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Appunti sulla mondialità

La vera potenza della Russia

La Russia di Putin è una potenza fortemente sopravvalutata. E questo in virtù della sua storia, indissolubilmente legata all’esperienza dell’Unione Sovietica, e delle sue enormi dimensioni geografiche a cavallo tra Asia ed Europa. Ma le differenze con le due vere potenze globali, Cina e Stati Uniti, e anche con quella che fu l’Unione Sovietica, sono molto marcate. Piuttosto, la Russia è paragonabile ai grandi Paesi considerati “emergenti”, e in particolare al Brasile. La Russia è il primo Stato mondiale per superficie, il Brasile il quinto; entrambi ospitano le foreste più grandi del pianeta, l’Amazzonia e la foresta boreale siberiana; il peso demografico non è molto diverso; entrambi gli Stati sono organizzati in modo federale, il Brasile con un sistema presidenziale e la Russia semipresidenziale. Ma le somiglianze maggiori sono ravvisabili nella struttura economica: entrambi i Paesi sono grandi esportatori di commodities agricole e minerarie, e hanno praticamente un solo settore industriale di punta che contribuisce all’export: l’industria bellica per la Russia, quella aeronautica per il Brasile. Il PIL registrato nel 2021 è quasi uguale, attorno ai 1500 miliardi di dollari, 10 volte più modesto di quello cinese e 13 volte meno di quello degli USA. Sia il Brasile sia la Russia, infine, dipendono fortemente dalle importazioni di tecnologia e capitali, ma anche di beni di consumo.

La differenza tra queste grandi potenze regionali è data innanzitutto dalla collocazione geografica e dalla storia. Il Brasile è un Paese storicamente ancorato all’Occidente e fortemente legato agli Stati Uniti. Si trova in un contesto geografico, quello sudamericano, ritenuto marginale e nel quale da decenni non ci sono tensioni geopolitiche significative. La Russia, invece, a est si affaccia sugli Stati Uniti e sull’area del Pacifico, a sud confina con la Cina (e tramite i suoi  Stati-satellite anche con l’India), a ovest con l’Europa comunitaria. Occupa dunque una posizione centrale sullo scacchiere mondiale e le sue commodities, grano e soprattutto metano, alimentano le tavole e le case degli europei. Non è dunque solo il gigantesco apparato bellico nucleare russo a fare la differenza rispetto al Brasile, sotto il profilo geopolitico, ma anche la storia, la geografia e con essa la mappa dei “clienti”. Perciò Mosca, che una volta avremmo definito capitale di un Paese con caratteristiche da “Sud del mondo”, in questi ultimi mesi è stata meta di pellegrinaggi da parte dei big della Terra nel tentativo di risolvere la lunga crisi con l’Ucraina.

La Russia ha giocato tutte le sue fiches sulla partita ucraina, con l’obiettivo primario di archiviare definitivamente l’ipotesi di un ingresso della ex repubblica sovietica nella Nato. Ha deciso di affrontare un rischio calcolato, per il quale non ha valutato il proprio peso soltanto sulla base dei parametri esposti fin qui, ma ha anche usato il credito geopolitico accumulato negli ultimi anni con la guerra siriana, l’espansione in Africa e la penetrazione in America Latina. Soprattutto, Mosca ha messo sul piatto l’alleanza strategica con la Cina, il suo nuovo grande cliente e finanziatore, con la quale persegue interessi convergenti a livello globale. Proprio la Cina è il Paese che più ha da guadagnare con la crisi ucraina, che indebolisce gli Stati Uniti e l’Unione Europea e fa passare in secondo piano la propria competizione con gli USA, vera posta in gioco a livello globale.

In sintesi, la Russia di Vladimir Putin è una potenza regionale che può essere considerata globale per la sua estensione e posizione geografica e per la sua presenza geopolitica su altri scenari; ha un potente dispositivo militare ma un’economia modesta, dipendente dall’andamento dei prezzi delle commodities. Si tratta di un caso unico e irripetibile: spostando soldati e carri armati sta chiedendo un posto di riguardo tra i potenti, in quel G7 che non è mai diventato sul serio G8, e soprattutto vuole sedersi al tavolo con Cina e USA e trattare alla pari con la Nato. Chiede che siano riconosciuti i confini geopolitici della sua area d’influenza e respinge ogni interferenza sulla sua politica interna.

