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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Vi racconto di Bruce Springsteen, Alan Watts e la depressione

Se dovessi pensare a una playlist che mi ricordi i periodi gioiosi eppure complicati della prima adolescenza, parlo del lasso di tempo che va, diciamo, dalla prima alla terza media, una delle prime canzoni che inserirei sarebbe certamente “I’m On Fire” di Bruce Springsteen. Un pezzo breve, appena tre minuti, ma che dice tutto quello che deve dire. I’m on fire, sto bruciando, che sia d’amore per una ragazza o della voglia di sbranare la vita poco importa, visto che a quell’età le due cose spesso coincidono. Un inno sussurrato e caldo alle passioni e alla giovinezza.

Nel video il boss è al top. Sta aggiustando una macchina quando una sventola misteriosa in abito elegante entra in officina e, wow, la temperatura sale. Bello, rassicurante ma anche gentiluomo, Bruce è il classico ragazzo della working class destinato a far strada, quello che tutti vogliono essere. L’uomo che balla sorridente persino nel buio, come nel video di “Dancing in The Dark” , o mette a posto l’America guerrafondaia nel celebre inno “Born in The USA”. Che canzone, e che disco quello, a partire dall’iconica copertina, con Springsteen di schiena fasciato nei suoi Levi’s aderenti e nell’immancabile t-shirt bianca mentre sullo sfondo troneggia la bandiera americana. Quella canzone allora piacque così tanto al presidente Reagan che decise di utilizzarla per la propria campagna elettorale, pensando fosse un inno patriotico scritto da un repubblicano come lui. Peccato che Springsteen è sempre stato di altre idee politiche e difatti gli negò il diritto di usare la canzone, con grande sorpresa dei repubblicani che speravano di aver finalmente trovato un artista credibile a rappresentarli sul palco. Un boss anche consapevole, come ha dimostrato percorrendo le “strade di Philadelphia”, canzone con cui vinse l’Oscar e quattro Grammy, un boss che ha continuato a mostrare al mondo la propria ispirazione in oltre quarant’anni di carriera, fra dischi di successo, canzoni in top ten e concerti sold out in tutto il mondo. Se a tutto ciò aggiungiamo la bellissima storia d’amore con la cantante Patti Scialpa, che va avanti da trent’anni e ha portato alla nascita di tre figli; consideriamo il fatto che passata la boa dei settanta il boss ha un fisico da ragazzino; e concludiamo prendendo atto che Springsteen è un artista miliardario e un’icona vivente pluri premiata che ha venduto circa 120 milioni di copie nel mondo e ad ogni suo live, come minimo, accorrono 50mila persone a sentirlo, beh, parrebbe legittimo desumere la sua vita sia una lunga carrellata di soddisfazioni e gioia che si alimenta da sola anno dopo anno. Tutti vorrebbero essere Bruce Springsteen, non è così?

“Se avessi i soldi, sarei sempre felice, altro che balle”; quante volte lo abbiamo sentito dire al bar, vicini alla macchina del caffè in fabbrica, al mercato o nelle chiacchiere tra vicini?

E ancora: “Venissi riconosciuto per quello che valgo me la godrei alla grande”. Oppure: “Avessi qualcuno che mi ama e mi apprezza veramente sarei finalmente appagato, non mi servirebbe altro” .

Ebbene, Bruce Springsteen tutte queste cose ce l’ha, e alla millesima potenza.

Eppure qualche anno fa se n’è venuto fuori con una notizia sconvolgente: da tanti anni lotta contro una gravissima forma di depressione! Sì, avete capito bene. Nonostante dimostri 10 anni di meno, sia circondato dall’amore dei fans, viva una relazione affettiva stabile e abbia un conto in banca da far impallidire Zio Paperone, Springsteen qualche anno fa ha raccontato, senza lesinare i dettagli, la sua lunga battaglia contro il male oscuro del nostro tempo, un’onda nera e fangosa che lo ha letteralmente travolto.

