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Tra Buddha e Jimi Hendrix

I pericolosi controsensi della terza dose, i benefici della Retta Comprensione e la campagna “Luci per la Vita”

“Non ha senso dare la dose booster ad adulti sani o vaccinare i bambini, quando nel mondo ci sono operatori sanitari, anziani e altri gruppi ad alto rischio che stanno ancora aspettando la loro prima dose di vaccino anti-Covid. L’eccezione, come abbiamo detto, sono gli individui immunocompromessi’”.
No, questo non l’ha detto un novax che crede la terra sia piatta e Hitler un fine statista ma Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’Oms, l’Organo Mondiale della Sanità.
“Ogni giorno si somministrano 6 volte più dosi booster a livello globale rispetto alle dosi primarie nei Paesi a basso reddito. Questo è uno scandalo che va fermato. I Paesi con la più alta copertura vaccinale continuano ad accumulare ancora più vaccini mentre i Paesi a basso reddito continuano ad aspettare” ha aggiunto Ghebreyesus.
Esattamente la stessa cosa ci disse il grande Gino Strada poco prima di lasciare prematuramente questo mondo. Ed effettivamente il paradosso è lapalissiano: è etico offrire agli abitanti dei Paesi più ricchi una terza dose “di rinforzo”, quando tre quarti della popolazione del Pianeta è ancora in attesa della prima?
Mike Ryan, direttore del programma di emergenza sanitaria dell’OMS, qualche mese fa, a margine della decisione degli Stati Uniti di fornire a tutti la terza dose, ci era andato giù ancor più duro: “Si stanno distribuendo giubbotti di salvataggio a persone che ne indossano già uno, mentre lasciamo annegare tutti gli altri sprovvisti di qualsivoglia protezione”.
Senza considerare come nei paesi con poca o nulla copertura vaccinale il virus circoli più rapidamente, e questo pare porti alla nascita delle numerose nuove varianti che ben conosciamo. Quindi, di fatto, il capitalismo selvaggio – ancora una volta – si sta e ci sta fregando con le sue mani, ma questa non è una novità, basti vedere il disastro ambientale in corso.
Come tanti mi sono vaccinato per tutelare la mia salute e dare il mio piccolo contributo al mondo, ma intendevo il mondo tutto quanto, non solo il così detto occidente. Nella mia innocente ignoranza credevo che dopo di noi sarebbe toccato all’Africa e agli altri paesi non in grado di provvedere da soli alla vaccinazione della propria popolazione. Invece finirà al solito modo: noi con dieci dosi in corpo, loro con zero. E non è accettabile. Anche perché, pure fregandosene bellamente dei paesi più poveri come si è sempre fatto, il problema resta ed evidenzia con doppio segno di matita rossa i controsensi della “terza dose ad alcuni e di zero dosi agli altri”. Nei paesi con ridotta copertura vaccinale, il virus circola maggiormente, muta e di conseguenza minaccia con le sue mutazioni anche gli stati ricchi e iper-vaccinati. Ogni paese, lasciato senza protezione, è una potenziale fonte di varianti per tutto il resto del mondo.
Certo, ci sono problemi di logistica da affrontare, molti paesi non avrebbero strutture necessarie per produrre i vaccini m-RNA né per conservarli e somministrarli correttamente ma la battaglia contro il Covid è, anche e soprattutto, su quei tavoli che va giocata.
Antonino Di Caro, consulente dell’IRCCS Don Calabria di Negrar (Verona), ex direttore del laboratorio di microbiologia dello Spallanzani, interpellato da Panorama a proposito della nuova variante sudafricana, è stato chiaro come un torrente di montagna nell’affermare che: “É da mesi che tutti diciamo, compreso l’OMS, che prima di fare la terza dose ai paesi con più possibilità avremmo dovuto pensare di immunizzare il resto del mondo. Proteggere una parte del mondo e lasciare scoperta l’altra favorisce la replicazione e la mutazione del virus”.
In questo clima avvelenato fra il vaccinarci tanto o non vaccinarci affatto, alla fine si sta perdendo l’unica scelta sensata: far completare il ciclo vaccinale a tutti e poi, se servirà, procedere con eventuali rinforzi.
E mai come adesso è nodale far decadere ogni limitazione per via del “nodo brevetti”.
Il prof. Silvio Garattini, don Luigi Ciotti, Moni Ovadia e tanti altri hanno aderito alla campagna “Luci per la Vita”, inviando foto e filmati (le trovate sulla pagina Facebook Right2cure/DirittoallaCura, pagina italiana della campagna “Nessun profitto sulla pandemia”) dove le persone, immortalate davanti a una candela, lanciano un appello per la sospensione dei brevetti. L’obiettivo è arrivare a 10.000 foto, cioè il numero di persone che mediamente muoiono di Covid ogni giorno nel mondo.
Il Buddha, quando ormai oltre 2500 anni fa elaborò l’illuminante ottuplice nobile sentiero – il suo modo per uscire dalla sofferenza – si soffermò sull’importanza della Retta Comprensione della Realtà. Sì, ok, ma che cosa vuol dire? Vuol dire comprendere che siamo tutti impermanenti (e su questo non ci piove) e interconnessi. Già, interconnessi. Tutti quanti. Legati a filo doppio, per non dire triplo, l’uno con l’altro. Il più grosso peccato degli imbecilli è non comprenderlo.
Il mio vecchio e saggio amico Don Gallo riassumeva spesso il concetto quando, sgolandosi, urlava: “Ma lo volete capire che non ci si libera mai da soli? Ci si libera tutti insieme”.
Quanto suonano profetiche, oggi, le sue parole.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Mia cara Olympe

