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Appunti sulla mondialità

Il colpo di coda della Brexit…per la Gran Bretagna

Per il Regno Unito, il bilancio dei primi sei anni da Paese extracomunitario non è di sicuro positivo. Contrariamente a quanto dicevano nel 2016 i sostenitori dell’uscita dall’Europa, l’export con gli Stati comunitari è crollato: -40,7% in media, con punte del -63% nel settore alimentare. Nel frattempo l’export verso altri Paesi è cresciuto di un misero 1,7%, mentre l’import dall’UE è calato del 28,8%. A questi dati si sommano i numeri negativi dovuti alla pandemia e alla guerra in Ucraina. Il governatore della Banca d’Inghilterra, la banca centrale del Regno Unito, recentemente ha definito “apocalittico” lo scenario che va delineandosi per i cittadini britannici: calo del PIL, calo della sterlina rispetto al dollaro, aumento dei prezzi alimentari, inflazione al 9% su base annua. Intanto da vari sondaggi emerge il dramma sociale di un Paese nel quale un quarto della popolazione salta i pasti per risparmiare e due terzi non possono permettersi di tenere acceso il riscaldamento quanto vorrebbero.

Ovviamente si tratta di problemi comuni a molti Paesi in questa fase. Oltremanica, però, le criticità sono amplificate dalla solitudine del Regno Unito in campo internazionale e dalla sua autoesclusione dal mercato più ricco al mondo, quello comunitario. Come facilmente prevedibile, la perdita della posizione di privilegio garantita dall’appartenenza a un mercato con regole comuni, e senza dazi interni, è difficilmente recuperabile attraverso le aperture ad altri mercati esteri. Soprattutto perché la produzione britannica ha standard molto elevati e ciò determina prezzi più alti rispetto a quelli praticati dai concorrenti esterni all’UE, statunitensi o asiatici. Londra aveva sottovalutato questi due fattori: da un lato l’avvenuto adattamento della sua produzione ai bisogni, alle regole e ai costi dell’Unione Europea, dall’altro i tempi lunghi che servono per costruire una rete di accordi e regole condivise con altri Paesi del mondo, e anche con l’UE stessa, dovendo ora interagire da Paese extracomunitario.

Il sogno tardo-imperialista alla base della Brexit, cioè rimettere la Gran Bretagna al centro del mondo, come ai tempi della regina Vittoria, appariva già in sé un obiettivo ridicolo. Guardando poi le valutazioni alla base di quel progetto, erano evidentemente fuori luogo l’importanza attribuita al Commonwealth e la fiducia nella reale consistenza di questa organizzazione: si è scambiata per un’opportunità economica quella che, in realtà, è poco più di una semplice concessione alla nostalgia di Londra. Hanno prevalso, invece, l’arroganza del pensarsi ancora come un impero capace di imporre agli altri le proprie regole e i propri tempi, e soprattutto il sognare che da soli sarebbe stato possibile ottenere vantaggi maggiori di quelli garantiti dal mercato comune.

Nel frattempo, il prezzo pagato dai britannici ha raffreddato gli animi sovranisti in Europa. E probabilmente proprio le difficoltà di Londra fuori dall’Unione hanno fatto sì che, per la prima volta, a Bruxelles si sia deciso emettere debito comune, come sta accadendo per il programma Next Generation EU. Tuttavia, non è detto che quegli Stati che ieri usavano lo scetticismo inglese come alibi per giustificare i loro tentennamenti, ora si dimostrino pronti a compiere passi concreti verso un maggiore coordinamento europeo. Che andrebbe invece programmato, anche a rischio di perdere per strada altri Paesi oppure di ipotizzare, come ha abbozzato Emmanuel Macron, un’Unione “a due velocità”: e cioè con un nucleo di Stati che intraprendono una strada comune e un altro nucleo di Stati collegati da accordi commerciali. L’esempio della deriva del Regno Unito, che in tempi di globalizzazione si era illuso di potercela fare da solo, dovrebbe spronare tutti i Paesi membri verso la ricerca di nuove formule di convivenza più avanzate. Solo così, in un mondo nel quale le potenze stanno tornando sulla scena in modo aggressivo, l’Europa potrà trovare un suo ruolo. Oppure, rompendo le righe, tutti i 27 Stati potrebbero tornare a essere come la Gran Bretagna: isole ai margini.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Mia cara Olympe

Sessualità in carcere, che pena l’Italia

Forse ne avrete letto o sentito nei giorni scorsi: ne hanno scritto i giornali e i siti di news, diffusamente quelli di destra, hanno levato alti lai settori di polizia e della politica, in una trasmissione televisiva se n’è dichiarato scandalizzato, per motivi di sicurezza, il pm Gratteri.

