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Mia cara Olympe

Il Mattarella bis e le ‘donne usate dalla politica’

Il giorno dopo la rielezione di Mattarella, si va ad archiviare la brutta settimana che, malgrado tutto e tutti seppur con pesi molto diversi nello schieramento politico, ha prodotto un risultato che lascia molte domande ma, almeno, rassicura sul fronte della stabilità e della credibilità del paese.

Quando si archivia, si sa, c’è la cartella principale e dentro, per ordine di importanza, i diversi file. Quello che riguarda le donne e il ruolo che hanno avuto nella vicenda quirinalizia, si sta mettendo via, nelle tante analisi tra media e social, sotto il titolo ‘Donne usate dalla politica’. Ancora una volta, come sempre. Donne mai effettivamente in corsa, strumentalmente usate in nome di una parità di genere tanto sventolata quanto farlocca da leader maschi che, alla fine, hanno giocato la partita solo loro e tra di loro.

Vero? Tutto vero? Molto di vero c’è, ma ci sono anche due punti da sottolineare. Il primo riguarda le donne che stanno nell’arena e noi, fuori, che la seguiamo, ce ne occupiamo a vario titolo e da diversi punti di vista, alcuni femminismi inclusi. Ancora una volta si dimostra che non c’è una capacità condivisa di fare massa critica nell’indicare un nome che possa fare effettivamente la sua corsa. Ancora una volta ci sono stati generici appelli per ‘una donna’ al Quirinale, di cui, certo, si indicavano le necessarie, altissime qualità, ma che continuava ad essere senza nome, senza una biografia. Errore e segno, mi sembra, di una minorità. Dentro e fuori dal Parlamento e dai partiti. Semplificando: se non ci crediamo fino in fondo noi, e facendo agire le nostre profonde differenze per dare volto e storia al nostro desiderio, il sentiero è già sbarrato in partenza. Naturalmente libere di non crederci quelle che, appunto, non ci credono e perseguono, con ottime ragioni, la loro politica altrove. 

Secondo punto: sono state le donne in contesa eguali come vuole il file di cui sopra? Nel file ‘Donne bruciate’  troviamo Casellati, duramente stoppata dal voto d’aula (e dei suoi e delle sue) e Belloni, quest’ultima ‘evaporata’ in un paio d’ore venerdì sera, dopo l’uscita di Salvini e Conte dalla strumentalità evidente sulla ‘figura’ femminile di alto profilo. Non lo credo. Casellati – la cui elezione a prima presidente della repubblica della nostra storia sarebbe suonata, per molte orecchie le mie incluse, come una beffa atroce – si è molto battuta prima e fino all’ultima scheda, dicono le cronache che avrebbe voluto, nonostante la sonora sconfitta in aula, insistere ancora sulla propria candidatura. Ciò rende meno ‘cattivi’  i leader che hanno lanciato la seconda carica dello stato nell’arena del voto senza paracadute? No, ma le posture e le responsabilità in politica contano e Casellati ha corso il suo rischio consapevolmente e con molte sgrammaticature vista la carica ricopre. Storia affatto diversa quella di Belloni: non un fiato è trapelato sui media da una donna di gran curriculum che ha continuato a fare il suo lavoro, mente si andavano facendo e disfacendo i giochi che la riguardavano. Qualche mia amica dice: avrebbe dovuto sottrarsi prima, dire pubblicamente ‘A questo gioco non ci sto’. Non credo: il gioco è quello che è e se, in attesa di cambiarlo (per chi ancora ci spera), qualcuna vuole giocarlo – lei inclusa-  deve mettere in conto strumentalità, sgambetti e altre amenità e trovare – lei lo  ha fatto – una postura adeguata, non quella di una ‘figura femminile a disposizione’. E chi guarda e giudica, noi donne soprattutto, dobbiamo valorizzare queste differenze, prepararci  a giocare le partite sul serio e non cadere, come sta succedendo, nella narrazione uniforme e un po’ vittimistica di pedine sacrificate dal gioco degli uomini

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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La scuola non serve a nulla

Come proporre la “Giornata della Memoria” a scuola?

