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Mia cara Olympe

Nell’ultima riga, le speranze

No, non è il Natale che ci aspettavamo. E non lo saranno il Capodanno, e l’Epifania.

No, non è così che ce l’eravamo dipinti, noi più ‘virtuosi’ di altri, noi più sfortunati e colpiti di altri all’apice durissimo della pandemia. Noi che mettiamo in atto un’aspettativa risarcitoria e lo facciamo sempre pur sapendo assai bene quanto sia fallace. Abbiamo stretto i denti, abbiamo sopportato, siamo stati disciplinatamente alle regole, abbiamo vissuto perdite e lontananze, guai e fatiche, ci siamo messi in fila per i benvenuti vaccini: che qualcuno ora ci dia un Natale che sembri almeno un po’ Natale, in cui ci si possa vedere e abbracciare e fare un po’ festa, pensavamo. Che ci ripaghi, insomma, di quello in zona rossa dello scorso anno e di tutto il resto: d’accordo, sarà un pensiero puerile e un po’ magico, soprattutto per le anime laiche, ma alzi la mano chi di noi non lo ha fatto.

Invece. Saltano cene, viaggi, incontri, partenze, ritorni e programmi come i tappi delle bottiglie nei capodanni che ci siamo dimenticati, le file per i tamponi sono interminabili e così le quarantene, in ogni casa c’è una storia che ha il sapore della rinuncia e nessuno sembra indenne dall’avere parenti e amici alle prese con il Covid. Non la bestia cattiva di prima dei vaccini, ma comunque Covid. È ancora un Natale di piena pandemia.

Reggetevi ai sostegni, sentono ripetere costantemente i passeggeri della metropolitana di Milano: e non basta l’avviso se poi, com’è accaduto ancora una volta nei giorni scorsi, una bruschissima frenata d’emergenza riesce a spedire una decina di persone al pronto soccorso. Ma, incidente a parte e cause che si vorrebbe vedere lestamente chiarite e risolte, ogni volta quel richiamo mi appare come l’augurio adatto a questo tempo ancora difficile, sempre incerto, che ha addosso tutta la fatica che abbiamo cumulato.

Reggersi ai sostegni della propria vita, non dimenticarseli, non sottovalutarli: dirseli e ridirseli, contarli e ricontarli sulle dita, scrutarli uno per uno, quando occorre. E adesso, più di altri momenti, occorre. Sostegni di ogni tipo e ciascuna e ciascuno sa cosa mettere nella propria lista, che è unica ed è  questo il suo bello. Lo farò anche io e nella mia lista dei sostegni ci sono, come nel gioco che si faceva da piccoli, nomi, cose, città, fiori eccetera. L’ultima riga, però, nel gioco non c’era e la tengo per le speranze. 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Bad Input

Ve la ricordate Immuni? È viva e lotta insieme a noi

Aumento di contagi, spesso senza sintomi. Almeno per i più fortunati. A mancare in questa fase, sostengono tutti, è un sistema di tracciamento efficace.

Domanda: quanti stanno utilizzando Immuni? Lo so, l’app non è particolarmente efficace e non ha di certo “sfondato” nell’opinione pubblica. In questo momento, però, potrebbe essere utile. Soprattutto per scovare quei casi positivi asintomatici che rischiano di passare inosservati ma alimentano la pandemia.

Capiamoci: Immuni, da sola, non permetterà mai di eseguire un tracciamento puntuale, ma magari qualche caso ce lo può risparmiare.

Stando ai dati forniti dal sito ufficiale,  è stata scaricata 18 milioni di volte. Nella maggior parte dei casi, però, le persone lo hanno fatto solo per conservare il Green Pass.

Una volta installata, però, tanto vale usarla… no?