“Sono rimasto schiacciato tra i 60 ed i 62 anni, poi un anno è andato bene ma ci sono stato di nuovo dentro dai 63 ai 64” ha dichiarato il Boss.

Springsteen ha riferito che la moglie Patti ha “potuto osservare il deragliamento di un treno merci” durante il suo periodo di malattia mentale cominciato nel 2012, ai tempi dell’album “Wrecking Ball”.

Depressione a parte, e a dispetto dell’aspetto perennemente sorridente, Springsteen ha sempre faticato a tenere a bada le insidie della mente, vittima di una spiccata sensibilità e del desiderio di non deludere i tanti che in lui hanno sempre visto l’eroe popolare che racconta le storie degli underdogs. E questa pressione, unita a un difficile rapporto con il padre Douglas – come racconta l’amico e compagno di band Stevie Van Zandt nel suo bellissimo libro “Memoir – La mia Oddissea fra Rock e Passioni non Corrisposte” – l’ha portato a 40 anni di analisi.

Ma la depressione è stata qualcosa di decisamente più pesante, un avversario spietato che ha messo Bruce in un angolo. “Quest’uomo ha bisogno di una pillola” ha urlato la moglie quando l’ha portato dai dottori.

Adesso fermiamoci un attimo.

La storia del Boss cosa ci dice?

Beh, tante cose in realtà.

La prima: soldi, fama, affetto e successo non garantiscono la serenità. I mistici avevano ragione nel sostenere che inferno e paradiso sono dentro di noi e che la mente umana è un ingranaggio in perenne ricerca di appagamento.

La seconda: quando gli scompensi chimici nel nostro cervello arrivano a certi livelli, il ricorso alla terapia farmacologica è quasi inevitabile. Per questo bisognerebbe cercare di prevenire ogni possibile scherzetto della mente, soprattutto quando si è predisposti.

Sì, ma come?

Beh, intanto cominciando ad abitare il tempo presente.

Laozi diceva che “Se sei depresso, stai vivendo nel passato. Se sei ansioso, stai vivendo nel futuro. Se sei in pace, stai vivendo nel presente”.

Poi si dovrebbe accettare la propria sofferenza senza eccessive recriminazioni, come si fa quando arriva un forte acquazzone inaspettato. Non è che quando piove ne facciamo un fatto personale con il cielo, giusto? Lo accettiamo e basta, consci del fatto che prima o poi tornerà il sole. Ecco, con la nostra infelicità l’approccio dovrebbe essere lo stesso. Accettare e accettarsi.

Il grande filosofo e mistico inglese Alan Watts ha saputo spiegare forse meglio di tutti questo concetto: “L’uomo vive la sua vita grazie allo stesso potere con cui la vita vive l’uomo. L’accettazione totale è una chiave per la libertà, è insieme attività e passività; come passività è accettare noi stessi, i nostri desideri e le nostre paure come movimenti della vita, della natura e dell’inconscio; come attività è lasciare noi stessi liberi di essere quello che siamo, con i nostri desideri e le nostre paure. Questo sentimento di interezza è possibile averlo non solo in rari momenti di intuizione, ma anche nella vita di ogni giorno e ciò avviene non appena ci rendiamo conto che tutte le nostre attività sono attività della natura e dell’universo tanto quanto l’orbitare dei pianeti, lo scorrere dell’acqua, il ruggire del tuono e il soffiare del vento.”