25 novembre, il giorno dopo

Oggi è il giorno dopo. Dopo aver ascoltato il presidente Mattarella e papa Francesco, dopo aver letto la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio illustrata dalla magistrata Paola De Nicola e gli speciali che tanti media hanno dedicato alla giornata, dopo aver visto spot e campagne contro la violenza maschile sulle donne, dopo avere apprezzato l’appello agli uomini (che la violenza sia un problema degli uomini lo si ripete di anni) di Maschile Plurale dal titolo giusto ed eloquente ‘Prendere la parola, adess0’, dopo avere potuto constatare che mille e mille – nelle scuole, nei luoghi istituzionali, nel variegato mondo dei femminismi, tra le associazioni – sono state le occasioni per discuterne. Dopo tutto ciò che ha riempito questo 25 novembre insomma; e quest’anno il tutto è stato tanto e articolato, tante sono infatti le declinazioni della violenza che rimandano, oltre che alle relazioni interpersonali, agli assetti strutturali della società. E dunque si è parlato di tutti i gap di genere, del maschilismo italico, dei buchi della risposta istituzionale da colmare: e non ci siamo dimenticati di chi – penso alle donne afgane – sta vivendo assai peggio di noi e peggio di prima.

Non è poca cosa quello che è successo negli ultimi 15 – 16 anni, da quando anche in Italia è stata istituita la giornata dedicata alla lotta alla violenza maschile contro le donne: nel 1999 era stata l’Onu a decidere la data del 25 novembre, in memoria delle tre sorelle Mirabal, attiviste politiche stuprate e uccise nella Repubblica dominicana nel 1960. Non è poca cosa se si pensa che solo nel 2006 un presidente della Repubblica, era Giorgio Napolitano, prese per la prima volta parola pubblica sul tema della violenza; segno di una sensibilità che si faceva lentamente strada anche su forte sollecitazione del movimento delle donne,

Non è poca cosa il cammino di questi anni di leggi nazionali – si pensi alla legge sullo stalking – e internazionali, si guardi alla Convenzione di Istambul. Si sono accese le luci anche nel buio delle case dove in massimo grado la violenza contro le donne si consuma, all’ombra di relazioni familiari; di certo le generazioni più giovani crescono con una maggiore consapevolezza, i media ne parlano, talvolta male, ma ne parlano, mentre i centri antiviolenza e i femminismi in tutte le loro declinazioni – domani a Roma la manifestazione di Non una di meno – non mollano la presa. Eppure i numeri sono ancora lì, impietosi, a dire di una rocciosità, di una pervasività della questione che lascia senza fiato: sono 109 le donne uccise nel 2021, un dato in aumento dell’8%, una morte ogni 72 ore.

