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Appunti sulla mondialità

Cina, India, giganti…disuguaglianze

Nei processi di modernizzazione e crescita economica che, negli ultimi trent’anni, hanno toccato diversi Paesi del mondo, una costante che si è ripetuta ovunque è che, insieme al PIL pro capite dei cittadini, è cresciuto in modo ben più marcato il divario sociale tra i più ricchi e i più poveri. Nulla cambia se si tratta di un Paese a economia di mercato come l’India oppure dell’ultimo grande Paese comunista, la Cina, che è passata dall’essere uno Stato poverissimo ancora alla metà del Novecento a superare la media mondiale del reddito pro capite circa vent’anni fa. Ora che la sua vertiginosa crescita sta rallentando, si possono intravedere le sacche di disuguaglianza che si sono solidificate in questi anni. Fatto 100 il PIL pro capite dei cinesi, quello dei cittadini di Pechino e Shanghai è circa 200, mentre quello delle province più remore del Paese si aggira attorno a 50. Le privatizzazioni e le aperture di mercato all’imprenditoria nazionale hanno fatto sì che un Paese che con la rivoluzione maoista aveva pressoché abolito le differenze sociali si trovi oggi con il 10% della popolazione che controlla il 42% del reddito nazionale, un dato molto vicino al 45% degli Stati Uniti.

L’India, che nel 2023 è diventata lo Stato più popoloso al mondo sopravanzando proprio la Cina, ha una storia diversissima da quella cinese da molti punti di vista: è stata una colonia integrata in un impero mondiale, poi ha scelto la democrazia liberale e la forma federale. Eppure, la sua forte crescita economica ricorda molto la situazione che la Cina ha vissuto circa 15 anni fa. Con la differenza che l’India, segnata anche dal sistema delle caste e dalla presenza della nobiltà terriera, presenta una concentrazione della ricchezza fin d’ora molto marcata, e in prospettiva ha una struttura economica ancora più polarizzata di quella cinese: nel 2023, l’1% degli indiani ha guadagnato il 23% del reddito nazionale complessivo e deteneva il 40% delle ricchezze del Paese. Il dato più curioso è che si tratta di una concentrazione maggiore rispetto a quella che si registrava un secolo fa, durante la dominazione britannica. La disparità nella configurazione del reddito si è ridotta nei decenni successivi all’indipendenza, ma è tornata ad aumentare dagli anni ’80. L’India di oggi, più dinamica, moderna e in crescita, è ormai allineata con gli storici campioni mondiali della disuguaglianza, che tra i grandi Paesi sono Brasile e Stati Uniti. Una ricerca dell’osservatorio sulle disuguaglianze diretto dall’economista francese Thomas Piketty evidenzia come, a partire dalle liberalizzazioni dei primi anni ’90, la fascia del 10% più ricco della popolazione indiana abbia accresciuto vertiginosamente la sua quota percentuale di reddito, raggiungendo il 58% del reddito nazionale, mentre il 90% degli indiani si spartisce il restante 42%. Non a caso, nella classifica degli uomini più ricchi dell’Asia i primi due sono indiani e al terzo posto troviamo un cinese.

I forti processi di crescita economica di questi ultimi decenni, per Paesi giganteschi dal punto di vista sia geografico sia demografico, stanno dunque riproducendo un vecchio modello di società caratterizzato da una grande concentrazione di ricchezza in mano a pochi soggetti e dalla presenza di isole di sviluppo, concentrate generalmente in pochi territori urbani, assai più ricche delle periferie, in bilico tra crescita e povertà, e delle province periferiche, totalmente tagliate fuori dai processi in corso. Anche in questi Paesi, la mano invisibile del mercato, lasciata a se stessa, non riesce a redistribuire in modo equilibrato reddito e servizi. Questa è una funzione che finora è sempre rimasta in capo agli Stati, che per svolgerla adeguatamente non possono essere solo macchine burocratiche autoreferenziali come quello cinese, né un caotico insieme di interessi etnici, nazionali e regionali come quello indiano, che peraltro sta vivendo anche una crisi profonda sul piano della fedeltà ai valori della democrazia liberale. Le due grandi potenze emergenti del XXI secolo non sfuggono dunque a un problema ben conosciuto in Occidente, quello delle diseguaglianze, contro il quale “noi”, oltre a promuovere convegni di studio, poco o nulla facciamo di concreto. Esattamente come accade da “loro”.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Lacrime, stelle, semi