Alla fine, come mi disse il Professor Giulio Cesare Giacobbe – psicologo e docente universitario che per 40 anni ha curato i propri pazienti utilizzando le filosofia orientali – la strada verso la serenità è molto semplice: accettare quello che c’è e non cercare quello che non c’è. E mentre lo si fa, ma questo lo aggiungo io, cantare a squarciagola: “And we’ll walk in the sun But ‘til then, tramps like us Baby, we were born to run”.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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La scuola non serve a nulla

Quando il Teatro-Ragazzi cresce…

Un convegno. Tra nuove prospettive e vecchi problemi

“Partecipazione attiva, modelli e innovazione dei percorsi didattici”: questo il titolo del convegno svoltosi il 7 ottobre al Teatro Munari di Milano, promosso da TAC (no, non l’intercalare del “Milanese Imbruttito”, ma l’acronimo dell’Associazione “Teatro Attiva Cultura”), dall’Istituto “Rinnovata Pizzigoni” di Milano e dal Teatro del Buratto. Tema: il Teatro Scuola (o Teatro-Ragazzi, che dir si voglia) e tutto ciò che gravita intorno a esso.

Poteva non andarci, il vostro affezionatissimo? No. E allora, ecco una specie di riassunto, perchè tanti e importanti erano i partecipanti, variegati e significativi gli interventi.

A cominciar dal video di saluto di un’alunna, una sorta di (così è stata simpaticamente ribattezzata) “Greta Thumberg della Cultura Teatrale”, in cui la fanciulla testimonia del suo vivo e sincero amore per il Teatro, affermando che ci va “più volte a settimana, ma che ci vorrebbe un sostegno economico per rendere gratuiti i biglietti per i giovani”. È una alunna della “Rinnovata Pizzigoni”, un Istituto che, sin dalla sua fondazione nel 1911, e in continuità con l’approccio pedagogico della fondatrice Giuseppina Pizzigoni, ha in effetti eletto il Teatro come strumento principale per realizzare l’inclusione sociale e didattica, per promuovere abilità e competenze, per accogliere disabilità varie e per sperimentare le più diverse pratiche di convivenza. Per incarnare davvero  il senso di “cura” che dovrebbe amalgamare qualunque comunità: “Qui i docenti recitano insieme agli alunni: così facendo realizziamo davvero l’ I CARE di Don Milani”, ricorda la Dirigente Scolastica, Anna Teresa Ferri.

“E non c’è teatro senza cura”, ribadisce Laura Galimberti, in quei giorni ancora Assessora alla Cultura e Istruzione del Comune di Milano, anche se Renata Coluccini, regista del Teatro del Buratto, subito dopo specifica che “se il Teatro è cura, giammai però dovrà essere medicina” (a tal proposito qualcuno ricorda che in Inghilterra si possono somministrare attività culturali, tipo spettacoli o concerti, come fossero medicine, quindi gratuite per il paziente: “Allora, per la sua ulcera, mi mangi leggero e prenda un Feydeau, due volte a settimana. Mentre, per la bassa pressione di suo marito, prescrivo uno Shakespeare a tinte forti, magari Macbeth o Riccardo III. Le preparo la ricetta per i biglietti”). Sempre Renata Coluccini ricorda che il Teatro scuola ha di fronte, più di altri generi teatrali, il rischio di scadere in fenomeno di consumo. E, riguardo alla gratuità dei biglietti invocata dalla ragazza nel video, tralasciando il giusto riconoscimento anche economico che si dovrebbe alla preparazione professionale del teatrante, fa notare come varie ricerche in tutta Europa hanno confermato che la gratuità degli eventi culturali non fa aumentare il numero di spettatori…

Mario Ferrari, Direttore di Pandemonium Teatro di Bergamo, denuncia come l’innovazione a scuola è sempre e soltanto “tecnologica”, e che il Teatro-Ragazzi “è un “teatro povero”, ma non per scelta: più che altro, il Teatro-Ragazzi è invisibile perché si fa quando gli altri lavorano”.

