Il percorso della deputata Leyla Güven rappresenta in maniera esemplare lo schema in cui possono venire ingabbiati il leader politici dell’opposizione curda molto esposti e carismatici come lei. Quando venne eletta come parlamentare nel giugno del 2018 nelle fila dell’HDP, il Partito Democratico dei Popoli, di ispirazione libertaria e filocurdo, l’avvocatessa si trovava già in carcere.
Era una delle 500 persone che vennero arrestate per aver apertamente criticato l’operazione militare turca nel Nord della Siria denominata “Ramoscello d’Ulivo” che comportò l’espulsione delle formazioni curdo siriane YPG dalla zona di Afrin e l’ingresso dell’esercito turco e delle milizie filo-islamiche ad esso affiliate.
L’aver definito l’operazione una “invasione” costò a Leyla Güven la carcerazione di un anno, non interrotta nemmeno quando venne eletta in parlamento e godeva quindi dell’immunità parlamentare.
Leyla Güven fu infatti liberata solo nel gennaio del 2019, in precarie condizioni di salute in quanto da tre mesi stava conducendo uno sciopero della fame contro l’isolamento del leader curdo Abudullah Ocalan, in carcere di massima sicurezza dal giorno del suo arresto avvenuto nel 1999. Più di 200 giorni senza cibo, assieme allo sciopero di altre migliaia di carcerati fecero ottenere che il fondatore del PKK, la formazione combattente curda classificata come terroristica dalla Turchia e dell’Unione Europea, potesse ricevere la vista del suo avvocato e del fratello.
La carriera politica di Leyla Güven era cominciata nei primi anni novanta, dopo aver divorziato da un marito sposato forzatamente quando aveva 16 anni e da cui aveva avuto una figlia a 17. Con due figli da crescere, diventò membro direttivo del partito democratico curdo che successivamente venne dichiarato illegale per i suoi presunti legami con il PKK. In carcere c’era già stata in precedenza: per 4 anni, dal 2010 al 2014, quando ricopriva l’incarico di sindaco di una piccola città del sud est a maggioranza curda, in seguito all’ennesimo giro di vite ai danni delle formazioni politiche curde.
L’appartenenza al PKK, la propaganda terroristica, la partecipazione a proteste illegali, la minaccia all’ordine dello stato fanno parte del serbatoio classico di accuse con cui decine e decine politici curdi si trovano dietro le sbarre in Turchia, spesso per effetto di processi definiti farsa da organizzazioni come Amnesty International, o spesso ancora in attesa di processo. In cima alla lista si trovano il segretario e la segretaria del partito democratico dei popoli, Selahattin Demirtaş e Figuen Yusekdağ, arrestati nel 2016, seguiti da altri deputati, membri di partito, segretari di sezione, sindaci, eletti democraticamente nel 2018, destituiti e sostituiti da commissari governativi.
La revoca dell’immunità parlamentare a lei ed altri due deputati decisa a giugno lasciava presagire questa condanna. Dall’apparato giudiziario turco quindi arriva l’ennesima decisione che fa gelare il sangue. Solo pochi giorni fa aveva gettato nello sconforto tutta la società civile turca impegnata nella difesa dei diritti umani la conferma della detenzione di un altro attivista amatissimo e popolare: Osman Kavala, intellettuale e filantropo, prigioniero da 1.150 giorni ed ancora in attesa di giudizio.