"A modest proposal"

Io su Olocausto e Giornata della Memoria non sono sicuro di sapere cosa dire.

Il primo istinto suggerirebbe nient’altro che il silenzio, relazionandosi a quell’immane buco nero della civiltà umana che è stata la Shoah. Poi però senti che qualcuno certe idee bislacche le ripropone, che non lo fa neanche tanto velatamente, che certi nostri politici su questa questione sembrano non puntare all’ “Oscar della Chiarezza”, che da certe curve partono di quei cori ti lasciano un po’ interdetto, che per certi ragazzi persino l’ignoranza ha acquisito quasi una sorta di fascino… e allora è un attimo che cambi idea. E il monito di Primo Levi  “affinché non accada più” costringe a riflessioni diverse: a cercarle, invece, le parole. Che poi gioco forza per lavoro mi è toccato comunque farlo spesso, su questi argomenti: per scrivere spettacoli, per parlare a lezione ai ragazzi, per provare, da docente, a fare “il mio”. Per raccontare… Ecco, ma appunto, cosa raccontare?

Alla peggio, uno può sempre partire dalle parole. “Shoah”, è termine ebraico sostanzialmente intraducibile: è più di “distruzione”, è più maligno di “annientamento”… insomma, già solo in questo si sente la fatica del tentativo di tradurre quel nulla che resta, quell’indicibile opera di azzeramento, di nullificazione. E quasi ci si arrende all’impossibilità dei termini a star dietro a certe cose.

E quindi si prova anche con le immagini. E mi sono fatto negli anni un’idea un po’ tutta mia, e cioè che la solita proposta iconografica, cioè la carrellata di derelitte creature scheletriche, così come le trovarono gli Alleati nei lager, contrapposta a quella dell’ostentazione brutale di forza delle adunate di Norimberga, non funzioni più così tanto. Ché magari a qualche giovane mente scapestrata salterebbe il ghiribizzo antipietistico di concludere: “Ovvio che stavano vincendo quelli lì: erano più forti (quando non proprio “Sarebbe stato giusto che avessero vinto loro”: m’è già capitato di sentirle in classe, frasi come queste…). Anche le visite ad Auschwitz sembrano aver e perso il valore d’un tempo: chi c’è stato lo sa e ha potuto sentire quanto, persino lì, si sia intrufolato insopportabile il tanfo nefasto della visita turistica smacchiacoscienza. Perché siam sempre là: i potentissimi cattivoni coi mitra da una parte, e le impalpabili larve alla loro ultima bava di vita dall’altra, in una narrazione che rischia di titillare, nell’inconscio dello spirito adolescenziale naturalmente oppositivo e sacrilego, reazioni sadicamente contrarie.

(A proposito: per quanto generi tanta soddisfazione rimbrottare Benigni sul falso storico dei “carri armati americani” de “La vita è bella” che liberano il campo di Auschwitz  – ma dov’è specificato, nel film, che sarebbe ambientato ad Auschwitz? -, è doveroso ricordare che i Sovietici sì, arrivarono a Berlino, liberarono Auschwitz e i campi di Stutthof, Sachsenhausen e Ravensbrück; ma gli Americani liberarono Buchenwald, Flossenbürg, Dachau e Mauthausen, mentre gli inglesi Neuengamme e Bergen-Belsen).

Ma tralasciamo la provenienza dei liberatori per tornare al punto principale, ciòè il tentativo didattico di andare oltre quelle solite immagini di esserini smunti. E allora si potrebbe rischiare, fare altro. Anzi, far proprio il contrario. È tosta, lo so, però si azzarda, si può provare.