E proprio per renderlo visibile, chi meglio di Mario Bianchi, direttore di Eolo, per raccontare allora che il suo testo è stato il primo “Atlante del Teatro Ragazzi in Italia” (con un recente aggiornamento per gli anni dal 2009 al 2021) e, soprattutto, per mettere in guardia dal considerare questo genere teatrale come quello che avrebbe esclusivamente il compito di preparare il “pubblico di domani? “Sparo a chi la pensa così!” ammonisce scherzosamente: cosa buona sarebbe invece accostarsi a questo particolare pubblico, alla Rousseau, nella sua accezione autonoma di “pubblico di oggi”, da rispettare in rapporto all’età attuale dei ragazzi.

Salvatore Guadagnolo, operatore teatrale di Agita, sottolinea come, da un bando del Ministero finalizzato a erogare fondi collegati all’articolo 12 della legge “Buona Scuola”, emerga come “almeno metà delle scuole in Italia fanno Teatro”. Non l’avrei mai detto!

Segue la referente della rassegna Teatro della Scuola” di Fiumicello (UD), Michela Vanni, che riporta la sua esperienza nell’organizzazione di questo evento, uno dei numerosi Festival teatrali – ma il suo il primo – in cui a recitare sono gli alunni: “Il teatro ragazzi dipende da una sola cosa: i pulmini” (si riferisce al fatto che alcuni Dirigenti Scolastici le chiedono spesso come poter estendere la copertura assicurativa nell’unico tratto che per i bambini resterebbe scoperto, cioè il tragitto tra pullman e teatro!), auspica che il teatro entri nel curriculo (“senza però diventare una materia!”), e raccomanda che il teatrante a scuola non sia mai lasciato da solo a lavorare, ma che progetti un percorso specifico per ogni classe insieme all’insegnante. E soprattutto: “Chi ha detto che deve essere sempre e solo il Docente di Lettere? Dovrebbe essere qualcosa in carico a tutto il corpo docente” (anche perché poi, se tortura deve essere, tanto vale ripartirla!).

A sottolineare quanto sia importante preparare la classe prima di uno spettacolo e fornirle gli strumenti di una “didattica della visione”, per evitare di “deportare gli alunni a teatro”, è Claudia Pastorini, educatrice; che chiude con un folgorante quanto significativo calembour sugli spettacoli realizzati a scuola con gli alunni in scena: “Occorre far entrare il Teatro a scuola per poi far uscire il Teatro-Scuola dalla Scuola”.

Poi, nel pomeriggio, Giulio Nava, psicoterapeuta, formatore teatrale e fondatore del Teatro degli Affetti, racconta quella che è una sorta di sua personalissima e trentennale “ricerca impossibile”, indirizzata cioè a elaborare uno strumento per rispondere alla richiesta, prettamente scolastica, di valutazione/valorizzazione dei ragazzi durante il laboratorio teatrale. Qui siamo oltre la mera questione di quanto sia lecito “mettere il voto in Teatro”: è proprio che se il voto è giocoforza “un giudizio”, e il laboratorio teatrale è il luogo dove per definizione qualunque giudizio “resta fuori”, diventa epistemologicamente complesso far convivere queste due istanze. Ma forse, per lo stesso motivo, interessante: lo psicoterapeuta allora propone le sue configurazioni valutative (una tabella con 8 indicatori e 4 variabili), tutti dipendenti da vari parametri, tra cui il più significativo è quello relativo alla realizzazione o meno, a fine percorso, di uno spettacolo. Il quale non deve essere mai, ribadisce con forza, qualcosa di “forzato e obbligatorio” (anzi Nava addirittura propone di adottare norme per far sì che tutti i formatori teatrali possano rifiutarsi di accettare contratti dalle scuole che richiedono tassativamente, alla fine del laboratorio, la realizzazione di uno spettacolo, che è buono solo per “le foto dei genitori”). E che, comunque, è un tipo di valutazione che non può che integrare quella del docente con l’autovalutazione dell’alunno.