  • Marco Schiaffino

    Dopo una (breve) esperienza come avvocato, nel lontano 2000 mi sono trovato quasi per caso a scrivere di Internet e nuove tecnologie, quando il Web e il digitale erano una specie di hobby per smanettoni e appassionati di fantascienza. Mentre continuavo a scrivere per la mia banda di nerd, mi dannavo per trovare il modo di passare a quello che pensavo fosse un giornalismo “più serio”. Qualche volta ce l’ho anche fatta. Poi è successa una cosa strana: quello di cui mi occupavo da anni, ha cominciato a interessare tutti. Ho smesso di dannarmi.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Rilassati, un giorno morirai! Piccole riflessioni per uscire dalla paura

Guardiamo in faccia la realtà: la vita è insicura, breve e pericolosa.
Lo è sempre stata, ultimamente persino di più. Quindi, per quanto giovane e in salute tu sia, rilassati, perché un giorno morirai. Ogni minuto che passa ci avvicina tutti alla tomba. E questo che ci piaccia oppure no. Siamo un lampo brevissimo in un lungo spazio scuro. Brrr, che brutta immagine. Diamone una un po’ più simpatica. Siamo come quei pop-up che appaiono un secondo o due nel nostro computer, e quando ci accorgiamo della loro presenza se ne sono già andati. Alcuni sono belli, luminosi e li notiamo per la loro capacità di brillare. Di altri invece non ci accorgiamo per niente e svaniscono senza che nessuno se ne accorga. Eppure entrambi hanno una cosa in comune: la loro presenza nel monitor del nostro pc è brevissima. Esattamente come la vita di ogni uomo o donna su questa terra.
Possiamo preoccuparci, spaventarci, intristirci per questa ineluttabile condizione ma questo non cambierà le cose. Il tempo passerà e prima o poi moriremo.
La cosa strana è che la maggior parte di noi vive, agisce e si preoccupa come dovesse vivere per sempre. Se accettassimo la nostra mortalità, probabilmente della nostra vita ne faremmo un uso migliore. Certamente ci incazzeremo meno. Potremmo arrivare persino a ridere della nostra condizione ‘mortale’ e della comicità dell’universo, prendendo in giro tutti quei matti che si picchiano per possedere questo o quello, dimenticando che siamo arrivati in questo mondo senza niente e senza niente da questo mondo ce ne andremo. E svuotando il più possibile la mente dalla pesantezza dei nostri pensieri, un giorno potremmo addirittura arrivare e giocare con la vita, conoscendo più cose possibili del mondo quanto di noi stessi. Sia chiaro: anche in questo secondo caso il tempo passerà ugualmente. Invecchieremo, ci ammaleremo e moriremo, ma magari non oggi. E allora scopriremo che ci sono anche giorni colmi di gioia, profondità e bellezza, e che quando un giorno smetteremo di essere vivi in questa forma mortale torneremo a ricongiungerci con l’energia che soggiace a tutta l’esistenza, sperimentando forme diverse e più sottili di esistenza. Si viene e si va, come canta quel terribile cantautore emiliano che incomprensibilmente in tanti amate. E si ritorna, aggiungerei. Ma non perdiamoci con inutili elucubrazioni filosofiche. Quello che conta è che siamo qui adesso, chiamati a vivere una vita in cui ci riconosciamo completamente. Che poi è l’unica formula infallibile per non avvelenarsela. Senza paura, nessuna paura. Siamo chiamati a vivere tutte le dimensioni possibili che la vita ci serve giorno dopo giorno, belle o brutte che siano. Molte persone vanno dal proprio confidente spirituale – che sia un prete, un monaco, un mullah o un guru – e spesso chiedono: “Padre la prego mi benedica, faccia che non mi accada nulla”. Concettualmente le capisco, sono un cacasotto patentato, ma se ci ripensiamo un attimo, che diavolo di benedizione è? La vera benedizione è che possa accaderci di tutto. Siamo venuti qui per evitare la vita oppure per viverla?
Se siamo venuti per vivere, la benedizione è che le cose ci accadano. Se invece non vogliamo vivere la vita, che in estrema sintesi è un turbinio di avvenimenti continui, cerchiamoci pure un ponte per lanciarci giù perché stare al mondo senza vivere risulta più penoso che essere già morti.
In estrema sintesi, si vive per vivere e fare esperienza. È tutto molto semplice. Quando sei vivo, vivi. E quando sei morto, muori. Ora respiriamo tutti inseme, concentriamoci sui nostri piedi che fanno un passo dietro l’altro… e andiamo.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Appunti sulla mondialità

Quale lavoro in futuro?