Si potrebbe presentare ad alunne e alunni la foto di Adolf Hitler da piccolo, anzi piccolissimo, seguita da quella dei suoi (brutti, ma brutti brutti) dipinti realizzati quando era un giovane aspirante pittore all’Accademia d’Arte di Vienna (e ve lo immaginate il burbero professore che lo stronca suggerendogli di “smettere di torturare l’umanità con quelle croste e di dedicarsi ad altro”?). E, subito dopo, mostrare le immagini di possenti atleti spazzati via dalla follia dell’odio nel pieno della loro prestanza fisica: Leone Jacovacci, Johann “Rukele” Trollmann, Alfred Nakache, Victor Perez, Angelo Anticoli (cui è dedicata anche una pietra d’inciampo). Tutti pugili (tranne Nakache, nuotatore), tutti che picchiavano duro: però belli, alti, eleganti e fighi. Tutti, nel pieno dei loro anni floridi, vittime del nazismo in quanto ebrei, rom, neri.

Perchè? Be’, magari facendo così, invece, qualche alunno fa due più due e gli salta in zucca il pensiero che forse quello scricciolo lì, a quelle statue greche, mica poteva far nulla, da solo, se qualcuno non gli veniva dietro, se non gli obbedivano, se non si fosse tirato dietro una nazione. Che è stata un po’ colpa di tutti: e che uno deve metterci attenzione costante perché quella roba lì non ritorni. Da solo non ce l’avrebbe fatta, lo hanno assecondato, o quanto meno glielo hanno permesso. Ah già, sì,  ecco, l’indifferenza, giusto! Quella spesso vituperata da Liliana Segre, quella parola scritta al Binario 21. E la Segre ripete pure spesso che il dovere della memoria deve essere accompagnato anche dal tentativo di riproporne in modi sempre nuovi – e più adatti ai tempi – celebrazioni, memorie e narrazioni.

Tutta questa riflessione è sorta in me qualche mese fa, bighellonando a zonzo su Instagram (non so se riesco a spiegarvi il collegamento, ma ci provo, perchè secondo me c’è). Sapete, io sono follower di tutte le più celebri e luccicantissime Influencer (spesso idoli dei nostri alunni), le quali mostrano, un giorno sì e l’altro pure, spianate di pelle nuda liberamente tratte da’ loro corpi turgidi, condite da gustose didascalie sull’inimitabil vivere nei loro viaggi intorno al mondo col tipo amorosodudùdadaàcheilloroamoreèilpiùforteditutti e cheioeteunacosasola, ioetecontortuttigliinvidiosi #noidue, e via così di glassa melensa da diabete verbale. Io le seguo tutte, non me ne perdo una, ma un giorno mi sono imbattuto in questa qua che parlava del week-end a Berlino con il suo cucciolottoamoroso, con cui ha pensato bene di farsi una foto. Direte voi: e allora? Be’, la suddetta foto della “coppia piùbelladelmondo&cheglidispiaceperglialtri” , questi due se la son fatta nel Memoriale dell’Olocausto, con le 2.771 colonne poste a imperitura memoria delle vittime. Sotto la foto, un sacco di like dei followers, e nessuno che commentasse “Ma lo sapete dove eravate esattamente quando avete fatto quella foto lì?”…

E io lì ho pensato che la responsabilità, la sempiterna e vigile tensione civile affinchè “tutto ciò non si ripeta”, quella che vorremmo inculcare nei ragazzi, passa anche dalla capacità di renderli consapevoli su che cosa stanno pigiando “like”. E siccome oggi dovevo progettare un’attività in classe sulla “Giornata della Memoria”, e allora, appunto, me ne sono ricordato…

 

 

Che ne pensate? Per qualunque cosa vogliate dirmi riguardo ai miei articoli su questo Blog, dagli apprezzamenti, ai consigli, alle critiche fino agli insulti (questi ultimi però purchè formulati rigorosamente in lingue antiche), scrivete a: antonellotaurino1@gmail.com .

