Il regime di Kim Jong-un ha lanciato un segnale al mondo con il suo recente test nucleare, ma la Corea del Nord rimane una grande incognita per noi. Il giornalista Michael Sztanke, ex corrispondente a Pechino per RFI (Radio France Internationale), è riuscito a entrare tre volte nel Paese e ha raccontato la sua esperienza nella graphic novel francese La faute. Une vie en Corée du Nord, con le illustrazioni di Alexis Chabert (Editions Delcourt, 2014).
Chawki Senouci ha intervistato l’autore.
“Ho fatto tre viaggi in Corea del Nord, nel 2008, nel 2012 e nel febbraio 2014. Dopo questi viaggi ho provato una forte frustrazione perché ero andato per girare un documentario, e quando si va lì non puoi riprendere quello che vuoi e alla fine ti trovi solo con immagini ufficiali. Sull’aereo, mentre tornavo a casa, mi sono chiesto quale fosse il migliore mezzo per raccontare quello che ho visto ma che non ho potuto filmare: la risposta è il fumetto, il fumetto offre questa opportunità. La mia non è stata un’intuizione dato che sono un grandissimo lettore e appassionato di fumetti. Così ho iniziato a scrivere la sceneggiatura e al resto ci ha pensato un fumettista”.
Perché l’ha intitolato La faute, l’errore?
“Perché la storia che racconto gira attorno alla perdita di un badge. In Corea del Nord i cittadini hanno l’obbligo di portare un badge, con le foto dei leader defunti Kim Il-sung e suo figlio Kim Jong-il. Durante il mio ultimo viaggio ho chiesto alla mia guida: ‘Cosa succede se lo perde?’. Mi ha risposto: ‘Non si perde il proprio badge‘. A partire da questa risposta ho costruito la storia e immaginato la caduta agli inferi del povero funzionario”.
Come si comporta una guida quando ha di fronte un giornalista?
“Appena arrivi all’aeroporto di Pyongyang sei preso in carico dalle guide. In generale sono due, uno parla solo coreano e l’altro fa l’interprete. Sei scortato mattino, pomeriggio e sera, a tutte le ore della giornata. Non hai il diritto di uscire da solo dall’albergo, non hai il diritto di girare in città o andare al ristorante senza la tua guida. In sostanza la guida è un funzionario di Stato che fa propaganda per il regime e allo stesso tempo ti sorveglia.
Un piccolo aneddoto per capire il grado di sorveglianza: durante una visita a un museo, volevo andare alla toilette: ‘Ok’, mi dice la guida, ‘la accompagno’. Gli chiedo come mai mi accompagna fino alla porta del bagno. ‘È per la sua sicurezza‘, mi risponde, ‘Sai, siamo ancora in stato di guerra‘. Il che è vero, ma non c’è alcun legame tra il fatto di andare alla toilette e il conflitto con la Corea del Sud”.
Quindi c’è un viaggio organizzato anche per i giornalisti?
“Il viaggio è organizzato nel senso che ti impongono un programma e un protocollo, sono loro che decidono le date e le mete da visitare. Per esempio, una mattina mi hanno portato a vedere un delfinario, puoi immaginare cosa vuol dire farsi 10mila chilometri per uno spettacolo di delfini! Ma la scelta ha un suo perché: la struttura era stata appena inaugurata dal loro leader Kim Jong-un.
Poi ti fanno vedere il museo dei regali, dove ci sono tutti i regali dei capi di Stato stranieri al regime. Il tour si chiude con la visita del nuovo palazzo del ghiaccio. Alla fine capisci che hai ripreso solo la vetrina di Pyongyang. Io ho avuto la fortuna di visitare una stazione sciistica a 200 chilometri dalla capitale, era stata appena inaugurata dal leader nordcoreano, una modernissima struttura con un grande albergo e una decina di piste, ma era praticamente vuota. In realtà non avrebbero potuto costruirla a causa dell’embargo, ma hanno aggirato le sanzioni importando il materiale dalla Cina. Anche in questo caso qui c’era un preciso messaggio: l’embargo internazionale non impedisce al regime di sviluppare il settore del turismo“.
Cosa ha visto in città?
“Per le strade di Pyongyang vedi molte persone che camminano perché ci sono poche macchine. C’è però una piccola evoluzione, oggi due milioni di nordcoreani hanno un telefonino e questo non esisteva tre anni fa, ma chi ha un telefonino rimane un privilegiato del regime e quindi non riflette la realtà. Per esempio per andare alla stazione sciistica abbiamo visto sulle strade di campagna bambini di sei anni che trascinavano chili di legname per il riscaldamento delle loro case. Molti esperti sostengono che la Corea del Nord vorrebbe imitare il modello cinese, ossia un capitalismo di Stato”.
Lei ha notato un’evoluzione delle condizioni di vita durante i suoi viaggi?
“Nel 2008 praticamente non c’erano macchine a Pyongyang, oggi può capitare qualche piccolo ingorgo. Allora c’erano pochissimi ristoranti, oggi ce ne sono di più, pure quelli accessibili agli stranieri. Ovviamente non si può fare un confronto con la Cina, non so nemmeno se vogliono il modello cinese ma di sicuro continuano a osservarlo con attenzione”.
Che sensazioni rimangono lasciando il Paese?
“Lasci un Paese che soffre, che vive sotto una cappa di piombo, soffocato da un propaganda densa e importante, perché ti parlano tutto il giorno unicamente dei grandi dirigenti. Provi un sentimento molto strano perché quello che succede lì è una cosa che non ha paragone in nessun posto nel mondo”.