Nel 2017 Bill Gates, fondatore di Microsoft, lanciò l’idea provocatoria di tassare il lavoro che, in futuro, sarebbe stato svolto dai robot a discapito degli esseri umani occupati nell’industria. Ma il suo allarme fu considerato prematuro e cadde nel vuoto. Invece la sostituzione di manodopera umana con i robot, e più in generale con l’intelligenza artificiale, sta facendo passi da gigante. Si tratta di una riproposizione di ciò che accadde con le delocalizzazioni dell’industria negli anni ’90, quando attraverso il nomadismo delle aziende alla ricerca di Paesi con bassi stipendi si cercava – con successo – di abbattere i costi di produzione. Quei maggiori margini di guadagno, ormai è storia nota, in massima parte non andarono a vantaggio dei consumatori ma si tradussero in capitali accumulati in Paesi esentasse. Ora, con l’introduzione massiccia dell’intelligenza artificiale nei processi industriali, non ci sarà più bisogno nemmeno di migrare: per le aziende, i costi caleranno senza bisogno di uscire dai propri confini.

Secondo diverse indagini, nei soli Stati Uniti nei prossimi anni l’automazione farà perdere dagli 8 ai 15 milioni di posti di lavoro. E in prospettiva, secondo gli esperti, la sostituzione dell’attività umana potrebbe andare a intaccare il 45% circa dei lavori attualmente svolti. Questo processo di erosione dell’occupazione si somma ai costi e alle trasformazioni del sistema produttivo imposti dalla transizione ecologica che i Paesi occidentali, nel tentativo di porre rimedio al cambiamento climatico, hanno giustamente intrapreso. L’industria automobilistica europea, che dal 2035 non dovrebbe produrre più motori termici, potrebbe perdere mezzo milioni di posti di lavoro, solo in parte assorbiti dalla nuova occupazione creata dallo sfruttamento dell’energia rinnovabile. Per non parlare del ciclo industriale del petrolio, che è interessato sia dall’automazione (nella fase di trivellazione), sia dalle ricadute della transizione ecologia (nei settori della raffinazione e distribuzione dei derivati, in declino per via dei cambiamenti nella motorizzazione).

Si pone quindi un problema gigantesco per l’occupazione, paragonabile a quello determinato dalla rivoluzione industriale. Nell’800 i posti di lavoro, eliminati soprattutto nell’agricoltura, erano automaticamente ricreati nell’industria e nei servizi: semplificando, il cocchiere poteva diventare autista, il mezzadro operaio. Anche questa volta l’agricoltura è stata il primo settore nel quale sono comparsi i cambiamenti, con l’introduzione massiccia di macchinari che hanno ridotto al lumicino l’occupazione nel settore cerealicolo e dell’allevamento, risparmiando solo – almeno per ora – il ciclo della frutta e degli ortaggi. La differenza è che oggi il combinato disposto di irruzione dell’intelligenza artificiale nei cicli produttivi e decarbonizzazione del settore energetico sembra destinato a creare un duplice problema: dove troveranno impiego le persone che perdono i posti di lavoro? E come si potrà reggere un sistema pensionistico e di welfare in cui i “sostituti” dei lavoratori non verseranno contributi?