 

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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L'Ambrosiano

Equivalenza pubblico / privato Cavallo di Troia della Sanità Lombarda

È stata inaugurata la Casa di Comunità di via Rugabella, prima delle 24 previste a Milano, 218 in Lombardia. L’insegna attraente cela il maquillage d’un poliambulatorio. Sono solo sulla carta i servizi sociosanitari territoriali nella non-riforma della Sanità di cui il Pirellone va fiero, i cittadini no, il Governo non si sa. Roma dovrebbe contestare la legge che Moratti e Fontana han voluto a tutti i costi (già c’è un’iniziativa parlamentare per sollecitare Draghi a intervenire), ma tra dopo Mattarella, Palazzo Chigi appeso a un filo, venti di guerra a Est si rischia che non venga smascherato il Cavallo di Troia acquattato nel testo: il dire che pubblico e privato sono “equivalenti”.

Se passa, il peso della Lombardia scardina il Servizio Sanitario Nazionale: un effetto peggio del virus. Il pubblico governa e deve fissare linee, criteri, priorità, risorse in quanto al centro sta la salute delle persone e al privato è offerto di collaborare, attribuendo alle sue prestazioni finanziamenti anche cospicui a patto però che si attenga alla programmazione generale. Così la Costituzione. Ma se si parla di “sistema”, non più di “servizio”, e s’introduce l’“equivalenza” le istituzioni abdicano e la salute è preda di interessi. In pancia al Cavallo di Troia del Pirellone c’è il nucleo d’una mutazione genetica mostruosa: visione ospedalecentrica che schiaccia la medicina del territorio; chiacchiere senza risorse per la prevenzione; creazione di servizi che il pubblico non può garantire (medici e infermieri fuggono per turni, responsabilità, stipendi) e affiderà ai privati.

Lancet attacca la Lombardia per come ha affrontato la pandemia. La prestigiosa rivista ricorda quanto l’arrivo di Moratti e la sua campagna han cercato di far dimenticare. Una legge ora non trae insegnamento dall’accaduto, non rimette al centro medicina di base, prevenzione, servizi alla persona, salute mentale. In nome delle decine di migliaia di morti causati dal Covid, oltreché dalla gestione regionale e dalle riforme Formigoni e Maroni, i lombardi aprano gli occhi, rispediscano il Cavallo di Troia a Moratti e Fontana, smettano di lamentarsi, manifestino per un rinnovato vero Servizio Sanitario Lombardo. La rassegnazione è un virus.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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La nave di Penelope

L’alternanza scuola-lavoro è davvero il male?

Abbiamo letto tutti la storia di Lorenzo Parelli, il diciottenne ucciso dal crollo di una putrella nel suo ultimo giorno di tirocinio, in provincia di Udine.

In attesa che gli inquirenti determinino le responsabilità per quanto accaduto, ci siamo tutti indignati per la tragedia. Non si può morire a 18 anni (ma neanche a sessanta) in una fabbrica. Sul tema della sicurezza – parlano i numeri dei morti sul lavoro – c’è molto da fare. Ma questa volta, per tutti quelli che hanno sentito di voler dire qualcosa, è un caso diverso. Non per la giovane età ma per il fatto che Lorenzo fosse uno studente in alternanza scuola-lavoro (che ora si chiama Pcto, cioè Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento) e che il posto degli studenti è la scuola, non in una fabbrica. Ma ci sono delle premesse sbagliate.

Ora vorrei fare un passo indietro ed entrare nello specifico. A tutti quelli che dicono che l’alternanza è stata uno scempio introdotto dal governo Renzi e che il posto di uno studente è dietro al banco di scuola e non in un’azienda vorrei spiegare una cosa. Lorenzo era uno studente di un centro di formazione professionale. I cfp sono dei percorsi di formazione regionali che durano quattro anni, con la possibilità di fare un quinto anno, passando a un istituto professionale o tecnico e conseguendo così anche un diploma di Stato. Sono scuole professionalizzanti che puntano a un rapido inserimento nel mondo del lavoro (dopo tre anni hanno già una prima qualifica, a quattro concludono). Percorsi in cui c’è molta poca teoria e tanta pratica, anche nelle aziende. Ancora più che negli istituti professionali, che conservano comunque una maggiore componente teorica e scolastica in senso classico.

