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Piovono Rane

Destra in cravatta, sinistra latitante

La settimana scorsa Giorgia Meloni si è fatta ricevere da Draghi: voleva far vedere che lei è il capo di un’opposizione responsabile, matura, rispettosa del gioco democratico, non più piazzaiola e sguaiata.

Subito dopo anche Salvini ha chiesto un incontro col premier, l’ha ottenuto e ne è uscito con toni tutti pacati, collaborativi, anche lui molto responsabili, moderati, quasi british.

Che cosa succede ai due leader della destra populista, in passato ai confini col neofascismo e CasaPound?

È successo che ormai danno per scontato la vittoria della loro coalizione alle prossime elezioni, ciascuno dei due vuole fare il premier – con Berlusconi fuori gioco – ed entrambi quindi hanno bisogno di essere sdoganati nella legittimità repubblicana, di essere accettati dalle cancellerie europee e atlantiche, dai poteri economici nostrani e internazionali, dalle Borse, insomma da tutto quello che serve per governare in questo secolo.

Quindi via le felpe e i toni sguaiati, ora  si cinguetta con Galli della Loggia e si elogia l’europeista Draghi.

Sono in corso, per così dire, delle paradossali primarie striscianti della destra, giocate sui sondaggi ma anche sulla presunta nuova “credibilità moderata”.

In tutto questo colpisce la latitanza dell’altro campo: il Movimento 5 Stelle alle prese con la ricostruzione dopo il crac interno , il Pd impacciato, tiepido e quasi assente dal dibattito, Liberi e Uguali ormai diviso e non pervenuto.

Insomma di là ci si prepara a governare da soli, di qua sembra che non ce ne siamo accorti – e forse sarebbe il momento di darsi una sveglia.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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Appunti sulla mondialità

L’arte del default

Per default di uno Stato sovrano si intende l’incapacità di un Paese di onorare un debito e i suoi interessi. Quasi tutti i Paesi del mondo sono andati in default nella loro storia, con pochissime eccezioni. Agli Stati Uniti è capitato cinque volte, alla Germania tre, alla Spagna ben 15 volte (all’Italia, invece, mai). Ma per questi Paesi parliamo di tempi lontani.

Il campione dei nostri anni si trova in Sudamerica ed è l’Argentina con i suoi 8 default, più uno in arrivo se nei prossimi 60 giorni non si troverà un accordo per rinegoziare la rata di debito con il Club di Parigi scaduta lo scorso 31 maggio. Il rapporto conflittuale tra l’Argentina e i creditori internazionali risale praticamente alla sua indipendenza, con il primo prestito rilasciato al neo-paese sovrano nel 1824 dalla Baring Brothers Bank di Londra. Un milione di sterline che dopo soli tre anni, e un mancato pagamento, produssero il primo default nazionale. La storia delle relazioni pericolose tra banche e Argentina continua con un altro default alla fine del XVIII secolo per poi intensificarsi negli ultimi 40 anni: 1982, 1989, 2002, 2014 e con buone probabilità 2021.

Il tutto è stato accompagnato da costosi processi, come la causa intentata dai cosiddetti fondi avvoltoi che alla fine vinsero la lunga battaglia sui titoli in default del 2002, da loro comprati al 15% del valore nominale e incassati alla fine al 100%, più gli interessi. E anche da violenti moti popolari, come nel tragico Natale del 2001 quando, nei giorni che precedettero l’ufficializzazione dell’insolvenza, furono uccise per strada 40 persone. Proprio il default del 2002 costò una lunga quarantena all’Argentina, esclusa dal mercato dei capitali per anni.

L’eredità peggiore di ogni nuovo default è il passaggio alla povertà, se non alla povertà estrema, di fasce sempre più ampie di cittadini. Al momento del ritorno alla democrazia, negli anni ’80, erano poveri il 20% degli argentini, nel 2020 si è toccato il 42%, con il 10,5% in povertà estrema. Questo perché, malgrado il sistema di welfare creato negli anni 2000, si è ristretta la base produttiva e di conseguenza sono diminuite le possibilità di trovare impiego nell’economia formale. In sostanza siamo di fronte a uno Stato che formula i suoi programmi in base al credito internazionale e vive alla giornata, senza un progetto di futuro. Ciò rende inefficace la lotta alla povertà, che si riduce a interventi spot in un contesto economico dove inflazione e iperinflazione sono una costante.

