Deborah aveva 42 anni, e 4 figli, tra i 17 e i 4 anni e mezzo. Viveva in provincia di Trento. Roberta invece non era ancora maggiorenne, stava ancora frequentando l’istituto alberghiero di Caccamo, nel palermitano, dove viveva con i genitori e il fratello.
Clara avrebbe compito 70 anni quest’anno; aveva un negozio di pantofole in via Colombo a Genova, e in città la conoscevano tutti. Victoria abitava in provincia di Venezia, stava per lasciare la casa in cui viveva con il marito, nigeriano come lei, per trasferirsi in una casa protetta. Aveva 35 anni e 3 figli, di 10, 5 e 2 anni. Teodora era piemontese, lavorava come psicologa in una comunità per il recupero delle tossicodipendenze; aveva 38 anni e un figlio di 5, che è stato ucciso con lei.
Perché quello che accomuna queste donne, così diverse tra loro, è la morte violenta per mano dei propri compagni, fidanzati o mariti. E queste sono solo 5 delle 13 donne uccise nei primi due mesi dell’anno.
Il 2021 è iniziato proprio dove il 2020 era finito: lo scorso anno le vittime di femminicidio sono state 112, e il 90% dei delitti è avvenuto all’interno delle mura domestiche, per mano di partner e conviventi. Che il lockdown avrebbe peggiorato le cose lo sapevamo; il mese scorso anche l’Istat ha confermato che nei primi 6 mesi del 2020 i femminicidi sono stati il 45% del totale degli omicidi, percentuale che sale al 50% in marzo e aprile, durante la coabitazione forzata. A febbraio, maggio e ottobre 2020 il 100% delle donne vittime di omicidio ha perso la vita in ambito familiare.
Tra le 13 donne uccise quest’anno ci sono una bracciante agricola, una cantante neomelodica, una attivista, una casalinga. Avevano uno, due, anche 4 figli, oppure nessuno. Sono state uccise con un colpo alla testa, accoltellate, strangolate, bruciate. Tra loro c’era chi aveva già denunciato più volte il proprio assassino per violenza, e chi si era già pagata il funerale, intuendo il proprio destino.
Perché, nonostante il codice rosso, denunciare ancora non basta a mettersi in salvo. Così come accertare la colpevolezza dell’omicida non basta a fare giustizia: lo sanno bene le donne dell’associazione Forti Guerriere di Napoli, che da lunedì protestano ogni giorno davanti al Palazzo di Giustizia per ricordare la storia di Fortuna Bellisario, 36enne vittima di femminicidio, morta nel 2019 per le botte del marito, subite e denunciate per anni. L’uomo è stato infatti scarcerato la scorsa settimana dopo due anni di carcere, rispetto ai dieci previsti. Per il giudice non è un soggetto pericoloso.