Questa la premessa. Ora entriamo nel merito. Lorenzo non stava svolgendo una tradizionale alternanza scuola-lavoro, ma un tirocinio duale. Il quarto anno prevede un percorso misto: l’apprendimento si divide tra periodi passati a scuola e altri in azienda. Una sorta di formazione su campo, ispirata dal modello tedesco.

Ora ne approfitterei per parlare anche degli istituti professionali. Lì l’alternanza si è sempre fatta, ben prima che, con la riforma Moratti, si chiamasse così. Sono scuole con rapporti radicati con le aziende del territorio fin dalla loro fondazione. Scuole per chi vuole imparare un mestiere e non proseguire gli studi. E, di fatto, le ore di tirocinio nelle aziende sono tante e apprezzate dagli studenti di questi indirizzi. Studenti che hanno preferito un percorso di studi che, accanto a una base teorica, desse loro la possibilità di imparare soprattutto su campo, mettendosi alla prova. Altrimenti avrebbero scelto un altro tipo di scuola.

Questo discorso vale anche per gli istituti tecnici, in cui la pratica su campo è importante, anche se la componente teorica, in questo caso, aumenta notevolmente di importanza, tanto che molti poi proseguono verso una formazione universitaria.

Quindi, quando parliamo di abolire l’alternanza, di cosa stiamo parlando esattamente?

Torniamo al discorso “Buona scuola” di Renzi. Su una cosa siamo tutti d’accordo: ha creato tanti problemi. E uno di questi è stata l’introduzione dell’obbligo di alternanza scuola-lavoro per 200 ore nei licei e per 400 nei tecnici e nei professionali. Al governo successivo, l’allora ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, ha dato un colpo al cerchio e un colpo alla botte mantenendo lo schema e diminuendo il monte orario. Cosa che, ovviamente, non ha sciolto il nodo principale: il fatto di avere centinaia di migliaia di studenti ogni anno con decine di ore di alternanza da smaltire, soprattutto nelle aree d’Italia in cui le imprese non sono molte. Questo si è tradotto in stage spesso non di qualità o per niente formativi. O che si sono trasformati in situazioni di sfruttamento dello studente, trattato come manodopera a costo zero. Insomma esperienze inutili o dannose.

Ma in tutti questi anni ho avuto modo anche di conoscere ottime esperienze e ho parlato con ragazzi entusiasti di quello che facevano. Dagli studenti degli alberghieri che lavoravano nelle cucine di un ristorante a quelli di licei e istituti tecnici che hanno svolto l’alternanza in un laboratorio scientifico, passando per i ragazzi che hanno progettato marchingegni per la coltivazione di alghe per nutrire gli astronauti.

Allora io credo che il problema non sia l’alternanza, ma l’eccesso di ore e la scarsa qualità di quello che viene organizzato in mancanza di altro. Quindi, più che abolire del tutto questa possibilità, forse andrebbe riformata. E, di sicuro, dovrebbe esserci un maggiore monitoraggio di quanto viene fatto.

Che cosa ne pensate? Mi piacerebbe conoscere le vostre idee. Scrivetemi a: lanavedipenelope@gmail.com

  • Claudia Zanella

    Sono nata a Milano nel 1987. Ma è più il tempo che ho passato in viaggio, che all’ombra della Madonnina. Sono laureata in Filosofia e ho sempre una citazione di Nietzsche nel taschino. Mi piacciono tante cose ma, se devo scegliere tra le mie passioni quali sono quelle che più parlano di me, direi: la Spagna, il rock e il giornalismo. Dopo averci vissuto, Madrid è la mia città d’elezione; il rock scandisce il mio ritmo di vita e venero le mie chitarre come oggetti magici; infine, fare la giornalista soddisfa il mio impulso alla Jessica Fletcher di voler sempre vedere chiaro e poi raccontare. Ho lavorato per cinque anni per La Repubblica, come cronista e responsabile del settore “Educazione e scuola” a Milano. Cofondatrice del progetto di storytelling su Milano ai tempi del coronavirus: “Orange is the new Milano”. Sono approdata a Radio Popolare nel 2019, occupandomi di un po’ di tutto, ma mantenendo sempre un occhio vigile sul mondo della scuola.