Eppure, malgrado tutto, non appena le cose sembrano mettersi meglio, ecco che per l’Argentina arrivano i capitali dall’estero. Come durante il governo di Mauricio Macri, che nel 2018 è riuscito a farsi concedere dal Fondo Monetario Internazionale il più grande prestito nella storia dell’organismo multilaterale: ben 50 miliardi di dollari USA. Oggi la corrente peronista kirchnerista, principale avversaria di Macri, considera il FMI alla pari del diavolo, ma è la stessa area politica che nel 2006 applaudiva Néstor Kirchner per aver rimborsato al Fondo Monetario Internazionale un debito di oltre 9 miliardi di dollari.

In questa fase a Washington ci si mostra comprensivi con l’Argentina, fondamentalmente perché Madame Lagarde, oggi a capo della BCE ma fino al 2019 presidente del FMI, deve ancora spiegare come sia stato possibile elargire il prestito-monstre del 2018 alla recidiva Argentina di Macri.

Comunque sia, gestire creditori e default in Argentina è diventato un’arte diffusa trasversalmente nella classe politica. Si tratta di abbondare in promesse in fase di prestito, lamentarsi e chiedere sconti con l’avvicinarsi delle scadenze e infine, se proprio va male, fallire senza rimpianti. Per poi ripartire con lo stesso ciclo, ma con un’Argentina più povera, con sempre meno fiducia da parte di chi potrebbe investire nel Paese, e sempre più persone che vivono d’assistenza pubblica, dunque a debito, e non del proprio lavoro. Un loop dal quale un Paese una volta ricco e pieno di opportunità, seconda casa per milioni di fuggiaschi dalla fame e dall’oppressione, non riesce a uscire. Un Paese una volta prospero e che oggi si ritrova con quasi metà della sua popolazione in povertà. Di default in default.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Mia cara Olympe

In morte di Seid, domande sull’antirazzismo

La risposta, perlomeno una delle risposte, me l’ha data Rebecca Solnit. Anzi, attraverso un suo articolo sul Guardian ripreso da Internazionale,  mi è arrivata da Martin Luther King. ”Ho quasi raggiunto l’amara conclusione che il grande ostacolo per il nero nel suo cammino verso la libertà non sia il seguace del White citizen’s council o del Ku klux klan, ma il moderato bianco che è più devoto all”ordine che alla giustizia, che preferisce una pace negativa cioè l’assenza di tensione a una pace positiva cioè alla presenza della giustizia”.

Le molte domande che la vita e la morte da suicida di Seid Visin, 20 anni appena, nato in Etiopia e adottato da piccolo da una coppia di Nocera Inferiore, pongono a noi – non neri per dirla in breve – mi sembra trovino qui una iniziale risposta. C’entra o non c’entra il razzismo? Dice di no, ed ha senza dubbio molte ragioni per dirlo a cominciare dall’insondabilità che ogni suicidio porta con sé, suo padre, invitando a contestualizzare quella lucidissima lettera che il figlio aveva indirizzato due anni fa agli amici, raccontando di sguardi schifati e impauriti, di anziani che non volevano essere serviti da un nero, e quel nero era lui che invece era stato un bambino assai amato e da tutti guardato come si guarda una cosa bella.

Forse allora ad essere sbagliata è la correlazione stretta tra il suicidio e il razzismo, nel senso più ovvio, di aperta offesa e discriminazione che diamo al termine e che, peraltro, eccome se esiste. Ma se le vicende della cronaca servono ad attivare domande pubbliche, collettive, l’interrogativo viene dalla lettera di Seid e riguarda noi, che razzisti non ci sentiamo. Parto da me. Un anno di Black lives matter, l’ascesa del femminismo intersezionale, la discussione internazionale sul postcolonialismo e i tanti oggetti culturali che in questo universo si muovono – libri, articoli, financo serie di Netflix e voglio citare l’ultima vista e fortissima, ‘La ferrovia sotterranea’ di Barry Jenkins, dall’omonimo romanzo di Colson Whitehead –  mi  sembra indichino la necessità di una profondità maggiore nel rappresentarci,  nel 2021 in Italia, come antirazzisti. E quel dire di Martin Luther King, letto dopo la morte di Seid Visin, è come se avesse suonato da campanello d’allarme,  se si vuole usare estensivamente il termine ‘moderati’.  Come mai nel nostro paese, rispetto ad altri, il dibattito sul razzismo e su una società plurale è così arretrato, come mai è stato lasciato così vasto terreno alle pulsioni più escludenti e violente, come mai il tema dello ius soli prende polvere nei cassetti, come mai è ‘normale’ inciampare nella vita quotidiana in microaggressioni di stampo razzista, più  frequenti contro i neri, il vero perturbante ai nostri occhi? Alla vivissima lettera di Seid non si può che rispondere ammettendo: è vero,  le vite dei neri contano e noi non abbiamo indagato abbastanza cosa significa il nostro privilegio di bianchi, è vero abbiamo cercato  ‘ragionevolmente’ di diminuire la tensione – e quanta ce n’è stata in questi anni sui temi dell’immigrazione – invece che praticare una domanda radicale di giustizia e sederci dalla parte ‘sbagliata’  e scomoda, per noi stessi innanzitutto, dell’autobus.