Chiude l’esperto di teatro e psicologo Giorgio Testa, con una frase di Aristippo di Cirene, il quale aveva individuato, con una definizione icastica, l’ideale massimo di cittadino, l’esempio di somma virtù che avrebbe voluto incarnasse suo figlio: “Sii un uomo che, quando si siede a teatro, non diventa pietra su pietra”. Appunto, non spettatore inerte: ma testimone attivo di quanto accade in scena.

E io, che assistevo dal pubblico secondo voi sono intervenuto? Sono rimasto “pietra” o mi sono attivato? Certo che sì, come potevo non rompere un po’ i cosiddetti? Alla fine, nello spazio riservato alle domande, ho chiesto se un po’ dello sforzo sacrosanto di portare meglio e di più il teatro agli alunni non dovesse essere anche un po’ rivolto ai docenti, per renderli più consapevoli della loro inevitabile dimensione performativa, e quindi, per diventare anche, grazie alle tecniche del Teatro, docenti migliori.

La risposta alla prossima puntata…

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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Piovono Rane

Al Circo Massimo del disagio

Non so se avete presente il concetto di “manifestazione colorata e festosa”.

Bene, ora immaginatevi il contrario. Una manifestazione grigia, cupa, con gli angoli della bocca all’ingiù e una frustrazione sottile nell’aria, con dentro un senso di solitudine per la vaga consapevolezza che il mondo è da un’altra parte.

Ecco, lo so: i lettori no pass qui si sono già arrabbiati, “giornalista terrorista”, schiavo, gregge, al soldo di Draghi.

Però ragazzi, oggi a Roma era così, e vi giuro che al Circo Massimo ci ero andato da contrario,  certo, ma con spirito curioso, e perché un’amica che ci va da mesi a questi cortei mi aveva detto “vacci, così la smetti di dire che sono fascisti”.

Vero, di fascisti ce n’era qualcuno – con i loro capelli rasati e i loro giubbotti di pelle nera – ma pochini, infima minoranza. Il resto era gente comune che metteva insieme le proprie frustrazioni e le proprie solitudini.

Gente che ha vissuto male – malissimo – quello che è successo nell’ultimo anno e mezzo.

Le chiusure, anzitutto – “eravamo prigionieri in casa, e il governo mi proibiva anche di andare a trovare mio figlio a Rieti”.

E le restrizioni, le mascherine, e le code al supermarket, e le pizzerie chiuse, gli stadi chiusi e tutto il resto.

E di qui la rabbia verso l’obbligo in generale, dopo tutti quegli obblighi così dolorosi, quindi anche verso l’obbligo di green pass, per viaggiare, andare alla partita o in treno, adesso pure al lavoro.

Poi boh, se c’entra l’impoverimento, non so. Questo davvero non so. Non era certo gente ricca, quella al Circo Massimo. Tipo terzo anello di San Siro, si diceva con il collega Luigi Ambrosio. Cappotti dell’Ovs in cui rinchiudersi con le braccia conserte, per capirci.

Ma nemmeno sembrava proletariato, ecco. Almeno non al Circo Massimo. Direi più piccola borghesia disagiata. Forse anche di qui la tristezza del tutto.

E poi, naturalmente, gli approfittatori del disagio, sul palco.

Stanno dietro un servizio d’ordine con l’aquila come simbolo sul petto “nun so perché, è er marchio della ditta ma nun c’entra con ‘a Lazio”, mi spiega un ragazzo che sorveglia.

Poi arriva al microfono un avvocato che ha fatto stampare e distribuire bandiere col suo nome. Si chiama Edoardo Polacco, un anno fa ha denunciato penalmente Conte per il lockdown, poi sosteneva che i vaccini erano magnetici, è diventato famoso con i suoi video furenti su Youtube.

Ci sa fare, sul palco, l’avvocato, chiama subito lo slogan “libertà libertà”, la piazza lo segue. E lui spiega quanto è bravo a difendere in tribunale i diritti di chi non ha il pass, un po’ di pubblicità non guasta mai, per quando scenderà la schiuma.