Il tema, pare ‘per merito’ di Franco Bechis primo a usare sulla Verità la locuzione per dirne tutto il male possibile, è ora rubricato sotto il titolo ‘Case dell’amore in carcere’. L’occasione è lo stanziamento deciso dal governo di 28 milioni di euro che verranno diluiti nel tempo per garantire ai detenuti in alta sicurezza, che non possono usufruire di permessi, relazioni affettive e d’incontro con i loro familiari in appositi spazi da realizzare o ristrutturare all’interno degli istituti di pena. Una questione che peraltro nella grande maggioranza dei paesi europei ha già trovato civili soluzioni, di cui da decenni si dibatte in Italia e che, ancora una volta, squaderna una doppia arretratezza culturale: del pensiero collettivo sul carcere, del pensiero collettivo sulla sessualità e sull’affettività degli essere umani, detenuti e non.

E così – il linguaggio è sempre rivelatore – abbiamo in questi giorni letto e annotato: case o casette dell’amore, esigenze di carnalità, la sessualità del mafioso assicurata anche per defatiganti 24 ore consecutive, carcere a luci rosse, carcere-casino, agenti obbligati a fare i guardoni di stato… Il catalogo e il tenore delle critiche è questo, e se non bastasse qualcuno, il sito di un sindacato della polizia penitenziaria, ci ha aggiunto un paio di immagini sessiste.

Sempre il solito copione: a evocare la Costituzione e a sottolineare il valore rieducativo della pena – quel famoso articolo 27 che dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato – non ci si mette nulla, altro è mettere nero su bianco ipotesi e proposte perché il carcere non sia una discarica sociale e i detenuti e le detenute possano scontare la loro pena all’altezza di quel dettato, come oggi di certo non avviene. E quando accade, quando si affacciano proposte che vanno in quella direzione, ecco saltar fuori l’ideologia antica ed esclusivamente coercitiva della pena che si coniuga a meraviglia con un immaginario sessuale pruriginoso e retrivo, specchio di un paese, o di un suo pezzo abbastanza diffuso, di cui non andare certo orgogliosi.

Dal primo giugno in poi in oltre settanta istituti di pena si disputerà ‘La partita con papà’, iniziativa che riprende dopo due anni di sospensione perché la pandemia ha chiuso ancora di più il carcere all’esterno. Scenderanno in campo papà reclusi e bambine e bambini, organizza, in collaborazione con il ministero della giustizia, ‘Bambini senza sbarre’, associazione che si occupa del diritto all’affettività di quei centomila – capito bene, centomila –  figli e figlie di detenuti che, a loro volta, scontano non una ma molte pene. Dietro quel pallone in campo c’è un’altra idea di detenzione, opposta a quella di cui sopra abbiamo detto: e se non si può tifare, perché di carcere sempre si tratta, resta l’unica per la quale vale la pena spendersi in un paese che si voglia civile.

 

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

«Mai più, per sempre»: fidarsi della vita, e dal dolore si può ripartire

«Da mai più a per sempre» è un libro prezioso di Marina Lazzati, pubblicato da “Terre di mezzo”, nome che vale un programma di vita per i singoli, ma anche i governanti, per chi ha perso la Trebisonda. Un critico di professione direbbe che il volume racconta l’elaborazione d’un lutto. Cinque anni fa, infatti, Marina in un incidente in montagna ha perso il marito, Marco Liva, amato compagno di vita, padre dei loro bellissimi 4 figli, imprenditore, presidente della Fondazione Marcello Candia da decenni in Brasile per fragili, poveri, emarginati. Uno psicoanalista corroborerebbe con supporti autorevoli: talking cure chiamò Freud la Psicoanalisi in fasce; con Le storie che curano James Hillman ha reso fertile l’incontro tra narrazioni individuali e miti collettivi, talvolta esemplare. Io prendo il libro come vademecum, un «va’, vieni con me» (è l’illuminante definizione Treccani), un manuale per accogliere una verità durissima: «dal dolore («un compagno particolare, inseparabile» lo chiama Marina) si può ripartire».