Questo è uno degli aspetti bui delle rivoluzioni green e smart. Tutto il dibattito si concentra sugli aspetti ambientali e sulle questioni produttive, raramente tocca l’aspetto occupazionale, quasi mai allarga il campo fino a comprendere le ricadute sulla società nel suo complesso.

L’ottimismo della volontà, largamente profuso dalla pubblicistica aziendale, non basta. Le promesse dei populisti della Silicon Valley sul futuro radioso dell’umanità, che sarebbe garantito a patto di usare i loro prodotti, non sono sostenute dai dati di fatto. Quella proposta di Bill Gates, di introdurre un prelievo fiscale extra per le imprese che costruiscono i robot e per quelle che li utilizzano al posto dei lavoratori, è rimasta un fatto isolato, nascosto nel silenzio generale. Si continuerà a ignorarla finché l’agenda della globalizzazione ci costringerà a recuperare e ad aprire questo capitolo: ma probabilmente ciò accadrà quando i problemi saranno già grandi e bisognerà ricorrere a criteri emergenziali.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Vista da qui

La rivolta di Campobello come banco di prova per nuove lotte bracciantili

*Le informazioni riportate nel testo sono frutto delle nostre osservazioni sul campo e di due interviste fatte con Martina Lo Cascio, ricercatrice e attivista del gruppo Contadinazioni, e Simone Cremaschi, assegnista di ricerca all’Università Bocconi.

È di pochi giorni fa la notizia delle dimissioni del prefetto Michele di Bari, capo del dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, dopo che sua moglie è risultata indagata per caporalato nel foggiano. Una notizia di grossa portata proprio perché, in quanto braccio destro della Ministra Lamorgese, Di Bari negli ultimi anni ha gestito tutti i protocolli di prevenzione del caporalato e fatto regolari visite ai paesi del sud Italia dove la legge contro il caporalato viene più spesso utilizzata. I giornali nazionali hanno riportato la notizia e intervistato il prefetto, mettendo in risalto che l’accusa secondo cui la «Rosalba Livrerio Bisceglia, moglie di Di Bari, trattava direttamente con il “caporale” gambiano Bakary Saidy, arrestato ieri» è ancora tutta da dimostrare. Le uniche due persone ad essere state portate in carcere, intanto, sono i presunti “caporali”, uno gambiano e l’altro senegalese. A loro, però, i giornali italiani non lasciano il beneficio del dubbio, né tantomeno si sono interrogati su quali siano le cause che portano allo sfruttamento in agricoltura.
La retorica distorta dell’informazione italiana offre lo spunto per una riflessione più ampia su quale sia la realtà non raccontata dei cosiddetti “ghetti” italiani, sulle dinamiche al loro interno, sul ruolo delle istituzioni e di chi prova a fare politica in queste periferie d’Italia, lavoratori braccianti inclusi. La nostra riflessione comincia a Campobello di Mazara, uno degli ultimi insediamenti visitati da Di Bari, giusto qualche settimana prima delle sue dimissioni.

