Rischia da un momento all’altro l’esecuzione Zeinab Sekaanvand, la ragazza 22enne curdo-iraniana, condannata a morte per impiccagione, in Iran, perché ritenuta colpevole dell’omicidio del marito.
Amnesty International è impegnata in una corsa contro il tempo per salvarle la vita. C’è un appello e una raccolta firme che le varie sezioni di Amnesty nel mondo stanno promuovendo. Alcune sezioni stanno organizzando iniziative davanti alle ambasciate e ai consolati dell’Iran.
Amnesty ha seguito con particolare attenzione la vicenda. Abbiamo chiesto a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, di raccontarci la storia di Zeinab.
“E’ una ragazza curda-iraniana che ha avuto una vita piena di sfortune: prima di tutto è stata obbligata a sposarsi a 15 anni. E’ una sposa bambina, come molte in Iran, contro la sua volontà. Passata dall’infanzia a questo ruolo di moglie e schiava, il marito la picchiava e il fratello di lui la violentava. E oltre al turpe fenomeno del matrimonio forzato e precoce, è stata accusata dell’omicidio del marito che avrebbe ucciso quando di anni ne aveva 17.
Durante la prigionia ha sposato un uomo dal quale ha avuto una gravidanza – cosa che aveva consentito di rinviare l’esecuzione – ma il bambino poi è nato morto e quindi il conto alla rovescia è ripreso. E’ stata processata nel 2014 con un procedimento del tutto irregolare, è stata affiancata da un avvocato d’ufficio solo nell’ultima udienza ma in tutta la fase degli interrogatori, prima del processo, di avvocato difensore non ne ha avuto neanche uno. Ha trascorso persino un periodo di detenzione preventiva senza l’assistenza di un legale. Ha denunciato di essere stata torturata nei primi venti giorni di detenzione, denunce che non sono mai state prese in considerazione durante il processo.
Ma è successa una cosa ancora più importante: nell’ultima fase del processo, Zeinab ha raccontato un’altra versione dei fatti. Ha raccontato che era stata costretta ad autoincolparsi dell’omicidio del marito e che in realtà il vero omicida era il fratello di lui, il quale l’aveva violentata più volte, così come il marito. Ha raccontato che era stata spinta ad autoaccusarsi dal fratello del marito perché poi lui l’avrebbe perdonata nell’ambito di quel meccanismo di grazia che la legge iraniana consente di esercitare ai parenti delle vittime. Che questa altra versione sia vera o meno non lo sappiamo, ma certamente non è mai stata presa in considerazione.
E c’è di più: il nuovo codice penale del 2013 prevede che, nei casi di imputati minorenni al momento del reato, si possa chiedere un nuovo processo. Lei non lo sapeva, quindi non ha chiesto un nuovo processo. Lo stesso codice penale prevede anche che ci sia una valutazione sulla maturità, sulla competenza mentale dell’imputato. E questa valutazione nel caso di Zeinab non è stata fatta. Quindi ci troviamo di fronte a un regime di totale irregolarità, al quale aggiungiamo il fatto che l’Iran ha firmato convenzioni internazionali con cui si sarebbe impegnato a non mettere a morte persone minori di 18 anni al momento del presunto reato. Zeinab meriterebbe delle attenuanti, previste dal sistema della giustizia minorile in tutto il mondo. Certamente non dovrebbe essere messa a morte“.