Poi questo Polacco attacca i sindacati “assenti e venduti”, dice che fino a sabato scorso lui non sapeva nemmeno dove sta la sede della Cgil.

Dice che il nemico del popolo (e “noi siamo il popolo”) è il governo e sono “i giganti della politica”, e “il gigante dei giganti è Brunetta” – qui siamo a Roma, è pieno di gente che sta nella Pubblica amministrazione e Brunetta sta sul culo a tutti, quindi coro di fischi contro Brunetta, l’avvocato ha fatto centro.

E quindi si avvia contento alla fine, dicendo che siamo in diecimila – non sembrerebbe proprio, direi a stento un terzo anche se il Circo Massimo è enorme e li fa sembrare meno, ma non mi inoltro certo nella guerra dei numeri.

E chiude, l’avvocato Polacco, presentando l’oratore successivo, un medico no vax, e  “noi lo amiamo”, ma “attenzione a me piacciono le donne e mi dispiace per quelli che non sono eterosessuali”.

La tramontana gelida batte forte mentre il sole di Roma se ne va, ci si stringe nei cappotti – frustrazione, solitudine, disagio.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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Mia cara Olympe

Bataclan: Valeria Solesin e la domanda potente di sua madre

“Cosa rappresentano per loro questi 130 morti, i morti che noi piangiamo e che per motivi a noi misteriosi sono diventati il loro bersaglio? Chiedo agli imputati di rispondere ed esprimere il loro pensiero”. Luciana Milani, madre di Valeria Solesin brillante dottoranda italiana alla Sorbona uccisa a Parigi nella notte buia del Bataclan, lo ha chiesto in aula a Parigi agli imputati di quella strage, ora sotto processo. Lo ha  fatto, ci dicono le cronache, con voce ferma, con la misura che abbiamo visto da subito essere  segno distintivo suo e della sua famiglia.  Ha continuato: “Ho sentito dire da uno degli imputati (Salah Abdeslam ndr) che l’uccisione di 130 persone non ha niente di personale. Questa allocuzione così banale e convenzionale mi ha fatto pensare. È rivelatrice di un pensiero più profondo e netto. Per loro questi morti non sono persone, non sono esseri umani, sono metafore di quello odiano, di quello che vogliono combattere”.

Niente di personale. Ci sono tragiche fini, quella di Valeria, di Giulio Regeni – si sta celebrando a Roma il processo per il suo omicidio in Egitto – di Antonio Pergolizzi,  giornalista radiofonico ucciso in un attentato a Straburgo nel 2018, che hanno illuminato per tutti noi la ricchezza delle loro giovani vite, generazione mobile e aperta, così lontana dalla narrazione prevalente e pigra dei giovani italici  –  quelli che vanno, quelli che restano – come eterni mammoni.  Niente di personale, laddove invece personalissima, complessa, a tratti faticosa, era la scommessa di ciascuno di loro. Niente di personale, quando in casa entra un orrore e un dolore che non finisce, quando si perde il mondo enorme e bellissimo che ciascun figlio rappresenta e davanti c’è una durissima sfida: credere nella giustizia, battersi per quella, fare di quella vita persa memoria viva.

Ecco. Ci sono domande semplici e potenti, capaci di perforare il  nostro tempo veloce e smemorato, affastellato da un  incessante e volatile brusio di fondo. Sono domande che ci  mettono di fronte alle cose grandi, hanno a che fare con il nostro principio e la nostra fine e con  ciò che ciascuno – Valeria, Giulio, Antonio, ma anche chi li ha amati e non smette di non odiare e di cercare di capire – è capace di metterci in mezzo. Sono rare, può capitare  di sentirle in un aula di giustizia, sono per tutti preziose.