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Piovono Rane

«Tu lo vedi il presidente nello schermo?». « Io no e tu?». «Neanch’io, forse c’è ma magari si è assopito».

Il dialogo su Whatsapp tra due parlamentari di Forza Italia ha rivelato quanto surreale sia stato il pomeriggio di sabato 22 gennaio, quello della rinuncia di Berlusconi al Colle.

L’ex Cavaliere c’era, nella riunione in remoto con i suoi, ma solo in audio, e lasciando parlare soprattutto Tajani. «Non è che è in ospedale e non vuole dircelo?», ha chiesto un altro deputato.

Non si sa.

Si sa invece che alle 4 doveva fare un’altra riunione su Zoom, quella decisiva con Salvini e Meloni, poi il vertice è stato rinviato alle 6, poi Berlusconi non si è presentato mandandoci Tajani e la Ronzulli che ha letto agli altri il comunicato di rinuncia.

C’è qualcosa di paradossale: l’uomo che ha costruito il suo impero e la sua ascesa sull’immagine che tramonta senza immagine, sparendo dagli schermi.

Una nemesi personale che racconta bene il trentennio in cui la politica è diventata comunicazione e la comunicazione è diventata politica.

E conclude la parabola berlusconiana con il più classico dei passaggi dalla tragedia alla farsa.

Dalla tragedia del Caimano, dei suoi rapporti con la mafia, del suo conflitto d’interessi, della sua persuasione mediatica e delle sue leggi ad personam, alla farsa dei quadri regalati, dell’operazione scoiattolo, delle telefonate di Sgarbi.

Di un pomeriggio di fine gennaio: «Tu lo vedi il presidente nello schermo?». « Io no e tu?». «Neanch’io, forse c’è ma magari si è assopito».

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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    Ucraina: scambio di dichiarazioni di apertura e cordialità tra Trump e Putin

    E’ stata una giornata di scambi di dichiarazioni all’insegna dell’apertura e della cordialità tra Trump e Putin, sull’Ucraina. Ha iniziato il presidente Usa: “abbiamo avuto delle discussioni molto buone e produttive ieri con Vladimir Putin e ci sono ottime possibilità che questa orribile e sanguinosa guerra possa finalmente giungere alla fine". Gli ha risposto Putin: “Trump sta facendo di tutto per ripristinare i rapporti con noi anche se è un processo non facile per non dire complicato”. Trump poi ha chiesto a Putin di non massacrare i soldati ucraini nel Kursk e Putin ha risposto che gli ucraini nel Kursk devono deporre le armi. Kiev si è fatta sentire affermando che le sue truppe nel Kursk non sono accerchiate. E Zelensky ha accusato Putin di voler boicottare la tregua. Una giornata di parole insomma, in attesa degli sviluppi reali. Gianluca Pastori, professore di relazioni internazionali alla Cattolica di Milano.

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    Poveri ma belli di venerdì 14/03/2025

    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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    “Vogliamo uscire in pace”. A Milano manifestazione in metropolitana di Non Una Di Meno contro le aggressioni in strada e sui mezzi

    “Vogliamo uscire in pace”. A Milano venerdì sera c’è stata una manifestazione organizzata dalle attiviste di Non Una Di Meno. L’hanno chiamata “passeggiata arrabbiata” contro aggressioni e molestie di genere in strada e nei mezzi pubblici milanesi. Questa iniziativa si è svolta proprio su un mezzo del trasporto pubblico, la metropolitana rossa. Le attiviste sono partite dalla fermata di Cadorna. Il servizio dalla manifestazione di Chiara Manetti.

    Clip - 14-03-2025

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