Oggi è il giorno dopo il 25 novembre: si usa sempre dire che non bisogna parlare del tal fenomeno una volta l’anno, ma ogni giorno. Non credo sia questo il problema: di violenza contro le donne bisogna parlarne meglio, di più, ma il tema è ormai entrato nel discorso pubblico. E allora? Ci sono soldi da dare, politiche da implementare, risposta da costruire, sordità istituzionali alle denunce delle donne cui porre rimedio, cultura da promuovere. Ma, sul micro, nella vita quotidiana non dimentichiamo che c’è da fare per ognuna e ognuno di noi, ogni giorno. Fare i conti con se stessi e non fare e non farsi sconti, non aver paura di affrontare ogni giorno la cultura sessista che produce violenza. Vederla e farla vedere, in se stessi e negli altri, nei contesti in cui si vive, fosse anche nella solita battuta su cui si passa sopra. Sembra poca cosa, non lo è.

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

La partita dello stadio e quella della democrazia

Son volate parole grosse sul futuro di San Siro. Dibattere su maquillage dello stadio preservandone l’identità o costruire un nuovo impianto, di quelli in cui il calcio è parte di altri interessi è comunque un bel segnale. C’era da temere un pericoloso deficit di partecipazione, cultura della cura (farsi carico di buone relazioni), priorità, uso di territorio e risorse pubbliche, progettualità avendo assistito al piattume degli ultimi mesi con: campagna elettorale, la peggio dal dopoguerra; crollo dell’affluenza alle urne (fenomeno nazionale ma frustrante per chi ritiene Milano locomotiva della ripresa); successo del centro sinistra al primo turno (anche per knock out tecnico dell’avversario); giunta costituita con efficienza meneghina, fatta di donne e di giovani promettenti ma anche di tecnici promossi in ragione della provenienza dall’amministrazione: l’urbanistica. Il calcio d’inizio d’una nuova fase della città è stato fischiato per il Meazza, ma la partita è lunga e valica spalti, cori, tifoserie.

Lo stadio è metafora d’una posta in gioco più alta: il Covid ha fatto esplodere un paio di questioni mature, finora colpevolmente rinviate. La prima è istituzionale. Non si può più andare avanti con la legge Bassanini: ha svuotato i Consigli comunali, dato ai Sindaci i poteri d’un CEO e trasformate le giunte in Consigli d’amministrazione; nemmeno ci si può trastullare sulla partecipazione di base coi Municipi, fingendo esista la Città Metropolitana (forse mai nata). La seconda questione, politica ma legata, è la governance delle città. Questa non è un condominio né un’azienda. La si amministra con un’idea di convivenza, mete collettive, diritti e doveri da garantire ma anche da far rispettare, interessi da contemperare; sui progetti ci si confronta e poi maggioranza e opposizioni si assumono le loro responsabilità. Sulla Milano che vogliamo si gioca la vera partita: la città ideale fatta di persone (nate qui o da accogliere), casa, lavoro, luoghi di idee, arte, svago per la quale siamo disposti tutti e ciascuno a lavorare, dibattere, scontrarci, sognare.

Il Meazza è un prato in cui vince o perde la democrazia. La partita è secca, senza incontro di ritorno. Lasciamo ai “pulcini” impuntarsi o buttar la palla in tribuna.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Rivendicare il diritto di essere malinconici: meno mental coach, più bella musica e Zerocalcare!