Alla fine, la Russia non pretende nulla di diverso rispetto a quanto il mondo ha riconosciuto a Cina e USA. Il punto è che per ottenere quello status, al netto del favore di Pechino, Mosca può contare essenzialmente solo sulla propria forza militare, che da sola non basta per essere considerati una potenza mondiale, soprattutto se la recita dura troppo a lungo.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Il tè nel deserto

Una femmina colpita dalla censura

E’ uscito in Italia “Una femmina” il film di Francesco Costabile, presentato alla Berlinale 2022. La storia della giovane Rosa, che si ribella alla famiglia appartenente alla ‘ndrangheta è tratta dal libro di Lirio Abbate “Femmine ribelli” . La protagonista, interpretata dalla giovane e brava Lina Siciliano, è una di quelle donne che ha avuto il coraggio di rompere con i legami di sangue e i codici d’onore imposti dalla ‘ndrangheta. Ambientato in Calabria, nei luoghi in cui la criminalità organizzata ha fondato le sue regole all’interno dei nuclei famigliari. Chi si oppone è morto, anzi morta, perché sono soprattutto le femmine ad opporsi a questi legami criminali. Il regista Francesco Costabile ha descritto la sua Calabria “magica, ipnotica, territorio inconscio di qualcosa che è sommerso, che fatica ad emergere e a mostrarsi in tutta la sua bellezza.
“Una femmina” è uscito al cinema con il divieto ai minori di 14 anni, provvedimento inspiegabile per un film contro la violenza sulle donne e contro la mafia. Come ha spiegato il regista Francesco Costabile al microfono di Radio Popolare.

  • Barbara Sorrentini

    Laureata in filosofia, giornalista, conduttrice e autrice a Radio Popolare. Dal 2002 cura e conduce la trasmissione “Chassis” e per qualche anno ha realizzato “Vogliamo anche le rose”, dedicata ai documentari. Per Radio Popolare ha condotto i diversi contenitori culturali e tuttora realizza servizi e interviste per trasmissioni e Gr. Tra le ultime trasmissioni “A casa con voi” e “Fino alle 8” con la rassegna stampa del mattino. È stata direttrice artistica del Festival dei beni confiscati alle mafie. Ha collaborato con La Repubblica, E-Il Mensile, Pagina 99, blogger per MicroMega, Cineforum Web, Cinecittà News, 8 1/2. È tra i curatori del libro Entretiens- Nanni Moretti, edito dai Cahiers du Cinéma, ed è tra gli autori della Guida ai film per ragazzi (Il Castoro). È stata consulente dell’Assessorato alla Cultura di Milano (2012-2013).

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L'Ambrosiano

Tangentopoli, silenzio, “menti pulite”, salute per la Repubblica

Bisognerebbe celebrare Tangentopoli imparando a fare silenzio. A 30 anni dallo scandalo che per un attimo fece credere nel miracolo del “non sarà più come prima” dovremmo varare l’istituto di un minuto di silenzio ogni 17 febbraio, così da riflettere su ieri (luci ma quante ombre!), l’oggi (i fondi del Pnrr), il domani (riforme a parole da tutti volute). Col silenzio inauguriamo l’operazione “menti pulite”, cioè scevre dagli esercizi retorici resi immortali da Il Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Si tratta di far funzionare in modo onesto le menti, perché, s’è visto: le mani si lavano; poi si sporcano e da capo son da rilavare; e tutte e due lavan la faccia per renderla presentabile, se non proprio depurata.

