A Natale siamo tutti più buoni. Così dicono.
E anche in festività surreali come queste, con la spada di Omicron sul collo e la corsa ad arrivare negativi almeno a Capodanno, vien da pensare che se anche non lo siamo, magari sarà che almeno appariamo così, più disposti ad aiutare il prossimo e a servirlo. Sì, sì, sicuro. Sarà così.
E allora dovrebbe valere anche a scuola… anche se questa sembrerebbe in tutto ciò non averci niente a che fare (sono pure chiuse, in questo periodo… e forse pure il 10 gennaio quando ritorneremo?… Dad? Non Dad? Boh…). Ma, in ogni caso, è comunque questo il momento migliore per raccontarvi ciò che è successo, un mesetto fa, a Mestre, dal 24 al 26 Novembre 2021, al “Festival Nazionale del Service Learning”, organizzato da INDIRE.
Io c’ero: e solo ora vi sarà chiaro il pietoso e raffazzonato espediente narrativo del collegamento alle feste, alla bontà e al servizio: semplicemente, se ci fosse andato qualcun altro, questo pezzo lo avrebbe scritto molto prima.
Ma ciancio alle bande: innanzitutto, che è cos’è il “Service Learning”? Il concetto sarebbe semplice: dicesi “Service Learnig” qualunque attività didattica “atta a promuovere l’ideazione di percorsi di apprendimento (learning) finalizzati alla realizzazione di un servizio (service) che soddisfi un bisogno vero e sentito sul territorio”. In pratica, è quando una scuola progetta attività a partire da situazioni problematiche reali del contesto socio-economico della zona o del quartiere in cui si trova: gli studenti sono guidati a compiere, mentre imparano, concrete azioni in favore della comunità. Si capisce subito che così inteso il Service Learning non è tanto un metodologia, specifica e prescrittiva, quanto un valorizzatore dei metodi didattici.
“Quindi, prof. di Tecnica, prepariamo il catrame per coprire le buche dell’asfalto davanti scuola, cosi noi apprendiamo qualcosa sui materiali, e giacché tutto il quartiere la smette di versare lo stipendio direttamente al gommista, con corredo di bestemmie?” Non proprio, andiamoci piano, ma l’esempio potrebbe rendere l’idea, perché queste iniziative si propongono di attivare, sempre al fine di stabilire un circolo virtuoso tra apprendimento degli alunni in aula e servizio solidale alla comunità, anche una fattiva collaborazione con le Istituzioni locali. Si possono fare tante cose, in effetti, in questo senso: affidare agli studenti la raccolta di alcuni tipi di rifiuti del quartiere e progettare un loro riutilizzo; subappaltare l’animazione del Centro Anziani della parrocchia ai ragazzi della Media vicina; coltivare un pezzo di terra del giardino scolastico per condividere con la comunità frutti, cura e competenze necessarie a far crescere il nostro bel ravanello… e così via. Tutti progetti realmente presentati al Festival.
E tanti i relatori presenti a dir la loro.
Ad esempio, Italo Fiorin, di Lumsa-Scuola di Alta Formazione EIS (che introduce e modera), sottolinea subito come questo approccio didattico, nato negli Stati Uniti e che vive oggi un momento di vivissima fioritura in America Latina, sia arrivato in Italia abbastanza in ritardo. É un peccato, perché niente come il Service Learning aiuta un sistema scolastico non solo ad aprirsi alle esigenze concrete del territorio (molto più di qualunque “Alternanza Scuola-Lavoro”), ma anche a ispirare attività concrete per il nuovo insegnamento di “Educazione Civica”, secondo la Legge 92/2019, di cui il Service Learning dovrebbe essere il cuore. Attraverso di esso, la qualità del servizio offerto migliora, e nel momento stesso in cui si contribuisce a un apprendimento più profondo dell’alunno grazie all’esperienza maturata. Evidenti sono infatti i punti di qualità del Service Learning: il protagonismo degli studenti, la risposta a un bisogno reale, l’integrazione nel curricolo, un apprendimento collaborativo e la partecipazione. Quindi, la diciamo brutale? Se in Italia questa pratica fosse più diffusa di quanto non lo sia effettivamente oggi, magari a nessuno al Ministero saltava il ghiribizzo di partorire una legge bislacca come la sopra menzionata sull’Educazione Civica (in teoria ottima, ma con tante di quelle falle organizzative da vanificare ogni buona intenzione): tanto è già tutto nel Service Learning.