Diciamoci la verità: non se ne può più di mental coach, motivatori, guru del self-help o semplicemente gente che ha letto due libri di miglioramento personale mentre era a un passo dal gettarsi dal balcone e, siccome non si è buttato, ora pensa di avere un master in felicità e di doverla insegnare agli altri. E poi, cosa più importante di tutte, non se ne può più di trattare un sentimento nobile come la malinconia, anche detta affettuosamente “skazzo cosmico”, come un erbaccia da estirpare per apparire sempre ebeti e sorridenti. E che palle! Il nostro umore cambia come il tempo atmosferico: un po’ c’è il sole, un po’ diluvia, più spesso va così così. Ed è qui che si materializza lo “skazzo cosmico”, che fa parte dell’equazione e come tale va accettato e rispettato.
Credo sia per questo che Zerocalcare – il nome sulla bocca di tutti in questi giorni per via della serie animata di Netflix tratta dai suoi lavori – ottenga tanto successo. Perché nelle sue storie, nell’intimo più profondo del suo personaggio, la malinconia vive, cresce, prospera, torna finalmente valore e non disvalore. Ma attenzione, lo “skazzo cosmico” che tutti viviamo e così ben raccontato dall’autore di “La Profezia dell’Armadillo” non è nichilismo, non è cultura del nulla e del disimpegno. Rappresenta più che altro un dolce e rassegnato abbandono alle incomprensibili leggi dell’universo, in cui noi poveri cristi gettati in questo mondo come “attori senza una parte” (cit. raffinatissima da “Riders on The Storm” dei Doors, perdonate il mio alto livello di figaggine) ci stringiamo nella nostra felpa logora sciogliendoci con i Radiohead in cuffia ben consapevoli che tutto cambia, tutto è imprevedibile, tutto è impermanente e, una volta nati, son tutti cazzi nostri. Ma questo non ci rende depressi, non ci porterà a una corda al collo, al contrario ci godremo la vita, l’amicizia, i viaggi e l’amore come tutti. Semplicemente, di tanto in tanto, ci immalinconiremo nel prendere atto che alcune cose che non ci sono più ci mancano, o ci dispiaceremo al pensiero che certe estati non durino per sempre, che i Police non torneranno più insieme, che non ci sarà mai una nuova puntata di Happy Days, che nostro padre non tornerà la roccia che era, eccetera eccetera. E lo so, lo so, “bisognerebbe vivere nel presente” dicono i guru, ma anche “e sti cazzi” rispondiamo noi.
La società attuale non contempla più la tristezza, l’imperfezione e, tanto meno, la malinconia. Devi essere sempre felice, sorridente, sano, bello, ben conscio di dove stai andando e perché. L’ aspetto vincente tout court dell’esistere è ormai talmente importante da aver fatto nascere un florido business per aiutarti a raggiungere l’obbiettivo. L’importante è non apparire insicuri, tristi e malinconici. L’importante è nascondere le proprie debolezze davanti al mondo. Che è un po’ come vivere una vita mascherati o, per dirla più modernamente, con il filtro perenne di Instagram sulla nostra espressione migliore.
Ho sempre odiato questo modo di vedere la vita, e per svariate ragioni. Sono sempre stato un tipo insicuro, spaventato, spesso a pochi passi dal cadere di sotto, vittima se non proprio di una profonda tristezza, certamente di un’avvolgente malinconia. Così avvolgente da diventare quasi una sorta di coperta calda a cui, dopo tanti anni, mi sono affezionato. Già perché la malinconia non è una cosa brutta. Anzi. Ogni tanto vivere come dentro un video triste che va avanti al rallentatore per ore e ore non è niente male. Soprattutto se hai la musica a farti compagnia.