Le verità umane sono carne di singoli individui, ma le sofferenze personali son realtà universali condivise da creature che all’unisono gemono in cerca d’un senso. A Milano per persone, famiglie, culture, ideali di cui il libro è vertice; a Kiev, Bucha, Mariupol per le ferite che l’aggressione di Putin ha reso indelebili; a Ginevra per il diplomatico russo che s’è dimesso vergognandosi dei suoi governanti: e sa che la pagherà; a Kabul per le donne ormai sepolte vive; a Uvaldo, per un’America che sfoga infelicità e ineguaglianze sparando sulla folla; altri mettano i loro luoghi. Il dolore si fa meditazione, compagna d’un viaggio intrapreso «perché decido di fidarmi della vita», da «pellegrina». Il vademecum bandisce retori consolatori e pacifisti che terrebbero i conflitti lontani per conservare il loro benessere. Trebisonda, nell’immaginario porto sicuro smarrito, è sul Mar Nero. Grazie a donne come Marina io dico: «mai più» sia mare di guerra; «per sempre» invece terra di mezzo in cui – direbbe l’Autrice – «Dio compirà il nostro incompiuto». Ha scritto Nazim Hikmet, poeta turco: «I più belli dei nostri giorni / non li abbiamo ancora vissuti».

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Sadhguru – Il Santone motociclista che corre per l’ecologia

Sadhguru, all’anagrafe Jaggi Vasudev, è un uomo straordinario, credetemi sulla parola. Un mistico, filosofo e attivista diverso da tutti gli altri, più o meno un incrocio tra Osho, Eddie Murphy, Valentino Rossi e una rockstar. Gira in moto, porta la barba lunghissima, indossa occhiali da sole scuri e alterna vestiti sportivi a tradizionali abiti indiani. Sessant’anni passati da un pezzo, questo santone dal cervello affilato come la lama di un coltello sta cambiando un discorso alla volta l’approccio con cui tante persone si relazionano al divino e alla vita. In quello che dice, in quello che fa, in quello che porta avanti, Sadhguru trova sempre nuovi spazi di comprensione. Mai una parola fuori posto. Concetti difficili spiegati in maniera semplice, diretta e ironica. Spesso è proprio grazie a una risata che riesce ad accendere il fuoco della consapevolezza.
In India è famoso come i Rolling Stones. In America lo amano in tanti, soprattutto fra le star di Hollywood. Will Smith lo ha pure invitato a casa sua. In Italia personaggi pubblici tipo Fabio Volo e Paola Maugeri ne parlano spesso. I suoi libri, divertenti e illuminanti quanto lui, qui da noi li pubblica Corbaccio, e la sua pagina Facebook – Sadhguru Italia – è seguitissima. Fidatevi di me e fatevi un favore, andate su internet e ascoltate qualcuno dei suoi discorsi: non costano nulla ma arricchiscono tanto.
Da qualche mese poi, il guru motociclista sta compiendo qualcosa di straordinario. Un giro in moto in solitaria lungo mezzo mondo per il progetto “Save the Soil” (Salviamo il suolo). Un viaggio che lo porterà a coprire circa 30.000 chilometri, incontrando centinaia di migliaia di persone attraversando decine di Paesi.
Il suo obiettivo? Sensibilizzare l’opinione pubblica sulla crisi ambientale.
Il Movimento lanciato da Sadhguru ha l’obiettivo di raggiungere 3,5 miliardi di persone – il 60% dell’elettorato mondiale.
E bisogna fare in fretta visto che, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione (UNCCD), oltre il 90% del suolo della Terra potrebbe deteriorarsi entro il 2050 portando a crisi catastrofiche a livello globale: scarsità di cibo e acqua, siccità, carestie, cambiamenti climatici, migrazioni di massa e l’estinzione senza precedenti di intere specie animali.
E così il primo giorno di primavera Sadghuru è partito da Londra per la prima di una serie di tappe che lo hanno portato in tutta Europa, poi in Medio Oriente e che si concluderanno in India, non prima di una deviazione in Costa d’Avorio per la Conferenza delle Parti (COP15) dell’UNCCD sul futuro della gestione del suolo.
Come ben ricorda un articolo degli amici di Italia che Cambia, Sadhguru ha già dato il via a Karnataka – stato del Sud dell’India, meta finale del tour – al progetto Cauvery Calling, che ha lo scopo di facilitare la piantumazione di 2,42 miliardi di alberi in terreni agricoli privati nel bacino del fiume Kaveri. L’obiettivo è ripristinare la portata gravemente ridotta del fiume e rivitalizzare il suolo. Ad oggi i volontari di Cauvery Calling hanno permesso a 125.000 agricoltori di piantumare 62 milioni di alberi per risanare il suolo e rivitalizzare il fiume.
“Non importa quanto siamo facoltosi, istruiti e ricchi, i nostri figli non potranno vivere bene se non saremo capaci di recuperare il suolo e l’acqua” dice Sadhguru.
E allora accelera amico, macina un chilometro dopo l’altro e ricorda a tutti come ci sia un solo modo per combattere il buio: accendere la luce.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Appunti sulla mondialità