Il prof. Andrew Furco (University of Minnesota, e prima a Berkeley) dal 2005 ha fondato in USA varie associazione di ricerca sul Service Learning. Spiega che il termine è stato usato per la prima volta da Ramsey e Sigmon, dell’Università del Tenesse nel 1966, ma solo dagli anni ’80 questa pratica ha cominciato a diffondersi ampiamente, tanto che nel 1993 è stata varata una legge per regolamentare e proteggere le attività di questo settore. Che sono diffuse soprattutto nelle Università (con una decisa battuta d’arresto dopo solo dopo crisi del 2008), e che ok, sono simili a tante altre cose che già si facevano, si fanno e si faranno nel campo dell’Istruzione, ma questa pratica si contraddistingue per l’intenzionalità, cioè la chiarezza con cui si individuano e si perseguono, già dal momento della progettazione, certi obiettivi e scopi: il miglioramento personale all’interno di un momento di miglioramento sociale, in modo che sia il ricevente (la comunità) che il fornitore del servizio (lo studente che impara) ne traggano un beneficio. Perfetto, no?
Dal “Centro Latinoamericano de Aprendizaje y Servicio” di Buenos Aires arriva Nives Tapia. Lei, tutto questo l’ha diffuso per il Sud America, e, quasi in controcanto con Furco, racconta che “qui la pratica è più antica del nome”, tanto che un momento importante è stata la rivolta degli studenti dell’Università di Cordoba, per istituire una sorta di “Servizio Civile” obbligatorio: cioè per laurearti devi fare almeno 350 ore di servizio presso la tua comunità (ovviamente, qui gli studenti protestavano affinché il Senato Accademico approvasse questa legge sul Service Learning obbligatorio!). Del resto, il tessuto sociale sudamericano meglio si presta a queste dinamiche orizzontali di solidarietà (“fare con”) rispetto al paternalismo di atti, anche molto generosi ma calati dall’alto, di beneficenza (“fare per”). Tra i servizi più diffusi lì in Argentina, la rialfabetizzazione degli anziani, la costruzione di abitazioni, il controllo dell’acqua potabile.
Poi, per parlare di tutto questo in Europa, Pilar Aramburuzabala, da Madrid, docente e ricercatrice. Il suo compito è, essenzialmente, creare una rete globale di Service Learning, per connettere l’Università alla Società civile: nel 2019 ha pure fondato ad Anversa, con altri docenti, l’Associazione Europea di Service Learning, e nello stesso anno è nata quella italiana. Varie le citazioni nel suo intervento a sostenere l’importanza di questa pratica: “Se l’educazione non può cambiare il mondo, può cambiare le persone che possono cambiare il mondo” (P. Freire), “La riforma più difficile non è la riforma degli insegnamenti, ma la riforma del pensiero” (E. Morin) e “Se la pelle non sente, la testa non capisce” (D. Dolci). Ma la migliore è sua, quasi una chiusa sibillina del suo intervento: “Perché il Service Learning è arrivato così tardi in Europa? Forse perché pensavamo di non averne bisogno… e invece adesso…”
Mario Castoldi, dell’Università di Torino, si pone il problema di come valutare tutto ciò. Se il Service Learning è l’exemplum del rinnovamento della didattica scolastica, allora esso, parallelamente, può essere davvero il “cavallo di Troia” per scardinare non solo il vecchio paradigma di istruzione passiva/trasmissiva, ma sopratutto un ulteriore strumento per passare da una cultura del voto numerico, “ragioneristico”, alla complessità delle rubriche “di valorizzazione”, più adatte a una valutazione per competenze.
Chiude Juan Garcia Gutierrez (Universidad Nacional de Educación a Distancia/Madrid) sul tema del Service Learning on-line. Si possono adattare queste pratiche anche in lockdown, in pandemia, in Dad? Certo che sì (e chi meglio di lui può saperlo, visto che lavora nella più grande Università europea a distanza, dove con la didattica on-line ci lavorano da ben prima del Covid?). E siccome la pandemia è stata la più grande e impetuosa migrazione umana sul digitale (tra l’altro, non programmata), che ha rivelato l’endemica povertà di educazione digitale, è stato dunque facile per loro decidere di riversare su questa grave fragilità sociale tutti i loro programmi educativi di Service Learning.
E io che ci facevo lì? La mia classe era finalista con un progetto di Service Learning interamente realizzato dai marmocchi: la registrazione completa di un audiolibro da casa, collegati in Dad, di un testo da donare simbolicamente agli anziani della Casa di Riposo “Giuseppe Verdi” di Milano. Qui il filmato!