Lo sguardo dei lavoratori

Campobello di Mazara si trova a pochi chilometri dal mare del Canale di Sicilia, in una piana ad est di Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, dove i campi di ulivo si estendono sterminati per decine di chilometri. D’estate la zona è meta turistica assai frequentata, come tutta la Sicilia d’altronde. Ma già da fine agosto, Campobello inizia a popolarsi di lavoratori stagionali, che ogni anno arrivano a migliaia per la raccolta delle olive da tavola, che a Campobello è – insieme proprio al turismo – l’attività trainante dell’economia locale.
Molti di questi lavoratori stagionali, come è noto, abitano in insediamenti informali in condizioni molto degradate per i normali standard di luce, acqua e gas a cui siamo abituati. Inoltre, vivono gravi condizioni di sfruttamento lavorativo e subiscono il ricatto della mancata regolarizzazione. Di tutto questo abbiamo racconti, spesso sensazionalistici, che arrivano fin sulla grande stampa; ma delle storie di resistenza, come la rivolta avvenuta durante quest’ultima stagione di raccolta, si sa poco nonostante l’importanza che questa ha avuto per i braccianti razzializzati e che può avere anche per tutti e tutte noi. Quest’anno, a Campobello, molti lavoratori hanno deciso di ribellarsi perché nella notte tra il 29 e il 30 settembre nel campo abitativo informale dove risiedevano è scoppiato un grosso incendio improvviso – ma figlio di anni di assenza di interventi istituzionali – che ha ucciso uno di loro, Omar Baldeh, e che ha distrutto la maggior parte del campo dove abitavano.
Raccontare la storia di Campobello di Mazara, e raccontarla dal punto di vista dei lavoratori, ci aiuterà a capire come le filiere dell’agricoltura della grande distribuzione organizzata diano vita a forme di abitare che sono strettamente legate allo sfruttamento imposto dalla filiera. E di come i lavoratori razzializzati, nonostante sfruttamento e marginalizzazione, siano in grado di organizzarsi in modi e forme autonome.

La monocoltura delle olive e la forza lavoro bracciante

L’oliva nocellara del Belice che si produce a Campobello è un’oliva certificata, che richiede la raccolta a mano per rispettare gli standard estetici che un certo tipo di certificazione richiede. Non da sempre però questa pregiata oliva è stata il prodotto unico e totalizzante dell’agricoltura locale. Come ci spiega Martina Lo Cascio, attivista del gruppo Contadinazioni e ricercatrice, il settore agricolo locale è cambiato drasticamente a partire dalla fine degli anni ‘80 con un doppio processo di modernizzazione dell’agricoltura e di strutturazione in filiere produttive. Quello che è avvenuto è che da un regime produttivo fondato sulla biodiversità agricola, si è passati ad un regime a monocoltura intensiva. Questo processo è andato di pari passo con un secondo ordine di trasformazioni, ossia il passaggio da una produzione familiare ad una che, seppur ancora a trazione familiare, richiede anche l’utilizzo di manodopera subordinata. Qui entra in gioco la manodopera di origine straniera, anello ideale per garantire qualità del prodotto (dato dalla raccolta a mano non meccanizzata) e monocoltura produttiva (la cui stagione di raccolta in un periodo relativamente breve richiede manodopera flessibile e “just in time”). In ragione di questo particolare assetto, la forza lavoro stagionale ha costituito la risposta alle esigenze produttive di un capitalismo locale pienamente inserito nella catena della grande distribuzione organizzata, fondato sulla compressione salariale e l’invisibilizzazione dei lavoratori.
Da diversi anni, dunque, a Campobello come in tanti altri piccoli centri non urbani del Mezzogiorno d’Italia, esistono e si susseguono diversi ‘ghetti stagionali’. Ogni anno, nei diversi “luoghi della raccolta”, quando arriva il momento della raccolta il campo si ripopola, nonostante ci sia sempre qualcuno che sceglie di rimanere a viverci tutto l’anno.