«Non piangere quando il sole tramonta / le lacrime ti impedirebbero di vedere le stelle»: con Tagore la nipote ha salutato il nonno centenario ai funerali; era il poeta amato. Lui si chiamava Giorgio Bagliani, un milanese che dall’8 settembre ’43 ha lavorato dalla parte del bene: aiutare ricercati, ebrei, partigiani; poi la professione di ingegnere e l’impegno tra i cattolici laici per gli ultimi; insieme la cultura e il dialogo fondando presso la chiesa di Santa Maria del Rosario con Walter Tobagi un Centro tuttora attivo, intestato all’inviato del Corriere dopo l’assassinio da parte dei terroristi. Di lì Martini pose le basi del cammino che avrebbe portato alla fine della lotta armata. La storia collettiva è fatta delle nostre storie, che sono semi e questi, si sa, cadono su terreni aridi o son portati via dal vento, ma possono anche venire accolti da zolle fertili, germinare, dare frutti. Vien da piangere in questa Pasqua di guerra, ma non è bene, non solo per tributo al poeta: le lacrime, ammesso che se ne disponga ancora, finiscono in sfoghi. Eppure il sole tramonta su bambini e volontari di Gaza; su Israele prigioniero di Netanyahu; su Kiev e sulla Russia ammaliata dallo zar già Kgb; su Ilaria Salis esibita da Budapest come bestia da circo in catene e un’Italia e un’Europa anch’esse al guinzaglio di Orban, dei tatticismi, dello zero-virgola in più alle elezioni; su un Paese in cui i post repubblichini ammettono d’essere quel che sono con il premierato. Viene da piangere, ma non è bene se vogliamo veder le stelle che brillano e continuare a seguirle. In Italia abbiamo: Mattarella, garante e araldo della Costituzione antifascista, fumo negli occhi per Meloni & C.; gli scienziati che alzano la voce in difesa della Sanità Pubblica; i giovani che tornano in piazza; i giornalisti che danno segnali di voglia di libertà e democrazia scioperando contro la cessione dell’agenzia Agi dall’Eni (Piano Mattei) a un parlamentare di centrodestra; Cgil e Uil, persa per strada la Cisl stregata da Palazzo Chigi, han ritrovato: sicurezza sul lavoro, salari minimi, contratti; le donne che ricordano i poeti e sono anima e spina dorsale della democrazia, anche quando non appaiono.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Mia cara Olympe

Cose di donne e da donne: il romance e non solo

Dell’ultima polemica letteraria avrete forse già letto: un articolo su Doppiozero di Gianni Bonina che liquida  sotto l’etichetta romance la scrittura di molte autrici  assai diverse tra loro (da Giannone ad Auci a Terranova, da Valerio a  Doom, da Murgia ad Avallone) ha provocato la sacrosanta reazione in primis di Loredana Lipperini che, per averlo definito con corposa motivazione ‘livoroso e disinformato’, si è vista minacciare di querela e poi una cascata di commenti pro e contro le posizioni in campo.

Fin qui l’antefatto. Seconda scena: pomeriggio di Pasqua a casa mia. Tre uomini  – miei familiari – ed io. Si chiacchiera di una iniziativa di discussione cui parteciperò, spiego di cosa si tratta e cito la Convenzione di Istanbul e il recente dibattito in Europa sul consenso in tema di relazioni sessuali. Dei tre nessuno sapeva esattamente cos’è la Convenzione di Istanbul e me ne sono accorta perché sono sospettosa e l’ho chiesto: eppure sono persone colte, eppure in famiglia si contano due donne – mia figlia ed io – solidamente e attivamente femministe, eppure si tratta dello strumento giuridico internazionale più importante in tema di violenza contro le donne, tema al quale i tre sono certamente sensibili e del quale tanto abbiamo discusso.

