Morena Zucchelli è la responsabile di un progetto di Coopi, una Ong italiana, che in Niger dalla fine del 2017, con l’Onu, realizza un processo di riaccompagnamento e riconoscimento dei migranti.
L’abbiamo intervistata oggi a Giorni Migliori e ci ha raccontato come funziona: dalla Libia i migranti che hanno subito violenze e torture o che hanno particolari necessità di protezione vengono portati dall’Unhcr in Niger (il Paese in cui transita oltre l’80% dei migranti africani), curati e ospitati in case gestite da Coopi. Seguono un processo di identificazione e di valutazione e verranno proposti dall’Unhcr per l’asilo diretto in Paesi come Francia, Svezia, Canada. Su 1500 migranti ospitati nelle case di Coopi, oltre 200 hanno ricevuto asilo.
Come si sta sviluppando questo progetto in collaborazione con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati?
Questo è un progetto innovativo che è stato messo in piedi lo scorso anno. Si ricevono persone dai centri di detenzione della Libia, persone identificate e con bisogno di protezione, quindi richiedenti asilo, che vengono trasportate in aereo dalla Libia a Niamey. Il Niger ha accettato dallo scorso anno di accogliere queste persone in gravi situazione: sono rifugiati e richiedenti asilo che vengono accolti attualmente in 20 case nella città di Niamey e in altre case nella città di Agadez, più verso l’interno del Paese.
Agadez che è uno dei centri più importanti di arrivo e anche di raccolta e tensioni. È il cuore della questione di questo 90% di migranti africani che passano appunto dal Niger.
Esattamente. E il Niger, come credo tutti sanno, è un corridoio in cui transitano moltissime persone che vengono da diversi Paesi. In effetti nelle nostre cose abbiamo attualmente una maggioranza di persone che vengono da Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan. Abbiamo anche persone dello Yemen, del Bangladesh, del Ciad, dell’Egitto e della Siria. Sono persone di differenti Paesi che sono state detenute in Libia, messe nei centri di detenzione e che attraverso contatti con l’Unhcr sono state scelte come persone di una maggiore necessità di protezione. Attualmente a Niamey abbiamo 1.200 persone richiedenti asilo che sono in attesa di avere l’attestato di rifugiati e sono anche persone che sono in attesa di uno status. Non tutti avranno il certificato di rifugiati, alcuni resteranno in Niger. Sono 272 le persone che sono già riuscite ad evacuare in Europa. Quelle che mettiamo a disposizione noi sono case di passaggio. Il progetto è definitivo di Emergency Transit Mechanism (ETM) ed è innovativo in questo senso: alcune persone partono direttamente dalla Libia, per altre non è possibile fare direttamente il percorso di ottenimento dello stato di rifugiato e per questo vengono transitoriamente messe in Niger. Attraverso l’attenzione che viene data loro in questo posto a Niamey vengono poi riconosciute quasi tutte come rifugiati e reinserite in Paesi dell’UE, ma anche in Canada, Australia o Stati Uniti.
Come avviene l’ultimo passaggio? Che tipo di accordi si fanno?
Avviene tutto attraverso gli accordi che l’Unhcr ha con i Paesi. Sono i Paesi poi a decidere quale tipo di persona accogliere. Ad esempio abbiamo qualche difficoltà a far accogliere mamme con bambini, non tutti sono interessati a ricevere mamme con bambini al seguito. Ci sono Paesi che sono più interessati a ricevere donne, altri che sono più interessati a ricevere uomini. Tra le circa 1.200 persone ospitate attualmente nelle 20 case di Niamey ci sono 418 donne e 790 uomini. Gli uomini sono molti di più delle donne.
E in proporzione fanno più fatica a trovare il riconoscimento della protezione.
Sì, per le donne forse è più facile già quando sono identificate in Libia, perchè spesso hanno subito violenze sia in Libia e sia durante il percorso per arrivare in Libia. Tra le donne noi ne abbiamo attualmente dieci incinte che sono arrivate dalla Libia con la gravidanza in corso, quindi sono comunque persone che hanno alle spalle storie molto complesse e molto forti.
Come stanno dentro le case?
Qui succedono delle cose molto interessanti, perchè le persone vengono da diversi Paesi e fanno parte di diversi gruppi etnici. Abbiamo ad esempio eritrei e somali o eritrei ed etiopi che si ritrovano nelle stesse case. Diciamo che per la storia del loro vissuto, in queste case non abbiamo assolutamente conflitti. In tutte le case non abbiamo mai avuto nessun tipo di conflitto tra i vari gruppi. Abbiamo case in cui ci sono famiglie con bambini e uomini soli o donne sole di diversi Paesi e diverse lingue. Facciamo dei corsi di formazione per insegnare l’inglese o il francese e vediamo una grande capacità di mettersi d’accordo tra di loro e di convivere. In ogni casa c’è un comitato che si occupa della gestione comunitaria. In una casa, ad esempio, abbiamo fino a 100 persone. Sono case molto grandi e queste persone devono gestire insieme le pulizie, ad esempio. Noi offriamo la maggior parte dei servizi, tipo l’alimentazione e tutta la parte che sono le attività psicologiche o ricreative, mentre loro devono gestire la convivenza e noi non dobbiamo assolutamente intervenire. Questa è stata in effetti una grossa sfida, tutti ci chiedevamo delle difficoltà che avremmo incontrato e alla fine non ne abbiamo incontrata nessuna. Anzi, ci sono dei comitati che hanno creato un coordinamento tra le 20 case per discutere meglio dei loro problemi e come riuscire a risolvere. Ogni persona ha più o meno un vissuto di un anno tra quando è partito e l’arrivo in Niger e ogni persona reagisce in modo diverso e per questo diamo un grosso supporto psicologico. Stiamo anche formando psicologi e psichiatri per dare ancora più supporto.