Il Risiko della tassa globale

Sono stati il G20 e poi l’OCSE a dare il via a una piccola rivoluzione dal grande significato: quella della Global Tax, proposta da Joe Biden. Un provvedimento che dovrebbe introdurre un principio di equità fiscale globale, chiudendo una parentesi durata tre decenni in cui le grandi multinazionali, soprattutto quelle del settore digitale, sono riuscite legalmente a non versare tasse sui loro profitti, grazie ad abili giochi di fantasia fiscale. Si tratta di un tema di equità che si è fatto urgente: non a caso la decisione è stata presa durante il G20 di Roma, in piena pandemia, da parte di Stati che si stavano indebitando per sostenere società alle prese con il lockdown mentre alcuni comparti industriali e del terziario, proprio grazie alla pandemia, crescevano come mai in passato.

Il percorso della Global Tax verso un’applicazione efficace appare però tortuoso. Il provvedimento introduce una tassazione minima al 15%, nettamente inferiore al 22% proposto dagli Stati Uniti all’inizio delle trattative. Dovrebbe interessare le multinazionali con un fatturato globale sopra i 750 milioni di euro che versano le tasse in Paesi con aliquote inferiori, chiamate ora a versare al fisco del Paese di residenza la “quota mancante” per raggiungere la soglia del 15%. Inoltre, la Global Tax istituisce per le imprese digitali l’obbligo di versare una parte delle tasse nei Paesi in cui vendono e producono il loro fatturato, anche se hanno sede altrove; in questo secondo caso, però, il fatturato deve superare i 20 miliardi con un margine di profitto superiore almeno del 10% rispetto ai ricavi.

Visti questi numeri, parliamo di una tassazione poco più che simbolica. Anzitutto perché il 15% di tasse sui profitti è una delle aliquote più basse al mondo, se si escludono i paradisi fiscali, e poi perché le aziende digitali non avranno difficoltà a mostrare a bilancio che i loro profitti non superano il 10% dei ricavi. Dunque l’aspetto più forte di questo provvedimento dovrebbe essere il suo valore politico e simbolico. Ma la tassa, che avrebbe dovuto entrare in vigore all’inizio del 2023, è già stata rimandata di un anno. E non è nemmeno detto che alla fine venga davvero applicata, perché nel fronte dei Paesi che dovrebbero “spingere” per l’introduzione della nuova tassa si sono evidenziate diverse spaccature. Nel Consiglio Ecofin dell’Unione Europea dello scorso aprile sono rientrate le resistenze di Svezia, Malta ed Estonia, ma non quelle della Polonia, che minaccia di porre il veto alla riunione di fine maggio. In realtà Varsavia non è interessata alla questione della Global Tax: sta semplicemente tentando di ricattare l’Unione Europea per via del blocco dei pagamenti del PNNR decretato da Bruxelles verso i Paesi responsabili di violazioni dello Stato di diritto.

Negli Stati Uniti le cose non vanno meglio, il Senato è spaccato e i repubblicani non vorrebbero l’aumento della tassa introdotta da Donald Trump sui profitti all’estero delle multinazionali statunitensi, oggi al 10%.

In conclusione, la Global Tax è appesa a un filo. Con ogni probabilità seguirà la scia di altre riforme globali, come quella sul protezionismo in agricoltura in discussione al WTO dal 2003, indirizzata verso l’insabbiamento.

I grandi gruppi che sarebbero stati chiamati a fare la loro parte, versando cioè una parte dei profitti agli Stati in cui operano, sono diventati così potenti da impaurire e condizionare la politica. Chi li attacca rischia di morire, politicamente parlando, per via della grande massa di informazioni e della grande capacità di manipolazione dell’opinione pubblica di cui queste società dispongono.