La memoria, operazione d’igiene mentale per eccellenza, invece è indelebile. Il maquillage lì è impossibile: pena, niente futuro. Si posson tentare rimozioni, individuali e collettive, ma tracce mnestiche restano incise nei singoli e nella storia. Il silenzio è ricordare e rendere pensabile il cambiamento; è fare esami di realtà e di coscienza tutti: politici e singoli cittadini (ad esempio: pago tasse, Iva, emetto fatture, metto a libri colf o badante?). Le cerimonie sono armi di distrazione di massa, camuffano vizi sotto il rifacimento di facciate e relativi bonus (o camici, mascherine, concessioni balneari, reddito di cittadinanza). Il silenzio inquieta, dà fastidio, ma pone domande: fonti vitali, rigenerative. Le rievocazioni son scenografiche, non sempre frutto di studi e coscienza critica: merce rara questa in partiti, categorie, ordini professionali.

Il silenzio provoca; svela smarrimenti, deficit di analisi su origine dei fenomeni, discernimento e prospettive; ma proprio per la ridda di sentimenti e conflitti interni innescati rivela incoerenze, riserve mentali nel riconoscere quanto abbiam fatto noi nel determinare fenomeni; può far sentire vergogna (moto salutare!) se non si son tratte le conseguenze che si sarebbero potute trarre da eventi esterni accaduti proprio col contributo nostro. Dice un proverbio: «Passata la festa, gabbato lo santo». Il cumulo di furbizie che sta dietro a tale massima dice che Tangentopoli fu bene, “menti pulite” è meglio.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Mia cara Olympe

Fine vita: non fermiamoci, facciamo testamento

Ho, in maniera convinta e commossa, firmato il referendum per rendere finalmente legale in Italia l’eutanasia. Chiunque abbia vissuto la fatica di morire di una persona cara sa quanto ogni giorno si strappi un pezzo di orizzonte e quante domande si accavallino – quelle importanti  – sul senso, sulla responsabilità, sulla dignità, su cosa significa l’amore, e cosa la vita.

La Corte Costituzionale ha bocciato il quesito giunto al suo esame accompagnato dalla forza di un milione e 200 mila firme. Leggeremo le motivazioni,  abbiamo ascoltato il presidente Amato nella sua inusuale conferenza stampa e le controdeduzioni del comitato Luca Coscioni che quel referendum ha promosso e che continua a difendere la qualità dell’enorme lavoro svolto. Il dato resta: il fine vita,  questione che attraversa dolorosamente le storie di tanti e che tutti ci riguarda, resta la grande domanda inevasa, ancora oggi, Italia 2021.  Aldilà di ogni labirintica e specialistica motivazione giuridica, aldilà di ogni lettura ‘politica’ dell’operato della corte e della polemica che già infuria su questo e sull’altro quesito bocciato, quello riferito alla legalizzazione della cannabis che, pure, era corredato da seicentomila firme, credo sia questo il nodo. Una  richiesta forte, urgente che continua ad arrivare dalle cittadini e dai cittadini di questo paese incassa oggi un nuovo diniego, un nuovo stop che lascia a chi ne ha bisogno l’unica scappatoia nell’espatriare laddove è possibile scegliere, ma, attenzione, solo a chi questa libertà può pagarla. Sullo sfondo, tristemente, restano la politica e il parlamento: avrebbero dovuto essere invece in prima fila, fare il proprio mestiere, legiferare dunque, fossero capaci di ascoltare e tradurre i bisogni di noi cittadine e cittadini. Hanno dimostrato di non esserlo, e tocca ricordarselo quando parliamo di disaffezione, astensionismo, disinteresse.

Intanto c’è la vita, e c’è la fine della vita: quella non aspetta, quella  continua a chiedere prezzi quotidiani  a chi soffre, a chi sta loro accanto. C’è uno strumento alla portata di ognuno, ed è il testamento biologico che ci consente di dare disposizioni sulla nostra fine, sui trattamenti sanitari che ciascuno  vuole o non vuole ricevere. Leggo da un’ inchiesta dell’associazione Luca Coscioni  –  vox clamantis in deserto – che alla fine di settembre del 2019 risultavano depositati presso i comuni solo 170mila testamenti biologici, leggo anche che il Ministero della salute che dovrebbe dare dati aggiornati  e informazioni non lo ha ancora fatto.
Oggi, allora, questo mi aspetto e mi auguro: una grande campagna pubblica che informi i cittadini e li aiuti  a formulare una scelta consapevole. A proprio nome, per la propria vita, per la propria fine. Se la politica buona c’è  batta, almeno, questo colpo.
 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Piovono Rane

Quando sarà il tempo della riconciliazione

Quando un Paese è stato lacerato al suo interno da un conflitto violento, a un certo punto si pone la questione della riappacificazione.