Tutti noi, durante un momento difficile, ci siamo ritrovati avvolti nel nostro maglione sformato – quello che indossiamo in quelle giornate un po’ così – ad osservare la pioggia che cadeva dalla finestra mentre una playlist a tema invadeva la stanza con i suoi suoni perfetti per la situazione. Proprio come se ogni canzone ci scavasse dentro. Adoravo farlo a vent’anni e adoro farlo anche oggi che ne ho più di quaranta. Certo, adesso che sono papà posso cullarmi molto meno nell’apatia esistenziale ma ogni tanto, se capita, mi concedo anche io di essere malinconico. Vedo il ‘momento nostalgia’ non come un nemico da abbattere ma uno stop necessario per rallentare un po’, ripassare le cose veramente importanti e poi ripartire. Anche perché con la tristezza c’è poco da fare, devi solo aspettare che passi. Come un temporale. Quando piove non andiamo ad agitare i pugni contro le nuvole urlando al cielo di smetterla di frignare, perché sappiamo non servirebbe a nulla.
Ci sediamo comodamente al riparo, osserviamo le nuvole e aspettiamo che spiova, cosa che regolarmente accadde.
Come insegnano i grandi saggi orientali – non quelli in tuta da ginnastica che fanno milioni di views su youtube e poi finiscono sui giornali per aver molestato qualche ragazzino, parlo dei saggi veri – arriva la tristezza, poi la gioia, ancora e ancora. Tutto viene e tutto va. È solo un mood mentale, che prima e poi passerà esattamente come prima o poi smette sempre di piovere. Tolta quella tristezza che proviene da effettivi traumi, che so una malattia, un lutto, o l’amore della nostra vita che ci lascia per sempre, il 90% della nostra infelicità nasce dentro di noi e dipende da quante nuvole ci portiamo dentro in quel momento. Infatti gli stessi accadimenti vengono vissuti in maniera diversa a seconda del nostro umore. Se ci tamponano in macchina una mattina in cui siamo incazzati, in ritardo e siamo stati appena multati dai vigili ci incazziamo come dei puma, ma se invece ne veniamo da casa di quella rocker tatuatissima che è la nostra vicina, la quale ci ha accolto in perizoma prima di sedurci sulle note di White and Bleed degli Slipknot, e in più abbiamo vinto un biglietto omaggio per il concerto dei Rolling Stones, probabilmente di quel colpetto sul parafango non ce ne fregherà niente. Congederemo il tamponatore del mattino con una pacca sulla spalla, semplicemente dicendogli: “Tranquillo, fratello, son cose che succedono, vai pure. E buona giornata”.
Capito l’antifona? La macchina umana è tanto semplice quanto complessa.
In conclusione, amici, non c’è niente di male a essere giù di morale, a sentirsi degli impiastri o a non apparire fighi come ci vorrebbero gli altri. Essere forti non significa non andare mai al tappeto ma avere la capacità di accettare i brutti momenti, affrontarli e rialzarsi. E poi ricordate, le sensazioni che ci attraversano, belle o brutte che siano, sono come nuvole che attraversano il cielo. È sicuro che arriveranno come è sicuro che se ne andranno. Ma noi siamo il cielo, che sotto quelle nuvole, resta sempre azzurro.
Quindi, citando il Grande Lebowski, prendiamola un po’ come viene e, mentre lo facciamo, possibilmente ascoltiamo qualche bella canzone.
Ora vi saluto, metto “Kid A” in cuffia, alzo il cappuccio della felpa e abbraccio forte il mio malconcio ma adorabile armadillo interiore. Ma lo sapete che è davvero morbido?

