Le dichiarazioni del ministro della Giustizia, Andrea Orlando sul presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca sono un’incrinatura nel coro unanime della maggioranza renziana del Pd. E sono la spia di un imbarazzo che fatica a rimanere sottotraccia, al di là della divisione ormai consolidata tra sostenitori del Presidente del Consiglio e minoranze critiche.
Orlando conosce molto bene la Campania essendo stato commissario del partito a Napoli nel 2011, dopo lo scandalo delle irregolarità alle primarie per le elezioni comunali. E si trova in una posizione politica scomoda. È coinvolto in quanto Guardasigilli e in quanto dirigente del Partito Democratico perchè un’inchiesta della magistratura ipotizza che un Pubblico Ministero della Procura di Napoli, Anna Scognamiglio, avesse minacciato De Luca di scrivere una sentenza a lui sfavorevole sulla applicazione della “legge Severino” se non fossero arrivati i favori richiesti e che De Luca, indagato per concussione, avesse omesso di denunciare.
Vincenzo De Luca non è uno qualunque: è il presidente di una Regione dove il potere dei leader locali è più forte e al contempo è meno controllabile da Roma.
Idealmente quindi, Orlando in queste ore è al centro delle tensioni che attraversano l’inchiesta di Napoli da una parte e il Pd dall’altra.
Ecco perché le sue parole sono importanti. Quell’ “io in Campania avrei sostenuto un altro candidato” pur se mitigato dalla dichiarazione di lealtà all’esito delle primarie, è uno schiaffo a Renzi. Del resto Orlando ha affermato anche che il partito abbia bisogno, parole sue, di una “profonda revisione”. Renzi non ha certo prolemi di tenuta della sua maggioranza ma la presa di posizione di Orlando ha oggi un peso specifico superiore agli attacchi quotidiani delle minoranze interne. Le sue critiche, inoltre, mettono in evidenza un aspetto fin qui rimasto sottotraccia: Renzi non ha uno stretto controllo della periferia del Partito Democratico. I critici del premier-segretario spesso citano la Democrazia Cristiana per denunciare la trasformazione politica del Pd. “Il modello è piuttosto un altro – dice a Radio Popolare un dirigente del Pd – il modello è l’età giolittiana”. Un potere centrale molto forte, cui si contrappone un potere dei notabili a livello locale che Renzi fatica a controllare, o non vuole farlo.