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

«Oh bella, ciao!»: benvenuta; vigiliamo: ci aspetta ancora Resistenza

«Questa mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor»: i fascisti conosciuti, che marciano su Roma, fanno il saluto littorio, assaltano la CGIL; i nuovi che voglion condannare ogni violenza per non riconoscere origini, collusioni, appartenenze; che giudicano le leggi nazionali superiori a quelle comunitarie, sognano un’Europa di muri, fili spinati, respingimenti; che intimidiscono giornalisti; che inventano bestie per demolire avversari inermi.

«O partigiano, portarmi via, ché mi sento di morir»: dalla vergona nel vedere l’ignoranza armata di violenza, ma tienimi con te, insegnami a credere che esistono persone e popoli che si liberano e non liberatori; a osare la speranza per me, figli, nipoti; a non stancarmi di lavorare per dignità della persona, solidarietà, casa, salute, tutela sui luoghi di lavoro, natura, ambiente.

«E se io muoio da partigiano» [spero non sia necessario], se avremo lottato per difendere democrazia rappresentativa (l’unica di cui disponiamo), diritti e doveri della Costituzione, bene comune, etica individuale e pubblica, immigrati, donne, giovani, bambini «tu mi devi seppellir» con la Preghiera dei Ribelli per amore: “Signore, facci liberi e intensi; non lasciarci piegare”.

«E seppellire lassù in montagna sotto l’ombra d’un bel fior»: il clima surriscaldato non l’ha inaridito, gli innamorati lo colgono per sognare, gli escursionisti per immaginarsi operosi nella nostra benedetta maledetta città.

«E le genti che passeranno ti diranno “Che bel fiori!”»: è il fiore della Liberazione, della Repubblica, della Carta Costituzionale che garantisce tutti, anche coloro che non ci han creduto allora e quelli che cercano di picconarla oggi; i morti son tutti uguali: buone e luminose o cattive e nere sono le ragioni per cui hanno combattuto. È reato cercar di riscrivere la storia.

«È questo il fiore del partigiano morto per la libertà!» in giorni lontani, così vicini: l’anima sua vive. «O bella, ciao!»: è il nostro fiore, cogliamolo, teniamolo stretto, vigiliamo. La Resistenza non finisce mai. Bella, ci tocca!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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    Percorsi PerVersi di domenica 16/03/2025

    Poesie, liriche, sonetti, slam poetry, rime baciate, versi ermetici, poesie cantate. Ogni settimana Percorsi PerVersi incontra a Radio Popolare i poeti e li fa parlare di poesia. Percorriamo tutte le strade della parola poetica, da quella dei poeti laureati a quella dei poeti di strada e a quella – inedita – dei nostri ascoltatori.

    Percorsi PerVersi - 16-03-2025

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    Bohmenica In di domenica 16/03/2025

    Regia: Gianpiero Kesten Co-conduzione: Astrid Serughetti In studio: Gaia Grassi e Clarice Trombella Il Geologissimo Fabio Ferri spiega che cosa sono le terre rare e dove si trovano in Italia, illustrando un progetto di recupero tutto italiano finanziato dall'Unione Europea. Per #gaiasulpezzo intervista a Stefano Sandrelli e Sara Zarrinchang dell’Unione Astronomica Internazionale - UAI Italia e a Emanuele Balboni di Infini.To per spiegare l’Equal Day, giornata che cade nel giorno del solstizio di primavera (quest’anno il 20 marzo alle ore 10.01) e che, partendo dal concetto di equità tra luce e ombra, propone iniziative sul tema dell’equità in tutte le sue declinazioni (info per aderire e proporre iniziative su www.equalday.org e https://www.facebook.com/share/1EWWJJkYXa/). Clarice invece dialoga con Alessandra Marcotti, autrice del libro sulla sclerosi multipla “La malattia dei belli”, da cui è tratto il monologo teatrale “Sempre mia” in scena sabato 22 marzo alle ore 20.30 allo Spazio Sfera di Bussaro. Infine, Zeina Ayache parla delle emozioni dei cani.

    Bohmenica In! - 16-03-2025

Adesso in diretta