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Il tè nel deserto

Il potere del cane

Jane Campion è tornata con un altro film da premio, questa volta Leone d’Argento all’ultimo festival del cinema di Venezia. Con Il potere del cane la regista neozelandese riprende con un altro ritratto di donna, che vive in una situazione oppressa e non certo favorevole. Il film è tratto dal romanzo scritto da Thomas Savage nel 1967 ed è ambientato nel West, tra i campi sterminati e aridi del Montana.
Se lo sguardo è benevolo e decisamente di parte nei confronti di Rose (l’attrice Kirsten Dunst), nel libro e nel film ci sono anche due uomini: i due fratelli Burbank diametralmente opposti nei caratteri. Phil (Benedict Cumberbatch) è il classico cowboy, burbero, solo, di poche parole e quelle poche sono grevi o crudeli; George è buono, altruista, attento e costruttivo. Quando George sposa Rose i tre convivono nella fattoria, anche con il figlio adolescente di Rose e la vita, già non del tutto semplice di Rose si trasforma in una sorta di schiavitù. La regista di film premiati come Un angelo alla mia tavola e Lezioni di piano sembra essere ancora affascinata da storie che mettono i personaggi in situazioni estreme, alla ricerca di ritratti psicologici raffinati che ancora una volta si concentrano nella descrizione della complessità femminile, in contrasto ad atteggiamenti convenzionalmente richiesti.

  • Barbara Sorrentini

    Laureata in filosofia, giornalista, conduttrice e autrice a Radio Popolare. Dal 2002 cura e conduce la trasmissione “Chassis” e per qualche anno ha realizzato “Vogliamo anche le rose”, dedicata ai documentari. Per Radio Popolare ha condotto i diversi contenitori culturali e tuttora realizza servizi e interviste per trasmissioni e Gr. Tra le ultime trasmissioni “A casa con voi” e “Fino alle 8” con la rassegna stampa del mattino. È stata direttrice artistica del Festival dei beni confiscati alle mafie. Ha collaborato con La Repubblica, E-Il Mensile, Pagina 99, blogger per MicroMega, Cineforum Web, Cinecittà News, 8 1/2. È tra i curatori del libro Entretiens- Nanni Moretti, edito dai Cahiers du Cinéma, ed è tra gli autori della Guida ai film per ragazzi (Il Castoro). È stata consulente dell’Assessorato alla Cultura di Milano (2012-2013).

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    Metroregione è il notiziario regionale di Radio Popolare. Racconta le notizie che arrivano dal territorio della Lombardia, con particolare attenzione ai fatti che riguardano la politica locale, le lotte sindacali e le questioni che riguardano i nuovi cittadini. Da Milano agli altri capoluoghi di provincia lombardi, senza dimenticare i comuni più piccoli, da dove possono arrivare storie esemplificative dei cambiamenti della nostra società.

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    Bollicine - 16-03-2025

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    I reportage e le inchieste di Radio Popolare Il lavoro degli inviati, corrispondenti e redattori di Radio Popolare e Popolare Network sulla società, la politica, gli avvenimenti internazionali, la cultura, la musica.

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    Giocare col fuoco di domenica 16/03/2025

    Giocare col fuoco: storie, canzoni, poesie di e con Fabrizio Coppola Un contenitore di musica e letteratura senza alcuna preclusione di genere, né musicale né letterario. Ci muoveremo seguendo i percorsi segreti che legano le opere l’una all’altra, come a unire una serie di puntini immaginari su una mappa del tesoro. Memoir e saggi, fiction e non fiction, poesia (moltissima poesia), musica classica, folk, pop e r’n’r, mescolati insieme per provare a rimettere a fuoco la centralità dell’esperienza umana e del racconto che siamo in grado di farne.

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    Una trasmissione settimanale  a cura di Anaïs Poirot-Gorse con in regia Nicola Mogno. Una trasmissione nata su Shareradio, webradio metropolitana milanese che cerca di ridare un spazio di parola a tutti i ragazzi dei centri di aggregazione giovanili di Milano con cui svolgiamo regolarmente laboratori radiofonici.

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    Quaranta minuti di musica e dialoghi cinematografici trasposti, isolati, destrutturati per creare nuove forme emotive di ascolto. Ogni domenica dalle 13.20 alle 14.00, a cura di Stefano Ghittoni.

    Comizi d’amore - 16-03-2025

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