 

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Urlando furiosa

“Ben arrivato Billi Red!”

C’è un elefante che si aggira per la nostra città.
Attraversa le strade e le piazze.
Si chiama Billi Red.
Non è stato facile trovarlo perchè  non ostenta la sua presenza, inoltre un elefante non avendo il pollice opponibile ha serie difficoltà con i social.
Billi Red non è entrato in città creando scalpore ma è riuscito nella sua impresa con un’impensabile delicatezza, nonostante la sua mole sia enorme e il suo peso abbia il carico di tutta la fatica percorsa.
Billi Red ha la proboscide alzata in segno di buon auspicio.
Le sue orme diventano un luogo d’incontro, conche che racchiudono arte.
Billi Red è nato dal basso, da un’idea condivisa.
I suoi occhi sono pieni di domande che meritano risposte.
E’ longevo e quindi può attendere, anzi sa attendere.
Perchè la differenza tra aspettare e sapere aspettare è la presa di coscienza, di posizione.
Il suo barrito ci richiama a stare svegli, attenti, e a non lasciare che il corso delle cose avvenga senza avere più memoria di quanto è accaduto.
Billi Red non può dimenticare, fa parte della sua natura.
Per questo sa riconoscere qualcuno anche dopo un tempo lunghissimo di separazione.
E’ in quel reticolato di vie che ci appare solo quando Milano si dischiude generosa, che Billi Red si fa trovare.
E’ di colore rosso, non avrei potuto immaginarlo diversamente. 

Un elefante si dondolava, appeso al filo di una ragnatela;
trova il gioco interessante, va a chiamare un altro elefante.
Due elefanti si dondolavano, appesi al filo di una ragnatela;
trovano il gioco interessante, vanno a chiamare un altro elefante.
Tre elefanti si dondolavano, appesi al filo di una ragnatela;
trovano il gioco interessante, vanno a chiamare un altro elefante.
Quattro elefanti si dondolavano, appesi al filo di una ragnatela;
trovano il gioco interessante, vanno a chiamare un altro elefante.
Cinque elefanti…
(Da canticchiare ad libitum fino a che non verrà approvata una vera e giusta Riforma per le lavoratrici ed i lavoratori dello spettacolo)

Ps: BILLI RED è il simbolo del primo Festival di prossimità organizzato dalle lavoratrici e dai lavoratori dello spettacolo che si terrà fino al 13 giugno a Milano a sostegno alle piccole realtà urbane così fondamentali per la relazione umana e sociale e che ancora sono in difficoltà.
Se vuoi incontrarlo devi cercarlo con selvaggia gioia!

  • Rita Pelusio

    Attrice e regista, nei suoi lavori con la drammaturgia di Domenico Ferrari utilizzano il linguaggio dell’arte comica per affrontare tematiche sociali e civili. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche. E’ amica di Radiopopolare con la quale si sveglia ogni mattina.

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É finita la scuola, ma quale scuola?

«Quest’anno emotivamente è stato difficile, mi è mancato il rapporto con le persone. Restare chiuso in casa… insomma, ho avuto più momenti “no” che momenti di gioie, e molte volte quei momenti di gioia erano una copertura, perché qualcosa non andava».

Chiunque abiti, lavori o semplicemente parli con bambine o ragazzi di diverse età si troverà oramai ad essere familiare con questo tipo di testimonianze. Il periodo pandemico che stiamo vivendo ha avuto dei costi psicologici notevoli un po’ per tutti ma gli effetti sono stati particolarmente acuti per i giovani, su cui abbiamo scaricato le restrizioni più dure: divieto di assembrarsi, divieto di andare a scuola, divieto di fare sport.

Gli adolescenti in questo anno e mezzo sono rimasti privi di voce e di rappresentanza: cosa sappiamo dei loro pensieri sulla pandemia? Quali canali di comunicazione esistono tra le giovani generazioni e noi? La scuola che ci sta a fare, se non si preoccupa di tenere vivo questo canale?