Direte, e non avete torto, ma che ci azzecca la discussione sul romance e la scrittura delle donne che sottintende che la letteratura, quella vera, stia altrove e indovinate dove e il nostro piccolo e veniale episodio domestico? A guardarci bene però la radice comune c’è ed è in quel ritenere – consciamente, inconsciamente, con diversi livelli di gravità, come volete voi – una serie di questioni e di prodotti culturali  “cose da donne” e come tali abbastanza ignorabili, oppure da lasciare alla trattazione e al lavoro delle medesime o da liquidare in blocco con la più facile delle etichette – quella che riduce ai sentimenti e alla vita intima – come nell’articolo di Bonina.
Mi sono arrabbiata leggendo quell’articolo, mi sono (un po’) arrabbiata il giorno di Pasqua a casa mia e ai tre ho chiesto di ragionare sul perché, mentre io frequento i loro campi d’ interesse che sono anche miei (dal cinema allo sport alla letteratura), loro, pur sensibili e informati, possono serenamente ignorare elementi fondamentali di una questione che riguarda in profondità il nostro vivere e convivere tra uomini e donne.

Niente di nuovo, certo, lo vediamo ai convegni, nelle aule universitarie, nel discorso pubblico e privato, Daniela Brogi ne ha scritto benissimo ne “Lo spazio delle donne”:  alla fine trattasi di “cose da donne e di donne”, competenze di donne e ne discutiamo e le riconosciamo quasi solo fra donne, sparute le presenze maschili di cui ci complimentiamo l’un l’altra – hai visto però,  c’erano anche degli uomini… Nulla di nuovo neppure nell’ammonticchiare nell’unico parametro dei sentimenti – scaffale romance –  scritture femminili diversissime che sono, come ogni prodotto culturale criticabili ma non così: antico vizio perimetrare lo sguardo delle donne sull’esistente, rinchiuderlo nel privato, diminuirlo, gerarchizzarlo e non è questo lo spazio per reinterrogare, com’è necessario fare,  il  rapporto tra Storia e storie.

(A chi sta per dire che però non è tutto così fornisco breve e non esaustiva lista degli argomenti spendibili contro la tesi di cui sopra: le donne sono dappertutto, ci sono consistenti tracce di una rilettura critica dell’esclusione o della sottovalutazione femminile in ogni campo, il dibattito sulla violenza, dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, ha conosciuto anche da parte maschile un balzo in avanti. Tutto vero, l’ho detto e scritto anche io, l’ho visto anche nelle mie relazioni più vicine, i tre inclusi!  È che le donne, si sa, sono suscettibili…).

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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La scuola non serve a nulla

Correzioni pasquali, temi in classe, Valditara e i congiuntivi

Una riflessione...

Correggendo temi sulla via di casa (cioè tornando da Milano in Salento, dai miei), my two cents su una questione, che ha a che fare con i tweet sgrammaticati del Ministro Valditara e l’insegnamento della lingua italiana in classi con pochi stranieri.

Tranquilli: niente di nuovo, niente di intelligente, tutto di banale.

Dunque: se i docenti italiani, come dice Antonio Albanese, sono dei gladiatori (ma resta da capire chi sono le belve), onestamente mi sono ritrovato di più nella definizione, sempre dell’attore, di “nuova classe operaia”, per il livello di considerazione e remunerazione.

Quindi, in quanto operaio del sapere, se dovessi parlare di me… ecco, non penso d’essere un esempio di prof “moderno” (sono circondato da persone che fanno tutto in modo molto più smart di me, e da cui provo, avidamente, a imparare); né un docente particolarmente stakanovista (anche qui, provo a imitare chi ho intorno); ma c’è una cosa che mi piace fare a bestia, che mi diverte e mi scialla proprio, e su cui i colleghi m’hanno a volte accusato di “perderci troppo tempo”, oppure di “scrivere più io di loro”: la correzione dei temi.

Ora, posto che la miglior risposta alla presunta ed eccessiva dedizione sarebbe già che, se uno ci si diverte, “dove c’è gusto non c’è perdenza”, mi chiedo: quando ciclicamente parte la ritrita sarabanda ragliante su “…gli alunni che oggi non sanno più scrivere, …che ai nostri tempi sì che si esprimevano pensieri complessi e con un lessico ricco, …che i nostri ggggiovani d’oggi non hanno padronanza linguistica… bla bla bla”, – cosa secondo me non vera, se non nella forma deleteria d’una superficiale semplificazione – ecco, mi domando, nei rari casi in cui possa essere invece davvero così, e tale diagnosi veritiera, se questo non dipenda anche da una non più attenta e certosina correzione degli elaborati scritti a scuola, quella forse sì, “non più come si faceva una volta” (insieme a una mancata promozione del momento complementare e parallelo a quello volto alla costruzione delle competenze della lingua scritta, quello della lettura, ma che qui tralascerò per brevità).

Dicevano: siamo sicuri che si corregga ancora come una volta?

