Il 14 gennaio 1976 esce in edicola il primo numero del quotidiano “la Repubblica“. Il nome viene scelto in omaggio al piccolo giornale portoghese che, l’anno prima, aveva dato voce alla “rivoluzione dei garofani”. Il fondatore, Eugenio Scalfari, chiama con sè alcuni amici e colleghi: tra loro Giorgio Bocca, Miriam Mafai, Giuseppe Turani, Natalia Aspesi, Giuseppe Turani, Giovanni Valentini.
Con lui ripercorriamo quarant’anni di storia del quotidiano, con il quale però Valentini non collaborerà più. Una scelta dolorosa, legata al prossimo arrivo di Mario Calabresi alla direzione della testata.
Giovanni Valentini che ricordi hai di quei mesi, di quando avete fondato “la Repubblica“?
Cominciai a lavorare a Repubblica l’1 dicembre 1975 per fare i “numeri zero”: ne facemmo ben 15, che furono stampati ma non pubblicati. Quello fu un periodo particolarmente creativo, di grande entusiasmo, grande esaltazione professionale. Io avevo appena 27 anni, provenivo da Il Giorno, diretto allora da Gaetano Afeltra, che era il terzo giornale italiano. Io, a 27 anni, ero l’ultima ruota del carro, ma da lì uscirono personaggi e grandi firme come Bocca, Aspesi, poi più tardi Brera, Pirani e Fausto De Luca.
Che giornale voleva essere Repubblica quando è nato, come si è trasformato nel tempo?
Noi volevamo essere un giornale di opinione, che vendesse 50-70 mila copie. Poi nel tempo Repubblica se ci si pensa bene ha realizzato un ossimoro: è diventato un giornale di opinione di massa, nei tempi d’oro è arrivato a vendere un milione di copie. È stato un giornale “di appartenenza”, un giornale che ha creato un pubblico. Quando nacque Repubblica ci dissero tutti che non c’era spazio, che il mercato era chiuso. In realtà già all’epoca tentammo di imporre un prodotto nuovo a cominciare dal formato, il tabloid, che per quell’epoca fu abbastanza rivoluzionario. Quello era un aspetto fisico, materiale, ma dentro la formula tabloid c’era l’idea di un giornale diverso: come diceva un nostro slogan dei primissimi tempi, un settimanale che uscisse ogni giorno.
Originariamente a che pubblico miravate?
I primi tempi, quando salivo su un autobus o una metropolitana, vedevo la Repubblica negli zainetti dei giovani: era un giornale alternativo, un secondo o addirittura un terzo giornale. Noi cercammo di contribuire a creare un pubblico più moderno, progressista, critico, non necessariamente antagonista. Voleva essere un giornale nuovo per un’Italia nuova. Da questo punto di vista credo che anche le polemiche che poi sono state fatte sul “giornale-partito” siano state riduttive: Repubblica è ben di più. Ha formato un suo pubblico, ha stabilito un rapporto, un transfert reciproco tra la redazione, gli editorialisti, gli opinionisti e chi lo legge, e mi piace molto di più usare un’espressione che Scalfari ha già usato per l’Espresso: una “struttura d’opinione”, un gruppo di persone che facevano il giornale o lo leggevano, ma che avevano in comune interessi di carattere intellettuale, politico e soprattutto civile.
Quale è stato il rapporto con i partiti e i movimenti?
E’ stato un rapporto sempre molto autonomo e indipendente. Il giornale ha sempre coltivato l’ambizione di avere una sua idea, una sua visione, un suo progetto della società italiana. Laico ma non anticlericale, democratico, progressista, con un pubblico che potesse diventare protagonista della modernizzazione del paese. Se a quell’epoca qualcuno ci avesse detto che nei successivi quarant’anni avremmo avuto due direttori che provenivano dal giornale della Fiat (il direttore uscente Ezio Mauro e quello in arrivo Mario Calabresi, ndr) ci saremmo sbellicati dalle risate. Repubblica è nato come giornale di controinformazione, che non vuol dire necessariamente opposizione al potere, ma semmai un giornale che controlla il potere, quello politico, quello economico e anche quello dell’informazione.
