Nella prima puntata di Unbelievable, Marie, una ragazza appena diciottenne, denuncia uno stupro subito, e tutto quello che può andarle male va male. Non perché incontri poliziotti misogini o crudeli, o perché chi le sta attorno sia eccezionalmente insensibile o bigotto: più semplicemente, polizia e personale ospedaliero sono del tutto impreparati ad affrontare il suo trauma, e amici e conoscenti sono viziati da pregiudizi più o meno inconsci.
Nel secondo episodio di Unbelievable, Amber, una donna un po’ più grande di Marie, una studentessa universitaria, denuncia uno stupro subito, e l’investigatrice che raccoglie la sua testimonianza fa tutte le cose giuste. Per certi versi, questo secondo episodio è quasi più difficile da guardare del primo, perché svela una verità drammaticamente inaccettabile: è il primo caso la normalità, il secondo è l’eccezione.
Unbelievable è una miniserie in otto episodi, disponibile su Netflix da metà settembre. A idearla e a coordinare la stesura della sceneggiatura è stata Susannah Grant, già autrice dello script di Erin Brockovich, il film di Steven Soderbergh che fruttò a Julia Roberts un Oscar nel 2001. È ispirata a una storia vera, ed è estremamente fedele ai fatti reali, raccontati in un reportage congiunto di ProPublica e del Marshall Project, due importanti agenzie no profit di giornalismo investigativo, che ha vinto il premio Pulitzer nel 2015.
Le protagoniste, oltre alla giovane Marie interpretata da una bravissima Kaitlyn Dever, sono due detective, Karen Duvall e Grace Rasmussen, rispettivamente interpretate da Merritt Wever e Toni Collette. Lavorano in due distretti confinanti, entrambe stanno indagando su una violenza sessuale e, per caso, scoprono che i loro casi hanno degli elementi di straordinaria similitudine; uniscono l’investigazione e catturano uno stupratore seriale che per anni aveva agito indisturbato, aggredendo e stuprando decine di donne, anche approfittando dell’impreparazione delle forze dell’ordine.
Da un punto di vista televisivo, Unbelievable è una serie molto interessante perché da un lato s’inserisce nel fortunato filone del true crime (la ricostruzione di fatti di cronaca realmente accaduti), dall’altro è uno dei migliori esempi recenti del genere poliziesco, con più di un richiamo a True Detective: sobrio e teso, il racconto avvince dalla prima all’ultima inquadratura, anche quando rallenta il passo per comunicare tutta la frustrazione di indagini complicate, fatte di vicoli ciechi e tempi morti.
Dal punto di vista del contenuto e della rappresentazione, Unbelievable è una serie assolutamente unica: per il modo in cui sa illustrare un sistema fallato, non per colpa di qualche mela marcia, ma per condizionamenti sociali diffusi; ma anche per come decide di mostrare le violenze (sempre e solo dal punto di vista delle vittime, eliminando qualsiasi sospetto di morbosità), per la capacità di rivelare, attraverso la regia, come spesso le vittime di stupro vengano trattate come fossero colpevoli; e perché, grazie alle eroine Duvall e Rasmussen, lascia la speranza che un’alternativa sia non solo possibile, ma perfettamente fattibile.
Sì, è dura da guardare, Unbelievable, ma è una visione inedita e necessaria: efficace nella forma e incontrovertibile nella sostanza, è la serie più politica dell’anno.