Nei vari corsi di formazione tenuti negli anni, ho incontrato troppi docenti di Lettere pronti a confessarmi che “ormai fanno talmente tanti errori, che non posso mettermi a correggere tutto… ci impiegherei una vita…”. Vado dritto al punto: ecco, questo, francamente, mi pare un mezzo crimine. Se noi docenti di Lettere non lo facciamo, direi di considerare rubato persino il nostro misero stipendio, perché non credo ci sia aspetto più importante cui possiamo dedicarci (e una percentuale non trascurabile di docenti, drammaticamente anche nei licei, mi dicono che i temi neanche li fanno più…).

Nel senso, voglio dire: io mi incazzavo molto già quando, da alunno alle medie – in tempi di correzioni generalmente più attente – la mia prof qualche volta mi scriveva, nella mezza colonna vuota a destra, cose tipo “errori ortografici”, “periodo troppo macchinoso. Più semplice!”, “non metti le virgole”, o “devi andare a capo più spesso”… E io, titubante, mi chiedevo “Ok, ma dove vanno le virgole? Che errori ortografici ci sono? Quand’è che si andava a capo? Qual è la versione ‘non macchinosa’ della stessa roba che volevo dire io?”.

Un po’ di voglia di imparare ce l’avevo, ma di una correzione così generica non me ne facevo nulla.

La questione è ri-saltata fuori in un podcast di qualche giorno fa: immagino la maggior parte dei docenti di Lettere faccia questo, dedicandosi a puntuali correzioni, e pure di più, ma non è secondario, secondo me, chiederci se nei casi in cui notiamo un certo lassismo linguistico nelle nuove generazioni, be’, dietro non ci sia a volte una ormai stanca e disillusa superficialità di qualche docente che non corregge più, se si sia perso il senso della scrittura come faticosa conquista, come sudato processo, come doloroso labor limae, viaggio periglioso in cui il discente dovrebbe essere per questo, sempre accompagnato (quasi fosse, la lingua, materia da imparare a trattare artigianalmente, come in una bottega d’arte nel Rinascimento).

Per cui: certo, guai a non aprirsi a Google Moduli, Canva, Kahoot, Padlet, Quizlet, Evernote, ThingLink… e poi Writing and Reading Workshop, Grammatica Valenziale, scrittura creativa, scrittura con l’AI… ma su questa particolare competenza credo che “la moda de li maestri antichi” debba prevalere in quanto, semplicemente, più efficace. Anche perché, su questo: il Writing and Reading Workshop non dico non abbia inventato nulla, ma non capisco perché lo stesso viaggio che ha portato queste pratiche dai corsi di scrittura creativa americani alle scuole di grado inferiore americane (e, da qui, alle scuole italiane) non possa arrivare nelle nostre scuole attraverso un viaggio tutto nostrano, attingendo cioè, per dire, direttamente alla nostra millenaria tradizione retorica, di “bottega d’arte rinascimentale”.

Tutto questo ho provato a unirlo a un articolo di Giulio Mozzi, che lessi vari anni fa, e che mi fulminò. Risultato del mix? Ecco, da quel giorno io provo a far così: correzione dettagliata di ciò che l’alunno intendeva scrivere (provando a non aggiungere alcuna sfumatura espressiva; della serie: “caro/a studente, la roba che volevi scrivere, in italiano, non si dice così come l’hai scritta tu, ma bensì così; per quanto, in certi casi potrebbe essere ammesso dire anche così, cosà e colà“), feedback dettagliato con consigli, e infine compito di ricopiatura con riflessione ponderata sul confronto tra le due forme: e SOLO ALLORA, dare un voto (che tenga conto anche del lavoro di riscrittura: così, “se anche a loro interessasse solo quello, il voto…”, insomma, ci siam capiti).

Negli anni, ho notato, qualche risultato lo si ottiene: tutto molto lungo, faticoso e divertente… ma anche gratificante.

Ora, cosa c’entra con la Pasqua? Be’, se “Pasqua” è essenzialmente sinonimo di “rinascita”, questa, su un piano linguistico, non può che partire da una “correzione”.

Nel caso invece con la Pasqua non c’entrasse nulla, coerentemente col post e come avete fatto col Ministro Valditara, mi CORRIGGERETE.

