Di recente c’è una narrazione della vicenda coreana che va per la maggiore. È quella secondo cui, se invece di minacciare di incenerire l’isola di Guam o le coste californiane, Kim Jong-un si è improvvisamente impegnato in un tour de force diplomatico, il merito è della strategia di “massima pressione” – tramite sanzioni economiche e minacce militari – messa in pratica dall’amministrazione Trump. Onore quindi all’inquilino della Casa Bianca, ma perché il gioco funzioni, a ogni sbirro cattivo che si rispetti deve corrisponderne uno buono.
Lo sbirro buono, nella fattispecie, è il presidente sudcoreano Moon Jae-in. Oggi, a poco più di una settimana dallo storico summit di Panmunjeon in cui incontrerà Kim Jong-un, Moon ha esplicitamente dichiarato che il nuovo orizzonte dei rapporti intercoreani è la pace definitiva dopo la guerra degli anni Cinquanta, conclusasi con un semplice armistizio nel 1953.
Questo sarebbe il vero game-changer. Moon ha sottolineato che la pace stessa si inserice in un progetto più ampio, di crescita economica comune per le due Coree. Ed è questa la promessa che più seduce Kim Jong-un. Il giovane leader nordcoreano, da quando è salito al potere nel 2011, ha più volte insistito sulla dottrina del Byungjin (doppio sviluppo: nucleare ed economico), e si ritiene che il primo sia funzionale, ma al tempo stesso un limite, al secondo.
Kim vorrebbe assicurare il proprio regime con la deterrenza nucleare, per poi dedicarsi alla crescita, di cui già si vedono segnali: la società nordcoreana non è più quella afflitta dalle carestie degli anni Novanta e un piccolissimo ceto medio va formandosi all’ombra della burocrazia di Stato e dei traffici più o meno leciti.
D’altra parte però, lo sforzo economico militare e le sanzioni della comunità internazionale minano questo tentativo alla radice. Moon Jae-in ha scommesso che Kim è in questo momento sensibile alla mano tesa economica. Ma come dargli la certezza che non farà la fine di un Saddam Hussein o di un Gheddafi, una volta che rinuncerà al nucleare?
Ecco allora che salta fuori la soluzione della “pace definitiva”, cioè la messa in sicurezza del regime di Pyongyang. Una soluzione che nessun presidente Usa, democratico o repubblicano che fosse ma imbevuto comunque di eccezionalismo, avrebbe mai accettato. Trump invece non ha di questi scrupoli, non ha l’ansia di esportare la democrazia e ha di fatto già riconosciuto la Corea del Nord nel momento in cui ha lasciato intendere l’ipotesi di incontrarsi con Kim Jong-un. Incontro che sarebbe previsto per il mese prossimo.