Scegliere di abitare in un campo informale

Le condizioni abitative a Campobello, come è immaginabile, sono difficili proprio per la natura informale del campo. Esso era costituito di baracche in legno e plastica e attrezzato perlopiù con bombole a gas, quadri elettrici auto-costruiti e cisterne dell’acqua. Lo scorso anno a Campobello l’acqua è arrivata proprio grazie alla raccolta fondi “Portiamo l’acqua al ghetto”, organizzata da Fuorimercato[1], che ha permesso di comprare alcune taniche d’acqua da sistemare nel campo.
Eppure, i Comuni interessati dalla raccolta stagionale, in alcuni casi, si propongono di allestire per i lavoratori soluzioni abitative alternative. Allora viene da chiedersi perché, nonostante le condizioni dure dei campi abitativi informali, i lavoratori e le lavoratrici scelgano tali insediamenti e li preferiscano a soluzioni prefabbricate proposte dalle istituzioni. Simone Cremaschi, ricercatore che si è occupato a lungo di ghetti del foggiano, spiega che «nei campi istituzionali ti fanno pesare la tua posizione di sudditanza nei confronti dei gestori del campo. Oltre alla libertà, che non è di poco conto, il ghetto ti permette di stare vicino a più opportunità di lavoro e di “ricchezza”». Inoltre, ci sono tutta una serie di altre persone che «lo scelgono a causa di mancanza di documenti, mancanza di reti familiari in Italia, pressioni familiari sulla necessità di guadagnare qualcosa da mandare “a casa”, e scelgono di vivere in questi posti, guadagnando sia del lavoro in agricoltura che del lavoro informale nei campi». Infatti la storia dei campi istituzionali racconta di una costante differenziazione tra i lavoratori: può entrare solo chi ha i documenti, spesso è richiesto anche un contratto di lavoro, un contributo giornaliero e, quest’anno, anche il green pass. All’interno poi, in quasi nessun caso è permesso cucinare, e si servono pasta o riso che poco hanno a che fare con la dieta tipica dei lavoratori stranieri.
Sotto questa luce si capisce meglio perché, ad esempio, dopo l’incendio e la distruzione del ‘ghetto’ di Campobello, nonostante sia arrivata la proposta di soggiornare negli alberghi della zona, i lavoratori si siano rifiutati. Seck Masseck, uno dei lavoratori organizzati di Fuorimercato, interpretando il sentimento collettivo, ha dichiarato «siamo stanchi di parlare, vogliamo rimanere qua e non vogliamo andare da nessun’altra parte e non vogliamo dividerci perché siamo fratelli».

La rivolta dei braccianti e le sue radici

La mattina dopo l’incendio, i lavoratori abitanti del ghetto, insieme ad un gruppo di solidali, sono partiti in corteo verso un ex-oleificio, in cui avevano vissuto in anni passati – prima che le istituzioni lì inaugurassero una tendopoli istituzionale temporanea – e che è in condizioni decisamente migliori rispetto al campo appena bruciato, e in quel luogo hanno iniziato a costruire il nuovo campo, resistendo allo sgombero da parte delle forze dell’ordine. Infatti, in quello stesso spazio la Prefettura voleva costruire il campo della Croce Rossa a cui si poteva accedere solo con green pass e permesso di soggiorno. Attraverso la resistenza, i braccianti si sono dunque garantiti condizioni abitative relativamente migliori (accesso all’acqua, elettricità e asfalto invece che terra sotto ai piedi), ribadendo che per loro «la cosa più importante è stare insieme». Questa vittoria è estremamente interessante perché è l’esito di un lungo processo di costruzione di “istituzioni” autonome della forza bracciante che ha avuto nell’assemblea dei lavoratori inaugurata il giorno dopo l’incendio una svolta essenziale. L’avvenimento tragico ha senz’altro funzionato da detonatore ma l’intera vicenda di lotta e auto-organizzazione di questi mesi offre un buon banco di riflessione intorno alle pratiche di conflitto e organizzazione autonoma dei lavoratori. Ci dice insomma, di alcuni semi che sono stati piantati e che piano piano hanno cominciato a germogliare.
Martina Lo Cascio, che ha preso parte attiva in questa lotta, spiega che «l’incendio ha accelerato dei processi rivendicativi: il corteo dà il segno che nel momento in cui è necessario rendere visibile un’azione di riappropriazione, i lavoratori sono stati in grado di farlo». E questo, prosegue la ricercatrice, «ha permesso una fiducia nuova che ha rotto il ritmo del “ogni anno non cambia niente”». Andare a insediarsi in maniera autonoma all’ex-oleificio ha dato coraggio a molti lavoratori che hanno cominciato a riconoscersi nell’associazione Fuorimercato. Un elemento chiave di attivazione può essere stato questo: i numeri dei lavoratori erano molto contenuti rispetto agli altri anni ed è stato possibile condurre alcuni scioperi e una trattativa senza mediazione con i datori di lavoro. E questo ha portato risultati salariali sul prezzo del lavoro a cottimo e sul pagamento delle cassette.
Più in generale, Lo Cascio sostiene che diversi fattori hanno contribuito alla rivolta dei lavoratori: innanzitutto «negli anni, Campobello è stata poco mediatizzata e completamente abbandonata dalle istituzioni, questo ha avuto un lato positivo e cioè ha permesso l’auto-organizzazione dei campi». E, a partire da questa auto-organizzazione, «è stata fondamentale la formazione sindacale che dopo anni di campagna “Portiamo l’acqua al ghetto” ha portato alla creazione di una dinamica assembleare». Insomma, si è lavorato molto negli scorsi anni su che cosa significa essere gruppo, e i risultati si cominciano finalmente a vedere. Soprattutto, si è capito che se si intende migliorare la condizione dei lavoratori è doveroso mettersi in ascolto di alcune rivendicazioni specifiche che provengono direttamente dal movimento dei lavoratori razzializzati e che, al di là delle astratte ideologie, ci restituiscono richieste materiali immediate e stringenti.