 

Che ne pensate? Per qualunque cosa vogliate dirmi riguardo ai miei articoli su questo Blog, dagli apprezzamenti, ai consigli, alle critiche fino agli insulti (questi ultimi però purché formulati rigorosamente in lingue antiche), scrivete a: antonellotaurino1@gmail.com .

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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Appunti sulla mondialità

2024: il declino della democrazia

In questo 2024 che viene presentato come un anno importantissimo dal punto di vista elettorale, dato l’enorme numero di cittadini che a livello globale sono chiamati alle urne, paradossalmente la democrazia sta arretrando. Accade perché molte delle elezioni che già si sono svolte o che si terranno nei prossimi mesi presentano vizi di forma o di sostanza. Basti pensare alla rielezione di Vladimir Putin in Russia, avvenuta senza la garanzia di osservatori internazionali, senza libertà di stampa e con il principale oppositore morto in carcere, in circostanze poco chiare, in piena campagna elettorale. Ma anche la rielezione a furor di popolo di Nayib Bukele a presidente di El Salvador, che pure non è stata contestata per la trasparenza del voto, appare viziata: la Costituzione del Paese centroamericano non prevedeva, infatti, la possibilità di due mandati consecutivi. Alle elezioni presidenziali che si sono tenute il 24 marzo in Senegal, con un mese di ritardo rispetto alla data inizialmente prevista, i principali leader dell’opposizione sono stati messi in condizione di non potersi candidare. Lo stesso accade in Venezuela, dove le elezioni si terranno a luglio: a María Machado, che i sondaggi davano per favorita, è stato impedito di presentare la propria candidatura.

Regimi totalitari, democrazie illiberali, processi elettorali truccati… Le sfumature sono sicuramente diverse ma, nell’insieme, si delinea un orizzonte allarmante per lo stato della democrazia nel mondo. La fondazione tedesca Bertelsmann Stiftung ha pubblicato recentemente il suo rapporto sulla qualità della democrazia, dello sviluppo economico e della governance nei Paesi del Sud globale: se ne evince che su 137 Stati presi in esame 74 sono autocrazie, e tra queste ben 49 sono autocrazie “forti”; dei restanti 63 Stati, 15 sono democrazie “in consolidamento”, 37 sono democrazie “difettose” e 11 “altamente difettose”. Da quando si è iniziato a monitorare questa situazione, il 2024 è l’anno in cui si sono registrati i risultati peggiori.

Ci sono anche storie di successo, come quella delle democrazie che riescono a resistere a pressioni interne ed esterne, come Taiwan, Corea del Sud, Costa Rica o Cile, e casi in cui la società civile è stata in grado di ripristinare lo strumento democratico, come in Brasile e Kenya, e ancora Paesi dove la mobilitazione popolare è riuscita a tutelare i diritti civili e sociali, come in Sri Lanka e Polonia. Luci e ombre, insomma, ma con una netta prevalenza delle ombre.

Il paradosso dei nostri tempi è che praticamente nessuno dichiara di rifiutare la democrazia come forma di governo: dal punto di vista teorico, perfino regimi liberticidi come quello russo, birmano o nicaraguense dichiarano di tutelare la democrazia. Ma al di là della retorica lo smottamento sui principi è costante. I principi più a rischio sono i “fondamentali” stessi della democrazia liberale: separazione dei poteri, libertà di espressione e di associazione politica, limitazione dei mandati. Ed è proprio a partire da questi punti che inizia l’erosione dei sistemi democratici. È un processo in atto anche nel cuore dell’Europa, in Paesi come l’Ungheria e – fino a pochi mesi fa – la Polonia, e che assume dimensioni grottesche quando assistiamo a elezioni durante le quali soldati armati irrompono nei seggi per controllare il voto dei cittadini, come si è visto nei brevi video scampati alla censura durante le ultime elezioni in Russia.

Il ritorno alla normalità dopo la pandemia non ha invertito la tendenza che già si era vista in piena crisi sanitaria: sempre di più, nel mondo si registra una diminuzione del coefficiente democratico. D’altro canto, la domanda di maggiori spazi di espressione politica e culturale oggi arriva da mondi nei quali non c’è una tradizione democratica, come Iran o Egitto: qui le coraggiose richieste delle piazze e della società civile rimandano proprio ai principi basilari della democrazia. Insomma, la realtà dimostra da un lato che rimane valida la celebre massima di Winston Churchill, secondo cui la democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate, e dall’altro che questa consapevolezza sta lentamente evaporando. Ciò accade perché si confonde la qualità della classe politica al potere con la bontà della forma di governo: così sempre più persone ritengono che ci voglia una “mano forte” per rimettere le cose a posto, a prescindere dalle regole, o giustificano la rinuncia ai principi democratici in nome di un bene superiore quale l’appartenenza etnica o nazionale. In ogni caso, oggi come ieri la democrazia è nemica mortale dei progetti autoritari, e per questo è un bene prezioso.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Sapore Indie - 23-11-2024

