendamento (anch’esso su Netflix) che indaga come il carcere in America funzioni da strumento di controllo e oppressione di afroamericani e ispanici, e sia parte fondamentale del razzismo istituzionalizzato che permea ogni aspetto della vita della nazione. Kevin, Tron, Yusef, Ray e Korey: agganciata al loro punto di vista e alla loro esperienza, DuVernay ci accompagna attraverso i loro sentimenti, dal terrore, all’incredulità, all’indignazione, alla rabbia, alla desolazione. Provando a restituire loro quel poco che si può con cinema e tv: la possibilità di essere visti, finalmente, per quello che sono.
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