Nel frattempo gli Stati continuano a indebitarsi, prima per la pandemia e ora per la corsa al riarmo, mentre interi comparti produttivi (sanità, logistica, informatica, armi) ingrassano ulteriormente. L’osmosi tra Stato ed economia rischia così di diventare un abbraccio soffocante da parte di operatori economici sempre più grandi e meno numerosi, che usufruiscono dei servizi materiali e immateriali offerti dagli Stati ma si sottraggono sistematicamente alle loro responsabilità. Prima di parlare di Global Tax al G20, forse andava riscritto il patto di convivenza tra il grande capitale e gli Stati. Perché i grandi capitalisti sono convinti, a ragion veduta, che le loro iniziative non abbiano più limiti né comportino costi, mentre i secondi si ostinano a tentare lotte di retroguardia che non hanno più la capacità di portare a termine.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Pubblica di giovedì 28/11/2024

    L'economia del sud cresce di più di quella del nord. E l'autonomia differenziata, ovviamente, non c'entra niente. Pubblicato ieri l'ultimo rapporto Svimez sul Mezzogiorno. Pil Mezzogiorno: +0,9%. Pil Centro-Nord +0,7%. L’economia del sud cresce di uno “zero virgola” più del nord, ma a trainarla non sono tutte cose buone: le costruzioni (ma anche il consumo di suolo), gli investimenti del PNRR (una tantum). Ma sul sud continuano a pesare ritardi storici: i salari reali nel Mezzogiorno restano più bassi del nord; al sud si concentra il 60% dei lavoratori e delle lavoratrici poveri/e (1,4 milioni). E il governo cosa fa per superare i divari, escluso il dannosissimo progetto sull’autonomia differenziata? Ben poco, se si guarda la piattaforma dello sciopero generale di Cgil e Uil di domani. Che idea ha del lavoro il governo Meloni? Che cosa esprime la sua rivendicata attenzione prioritaria verso le imprese (“non disturbare chi vuole fare”)? Cosa significano le precettazioni sistematiche contro i lavoratori dei trasporti? E se tutto questo è vero, risulta così incompatibile con l’ordine pubblico la dichiarazione di Maurizio Landini, leader della Cgil, sulla rivolta sociale? Pubblica ha cercato di rispondere a questi interrogativi con la professoressa Giustina Orientale Caputo, sociologa del lavoro nella capitale del Mezzogiorno, all’università “Federico II” di Napoli.

    Pubblica - 28-11-2024

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    A come Atlante di giovedì 28/11/2024

    Trasmissione trisettimanale, il lunedì dedicata all’America Latina con Chawki Senouci, il mercoledì all’Asia con Diana Santini, il giovedì all’Africa con Sara Milanese.

    A come Atlante – Geopolitica e materie prime - 28-11-2024

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    AGNESE INNOCENTE - AUDREY, LA RAGAZZA DAGLI OCCHI DI CERBIATTO

    AGNESE INNOCENTE - AUDREY, LA RAGAZZA DAGLI OCCHI DI CERBIATTO - presentato da Ira Rubini

    Note dell’autore - 28-11-2024

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    SCIOPERO GENERALE: CHI LO FA, CHI NO, PERCHE'

    29 Novembre sciopero generale. Quello di Cgil e Uil, quello dei sindacati di base. Le ragioni, il momento politico, la posta in gioco, il contesto sociale in cui avviene. Ospiti: Eliana Como, CGIL; Eugenio Losco, avvocato impegnato su molte cause di lavoro; Paola Imperatore, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Condotta da Massimo Bacchetta, a cura di Massimo Alberti.

    Tutto scorre - 28-11-2024

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    Presto Presto - Interviste e Analisi di giovedì 28/11/2024

    Mattia Guidi professore associato di scienza politica all'Università di Siena e Giacomo Gabbuti Ricercatore di storia economica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ci raccontano i tagli del governo alla università (mezzo miliardo sono quest'anno), la mobilitazione di ricercatrici e ricercatori (sarà un movimento?). Luigi Ambrosio analizza la lotta dei due vice nel governo che destabilizza il governo. Dino Fracchia racconta quasi 50 anni delle sue fotografie sul lavoro tra scioperi, fabbriche, cortei raccolte in un libro, Working Class, che presenteremo martedì 3 dicembre alle 18.30 nell’auditorium di Radio Popolare, insieme al nostro Massimo Alberti, a Gigi Malabarba di Rimaflow e Vincenzo Greco della Camera del lavoro di Milano.

    Presto Presto – Interviste e analisi - 28-11-2024

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    Presto Presto - Lo stretto indispensabile di giovedì 28/11/2024

    Il kit di informazioni essenziali per potere affrontare la giornata (secondo noi).

    Presto Presto – Lo stretto indispensabile - 28-11-2024

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