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    Il raid israeliano su Beiru

    Aveva come obiettivo un alto comandante di Hezbollah il raid che l’esercito israeliano ha compiuto stanotte sulla capitale Beirut. Un palazzo di 8 piani è stato centrato con diversi razzi ed è collassato. Si scava ancora sotto le macerie, si contano per ora 11 morti e decine di feriti. Secondo l’emittente televisiva Al Arabya, il comandante di Hezbollah, si chiama, o si chiamava (non si sa se sia stato ucciso ancora) Muhammad Haidar: stretto collaboratore di Nasrallah, era stato nominato capo di stato maggiore ad interim di Hezbollah negli ultimi due mesi. Nella mattinata Israele ha poi riferito di avere compiuto una seconda ondata di attacchi sulla capitale libanese. A Beirut abbiamo raggiunto mauro Pompili, giornalista freelance.

    Clip - 23-11-2024

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    Chassis di sabato 23/11/2024

    "Chassis - Il contenitore di pellicole di Radio Popolare" è un programma radiofonico in onda dal 2002, dedicato al cinema. Ogni domenica mattina, offre un'ora di interviste con registi, attori, autori, e critici, alternando parole e musica per evocare emozioni e riflessioni cinematografiche. Include notizie sulle uscite settimanali, cronache dai festival e novità editoriali. La puntata si conclude con una canzone tratta da colonne sonore. In onda ogni sabato dalle 14:00 alle 15:00.

    Chassis - 23-11-2024

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    Disabilità e lavoro

    Nella scorsa puntata abbiamo parlato degli inserimenti lavorativi per le persone disabili, un percorso tutt'altro che semplice. Con noi Valentina Altamura, un'ascoltatrice che ci ha raccontato il suo iter lavorativo, e Elena Garbelli, dell'Agenzia per la Formazione, l'Orientamento e il Lavoro AFOL Metropolitana.

    37 e 2 - 23-11-2024

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    Invalidità civile e previdenziale: terza puntata

    Nella terza puntata della nostra rubrica affrontiamo il tema dell'invalidità per le persone in età lavorativa, dai 18 ai 67 anni.

    37 e 2 - 23-11-2024

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    Gli speciali di sabato 23/11/2024 - ore 13:20

    I reportage e le inchieste di Radio Popolare Il lavoro degli inviati, corrispondenti e redattori di Radio Popolare e Popolare Network sulla società, la politica, gli avvenimenti internazionali, la cultura, la musica.

    Gli speciali - 23-11-2024

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    Giornale Radio sabato 23/11 13:00

    Le notizie. I protagonisti. Le opinioni. Le analisi. Tutto questo nelle tre edizioni principali del notiziario di Radio Popolare, al mattino, a metà giornata e alla sera.

    Giornale Radio - 23-11-2024

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    Il Verziere di Leonardo di sabato 23/11/2024

    Fabio Fimiani è andato a visitare durante il raccolto l’azienda Torre Memoriola di Borgoratto Mormorolo, in provincia di Pavia. Vittorio Castellani, alias Chef Kumalé, racconta storia e usi di questa spezia a partire dall’Iran, primo produttore al mondo. Per Le multinazionali del cibo, queste sconosciute Andrea Di Stefano fa il punto del mercato dello zafferano. Nel bresciano alcuni formaggi pregiati sono colorati con questa spezia dai tempi della Serenissima, lo spiega Ugo Bonazza dell’Onaf, l’organizzazione nazionale assaggiatori di formaggi. Nelle Storie Agroalimentari Paolo Ambrosoni racconta le forme dell’oro del Parmigiano Reggiano.

    Il Verziere di Leonardo - 23-11-2024

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    Good Times di sabato 23/11/2024

    I Selton in concerto, intervista a Ramiro Levi; il cerchio di Mothers Rebellion al Parco Trotter; i consigli di Ira Rubini; tante segnalazioni!

    Good Times - 23-11-2024

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