È storico, è strutturale – e per fortuna: dall’amnistia di Togliatti in Italia alla Truth and Reconciliation Commission nel Sudafrica post razzista.

E _absit iniutia verbis_ nei paragoni, naturalmente: ogni schiumare della storia ha le sue peculiarità, le sue differenze.

Ma nel corso del 2022, se davvero sarà l’anno dell’uscita dalla pandemia, un Paese maturo, intelligente, pragmatico e non vendicativo deve chiedersi se e quando giungerà il tempo di una riconciliazione anche con quel 10 per cento scarso di italiani – comunque milioni di persone – che non hanno voluto partecipare allo sforzo collettivo per debellare il virus, vuoi per ignoranza, vuoi per paura, vuoi per convinzioni che personalmente considero al limite del pensiero magico.

Questa guerra civile delle anime, diciamo la verità, non è stata cosa gradevole nemmeno per chi l’ha combattuta dalla parte giusta.

Ha diviso famiglie e distrutto amicizie, tra l’altro.

Ha indebolito il sindacato, principale corpo intermedio del Paese, sempre più prezioso in una società atomizzata.

Ha mandato in vacca – speriamo provvisoriamente – qualsiasi riflessione seria su una questione vitale per il futuro come il capitalismo della sorveglianza.

Ma soprattutto ha funzionato come potentissima arma di distrazione di massa in un contesto socioeconomico di impoverimento diffuso e di allargamento (ulteriore!) di una forbice sociale che ormai grida vendetta a Dio, mentre perfino gli adolescenti muoiono sul lavoro e la marea avvelenata della precarietà si allarga su su fino agli ultra cinquantenni – e la sinistra partitica sfuma nel nulla della sua insignificanza, regalando ogni spazio d’istanza sociale a destre sempre più impresentabili (guardiamolo, l’angosciante laboratorio della Francia dove la politica è ormai solo terreno conteso tra neoliberisti, razzisti e neoliberisti razzisti).

Ecco, a proposito di destre. Stanno facendo, come sempre il loro mestiere, che è quello di dividere in fazioni contrapposte la base della piramide sociale, perché se ne possa giovare il vertice. È così, dal 1922 in avanti. Lo sarà ancora di più nel 2022. L’esclusione sociale è il loro pane. Non mi sembra una grande idea alimentarla.

C’è, ovviamente, una questione di gradualità, di tempi.

C’è l’esigenza di non far sentire preso in giro il 90 per cento di persone ragionevoli, che con questa razionalità hanno superato anche i loro umani dubbi, con quello che potrebbe sembrare un italianissimo condono, se affrettato e mal gestito.

E probabilmente c’è anche – ancora – una questione sanitaria: quando potremmo dire che la pandemia è davvero alle spalle, e che quindi un processo di riconciliazione è possibile? Basta la fine dello stato d’emergenza, fra poco più di un mese? Occorre aspettare una dichiarazione in questo senso dell’Oms? Bisogna prima vedere se si rialzerà l’allarme in autunno?

Ci sono tante cose intrecciate, insomma.

Che però forse, nell’interesse sociale, potremmo iniziare a sottoporre a dibattito e confronto pubblico.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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    La raccolta delle esibizioni dal vivo degli ospiti di Jack, il magazine musicale di Radio Popolare, andate in onda dallo studio 7 di via Ollearo. Nell’episodio di giovedì 28 novembre 2024 Matteo Villaci ha ospitato Roberto Colella de "La Maschera"

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