Il vostro giornale è nato negli anni del terrorismo. Un vostro collega, Guido Passalacqua, è stato gambizzato dallo stesso gruppo che avrebbe poi ucciso Walter Tobagi. E poi c’è stata la foto di Aldo Moro, sequestrato dalle BR, con Repubblica in mano. Che ricordi hai di quando hai visto quella foto?
A dire il vero in quell’anno ero il direttore de l’Europeo. E subito dopo andai per tre anni a Padova, che in quel momento era la capitale di Autonomia Operaia. Quei momenti li ricordo bene, sono stati anni tremendi. Il gruppo dirigente di Repubblica ha tenuto sempre una linea molto ferma, di netta condanna non solo del terrorismo ma della protesta violenta, però si è sempre sforzato di capire quali erano le ragioni di fondo di questo fenomeno. Questo ci ha consentito da una parte di opporci al terrorismo, dall’altra parte di superarlo e di contribuire a trovare equilibri più giusti nella società italiana.
Alcuni scoop, alcune inchieste, alcuni momenti da ricordare…
Il periodo in cui ero capo della redazione milanese fu molto felice. Il giornale crebbe parecchio. Una mia grande soddisfazione fu quella di riuscire a coinvolgere grandi firme di Repubblica come Bocca, Aspesi, Turani anche nella cronaca locale, nella vita della città di Milano. E poi il periodo della vicedirezione, con Mauro Bene e Antonio Polito: quando Scalfari ci nominò alla fine del 1994 il giornale imbarcava acqua e noi tre in una stanzetta minima riuscimmo, con tutto il resto della redazione, a dare una sferzata di rinnovamento.
Parliamo di due momenti importanti per la Repubblica: i cambi di Direzione. Da Scalfari a Mauro e – tra non molto – da Mauro a Calabresi. Come dicevi prima, sono venuti tutti e due dal giornale della Fiat.
Ezio Mauro è sicuramente un grande professionista, ha fatto benissimo il Direttore de La Stampa e poi di Repubblica. La mia era una battuta, la loro provenienza non è certamente un minus. Però è innegabile che l’imprinting sia diverso: La Stampa è pur sempre il giornale della più grande impresa privata italiana. Io a 27 anni lasciai Il Giorno per andare a lavorare da un editore puro, un editore che facesse i giornali solo per fare i giornali e non per altri interessi. Ora vedremo Calabresi. E’ un giornalista molto esperto e solido, alla Stampa ha fatto un buon giornale. Ma deve risolvere una contraddizione che è allo stesso tempo professionale e politica: non è un mistero che la sua Stampa viene considerato in questo momento il giornale più filo-renziano di tutti. Non gliene faccio una colpa, anche perchè ho appena scritto un libro per Longanesi intitolato “La scossa” nel quale dico che non bisogna perdere l’ occasione di far traghettare il paese da Renzi in questa difficile transizione. Però c’è un’anima del giornale con la quale anche Calabresi dovrà fare i conti, dentro e fuori il giornale: è quello spirito critico, di autonomia e indipendenza, di distanza dalla politica che significa esercitare un controllo sui poteri. Il gruppo l’Espresso con Scalfari e Caracciolo è sempre stato una famiglia, spero che Repubblica non diventi un giornale di famiglia.
Anche Radio Popolare compie 40 anni. La ascoltavi quando eri il capo della redazione milanese del giornale?
Non solo la ascoltavo, ma mi piaceva molto! Mi ricordo le rassegne stampa di Gad Lerner e di Marco Taradash, che erano letture critiche dei giornali. A quell’epoca Radio Popolare era l’equivalente di Repubblica: una voce diversa, autonoma, alternativa, con un occhio critico sulla società, non per distruggere ma per costruire.
Ascolta l’intervista con Giovanni Valentini