Oltre il caporalato come problema unico

Molte inchieste giornalistiche hanno restituito racconti di questi ghetti come luoghi di aberrazione e, soprattutto, come luoghi chiave in cui si sviluppa il fenomeno del caporalato. Entrambi i ricercatori intervistati sostengono invece che la situazione sia più complessa: il ghetto è sì un luogo funzionale in quanto centro di smistamento dei lavoratori, ma il caporale malvagio e violento è una realtà che, almeno nei ghetti west-africani, non esiste. In Puglia, ci spiega Cremaschi, il caporale esiste perché rappresenta una soluzione di mercato a un vuoto strutturale che è la mancanza di intermediazione tra datore di lavoro e lavoratore. Ed essendo questo un servizio, peraltro necessario ad ambo le parti, il caporale si fa pagare molto. In questo senso, i caporali sono imprenditori e ci sono vari livelli di “azienda caporale”, con anche diverse stratificazioni e divisioni lavorative.
A tal proposito, le retoriche criminalizzanti nei confronti dei caporali, portate avanti anche e soprattutto dai sindacati confederali che si recano nei ghetti a dire “il vostro sfruttamento è colpa dei caporali” sembrano non rendersi conto che lavoratore e caporale sono vicini di baracca, magari amici, sicuramente conoscenti all’interno delle relazioni del campo. Allora, ascoltando i lavoratori, si capisce facilmente che il ruolo di intermediazione del caporale è spesso considerato fondamentale perché – in un contesto di lavoro nero o grigio – è l’unica figura in grado di garantire al lavoratore di essere pagato e di non rimanere “truffato” dal datore di lavoro. Viene dunque da pensare che un caporale vada piuttosto giudicato da come usa il suo “potere” per rappresentare le istanze dei lavoratori in situazioni come quella della mobilitazione di Campobello.

Conclusione

A Campobello nelle scorse settimane è andata in scena la possibilità di migliorare le condizioni di vita dei braccianti precari e invisibili. Attraverso la riappropriazione collettiva delle proprie condizioni lavorative, i braccianti hanno posto un primo tassello di auto-organizzazione per provare a invertire un processo di sempre maggiore invisibilizzazione. Va dunque riconosciuto che le modalità di abitare rimangono indissolubilmente legate allo sfruttamento lavorativo: in tutto il Mezzogiorno d’Italia, quando cambia il modo produttivo cambia il modo di abitare. E, allora, perché non immaginare un modo di vivere la terra in maniera diversa? Perché non lottare per il superamento della Grande Distribuzione Organizzata e dei suoi prezzi iniqui? Perché non dare un permesso di soggiorno ai lavoratori braccianti che meritano di essere liberati dal ricatto dello sfruttamento? Di questo e di altro è possibile ragionare se ci si mette in ascolto delle lotte bracciantili che animano le nostre campagne meridionali.