Durante quest’anno, invece, il sistema scolastico si è accontentato della DaD come surrogato della relazione educativa, si è accontentato di esistere formalmente, di non lasciare il vuoto assoluto, senza interrogarsi però con onestà sulla propria efficacia, sui propri compiti rispetto alle sfide poste dalla situazione. Dei giovani allora ci siamo interessati poco. Ad esempio, non ci siamo preoccupati di proporgli delle esperienze per dare un “senso” a questa situazione. Ma cos’altro avrebbe dovuto fare la scuola, se non fornire degli strumenti per navigare il tempo presente?

Oggi martedì 8 giugno chiudono le scuole di tutto il paese e finisce l’anno scolastico, un anno matto e assurdo a pensarci con la giusta calma. Un anno in cui, nonostante lo scoppio della pandemia nel lontano marzo 2020, non si è stati in grado di attrezzare un’esperienza scolastica in sicurezza e degna di questo nome.

L’anno scorso, quando è scoppiata la pandemia, si è creduto che si stesse aprendo una finestra di opportunità per ripensare la scuola, per migliorarla. Durante tutta l’estate del 2020 si era lavorato a costruire Patti territoriali per una scuola diffusa, a progettare ricircoli dell’aria e alternanze orarie, aprendo spiragli di novità nell’organizzazione del tempo e dello spazio scuola. Invece, dopo poco, l’anno scolastico è tornato ad appiattirsi sulla didattica a distanza rendendo ancora più complicato il rapporto di orizzontalità tra alunni e professore, nella propagazione dell’immagine a distanza. Nessuna educazione diffusa, nessuna riscoperta del territorio, nessuna valorizzazione dell’esperienza corporale.

In questo quadro, la Campania è stata la regione più colpita, nella quale le scuole sono rimaste chiuse più a lungo e nella quale, verosimilmente, gli effetti di lungo corso della mancata scolarizzazione saranno maggiori. A differenza del resto del paese, bambini e bambine delle elementari sono rimasti a casa quasi tutto l’anno, salvo poche settimane, dopo che già l’anno scorso era andata così.

In molte scuole napoletane la pandemia ha prodotto degli autentici disastri: alcune classi sono state letteralmente decimate non solo e non soltanto a causa della Dad (che è partita a fatica) ma anche perché è mancata una più generale strategia di vero accompagnamento durante il distanziamento fisico. Alla mancanza di connessione, di dispositivi e di disposizione a seguire le lezioni da remoto, si sarebbe dovuto fare fronte con una strategia ragionata per colmare il senso di abbandono che ciascuno ha provato restando chiuso a casa propria, a mille metri e mille giga dai propri compagni. Qualcuno ci ha provato, con bellissime iniziative per andare incontro agli alunni rimasti soli, come la Didattica dai Balconi.

In generale, però, è stato un anno in cui la scuola si è rivelata per quello che è: una scuola vecchia e stanca, molto procedurale, poco attenta alle dimensioni emotive ed esperienziali. Una scuola, quindi, che produce abbandono scolastico perché non riesce a prendere sul serio i bisogni dei suoi studenti più in difficoltà. Una scuola, questa, che produce sistematici abbandoni.

Che dire, allora? Anche questa volta è mancata la capacità di rinnovare le tradizioni più consolidate, di reagire all’impatto della variabile pandemica con un adattamento delle pratiche educative e relazionali. Si è mostrata tutta l’incapacità dell’istituzione-scuola di affrontare la complessità e lo straordinario (che è poi l’ordinario con cui confrontarsi). Si è vista, poi, tutta la secondarietà della scuola nelle priorità del paese insieme a tutta la dannosa sbornia tecnologica che ha inondato i giornali.

Dopo un anno e mezzo di pandemia sembriamo essere tornati al punto di partenza: non esiste uno straccio di idea per la scuola dell’anno prossimo. Eppure, se vogliamo pensare al domani del paese dobbiamo pensare al domani della scuola e al domani del Mezzogiorno. Allora, l’ultimo giorno di scuola, visto qui da Napoli, con i maestri restituiti alla presenza, che ce la mettono tutta per organizzare giornate all’aperto nei parchi e nelle vie, all’insegna del gioco e della cooperazione, del corpo e della scoperta, sembra l’esempio migliore di tutto quello che la scuola (al sud e non solo) potrebbe essere e non è, con o senza la pandemia.

  • Emilio Caja e Pietro Savastio

    Emilio Caja e Pietro Savastio sono ricercatori indipendenti e collaborano con varie riviste, enti di ricerca e università. Sono stati e continuano ad essere partecipi di diverse esperienze di attivismo politico e sociale. Emilio lavora all'università e ha un piede sotto l’Etna, Pietro lavora nella scuola e ha due piedi sotto il Vesuvio: “da qui” è la prospettiva del Sud da cui guardano al mondo, dopo essere stati a spasso per l’Europa del Nord a studiare e formarsi.

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