Questo articolo è apparso in doppia pubblicazione anche sul blog “Da qui” di Tamu Edizioni

  • Emilio Caja e Pietro Savastio

    Emilio Caja e Pietro Savastio sono ricercatori indipendenti e collaborano con varie riviste, enti di ricerca e università. Sono stati e continuano ad essere partecipi di diverse esperienze di attivismo politico e sociale. Emilio lavora all'università e ha un piede sotto l’Etna, Pietro lavora nella scuola e ha due piedi sotto il Vesuvio: “da qui” è la prospettiva del Sud da cui guardano al mondo, dopo essere stati a spasso per l’Europa del Nord a studiare e formarsi.

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    News della notte di venerdì 29/11/2024

    L’ultimo approfondimento dei temi d’attualità in chiusura di giornata

    News della notte - 29-11-2024

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    Gli speciali di venerdì 29/11/2024 - ore 21:30

    I reportage e le inchieste di Radio Popolare Il lavoro degli inviati, corrispondenti e redattori di Radio Popolare e Popolare Network sulla società, la politica, gli avvenimenti internazionali, la cultura, la musica.

    Gli speciali - 29-11-2024

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    Sui Generis di venerdì 29/11/2024

    Una trasmissione che parla di donne e altre stranezze. Attualità, cultura, approfondimenti su femminismi e questioni di genere. A cura di Elena Mordiglia.

    Sui Generis - 29-11-2024

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    In Gran Bretagna al via l'iter di una legge sul fine vita

    Il parlamento britannico ha dato il via libera in "seconda lettura" alla proposta di legge sul fine vita. La norma, presentata dalla deputata laburista Kim Leaderbeater prevede la possibilità della "morte assistita" per chiunque abbia da 18 anni in su e una diagnosi d'aspettativa di vita di non oltre 6 mesi, con il consenso dei medici curanti. Ha ottenuto 330 sì e 275 no, con divisioni in tutti i maggiori partiti. L'iter verso l'approvazione finale richiederà diversi mesi, ma l'indicazione è che una maggioranza trasversale c'è. Ne abbiamo parlato con il nostro collaboratore dal Regno Unito Daniele Fisichella.

    Clip - 29-11-2024

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    L'Orizzonte delle Venti di venerdì 29/11/2024

    Una rivolta sociale è ancora possibile? Lo sciopero generale di Cgil, Uil e delle altre sigle sindacali di base ha portato in decine di piazze italiane circa 500mila persone. Maurizio Landini ha detto di voler “rivoltare come un guanto il paese”, ma che per farlo c’è bisogno della partecipazione di tutti. Lo sciopero di oggi è stato indetto, infatti, anche per chi scioperare non può, per chi è precario e non garantito. Nonostante i bisogni siano urgenti più che mai, tanti lavoratori preferiscono non scioperare o non si sentono chiamati in causa. Ma in una società – che per quanto riguarda il lavoro – è sempre più individualista e frammentata da decenni di precariato, esiste ancora una dimensione collettiva? E come la si allarga? L’Orizzonte delle Venti ne ha parlato con Nadia Garbellini, professoressa di economia politica all’università di Modena e Reggio Emilia, Marco Furfaro, responsabile iniziative politiche, contrasto alle diseguaglianze e welfare del PD, e Massimo Alberti. A cura di Mattia Guastafierro.

    L’Orizzonte delle Venti - 29-11-2024

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    Giornale Radio venerdì 29/11 19:30

    Le notizie. I protagonisti. Le opinioni. Le analisi. Tutto questo nelle tre edizioni principali del notiziario di Radio Popolare, al mattino, a metà giornata e alla sera.

    Giornale Radio - 29-11-2024

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