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La scuola non serve a nulla

Pensieri scomposti di fine anno scolastico…

L'ultima campanella

Faticosamente, è finito anche quest’anno scolastico (qui foto di come io la prof. di Matematica abbiamo atteso i genitori nell’incontro finale post-pagelle su Zoom)

Oh Gesù, che anno… cominciato con la minaccia pandemica ancora ben presente e finita con la sorpresa di qualche alunno ucraino nelle nostre classi. E lì in mezzo, noi docenti, gli alunni, i dirigenti e i genitori: a provare ad accogliere, ad adeguarci e anche a imparare dal rimbalzo che questi grandi eventi trovano nello spazio ristretto d’una classe.

Difficile esprimere quello che sente un docente in queste ore: ogni parola (e persino il silenzio, anche del peggiore di noi) rischia d’essere solo insormontabile melassa di sentimentalismo retorico. Che non ci starebbe neanche male, ma è solo per scusarmi se seguiranno solo pensieri scomposti di fine anno scolastico:

– già soltanto l’immagine della montagna di verifiche che un docente ha dovuto correggere durante tutto l’anno, e che alla fine accumula lì in sala docenti per catalogare il tutto, basterebbe già, da sola, a confutare la minchiata che “si lavora solo 18 ore a settimana”;

– Anche quest’anno resta un mistero perché quell’alunno lì, a fondo classe, durante le lezioni, continuasse a sorridere guardandosi in mezzo alle gambe. O stava usando il cellulare provando a nascondersi, oppure più semplicemente gode di fortune che io posso solo immaginare;

– sulla questione bocciature, bisognerebbe senza ipocrisie cominciare a gridarlo ai quattro venti ai non addetti ai lavori, il noto segreto di Pulcinella: nella scuola dell’obbligo non è che si promuove solo perché un alunno ha raggiunto le competenze richieste: a volte si promuove perché per lui la scuola, benché il soggetto non sappia una favazza di nulla, davvero non può fare nient’altro e non ha più strumenti da spendere su di lui. Come un Ospedale – perdonate l’atroce metafora – che dimette un paziente non perché guarito, ma per indirizzarlo all’hospice. I dibattiti di questi giorni mi pare rendano necessaria questa banale constatazione, dato che in tema di Istruzione il Legislatore ha deliberato, per tuttə e fino a una certa età, che debba essere obbligatoria la frequenza, mica anche lo studio…

– Anche quest’anno noi docenti siamo riusciti a trovare nuovi motivi per dividere ancor di più la loro categoria. Ultimo tra tutti, lo sciopero del 30 maggio: per qualcuno un fallimento annunciato, per altri un’adesione non trascurabile di quasi il 20% che non può essere ignorata. Tante le motivazioni, legate tutte alla mancata risposta alle richieste delle organizzazioni sindacali di modifica del DL 36 su formazione e reclutamento, approvato nei giorni scorsi dal Governo. Su molti punti importanti non è stato neanche possibile intavolare trattativa: nessuna ipotesi di stabilizzazione del personale precario (enormemente penalizzato da ciò che si prospetta); reclutamento trasformato in un percorso a ostacoli con prove sfide selezioni barriere “fai una giravolta falla un’altra volta”, che, unito a un rimandabilissimo e complicato rinnovo delle Gps (le graduatorie dei precari da cui le scuole attingono per assumere i precari), porterà a un numero ancor maggiore di assunzioni tramite MAD, cioè la “messa a disposizione”. In parole povere? Sarà più facile che venga chiamato a far supplenza il signor Ginetto che fino al giorno prima gestiva una tabaccheria, con contestuale crollo della percezione, nell’opinione pubblica, del livello di professionalità della funzione docente (bisogna in qualche modo motivarlo, questo mancato aumento salariale, no? Ma ci torno dopo). Per non parlare del “Concorso a premi” per l’aggiornamento e formazione dei docenti. Della serie: “è obbligatoria per tutti, ma la pagheremo solo a un 40% di loro: i migliori”, cioè i primi classificati di una ancor non ben definita graduatoria interna a ogni istituto. Gli altri (quelli arrivati dopo: quindi quelli a cui, in teoria, servirebbe di più) se la pagassero da soli. Se mi permettete di proseguire con l’allegoria sanitaria: è come pagare le medicine a chi sta bene.

– Niente eguaglierà la potenza vitale dell’urlo gioioso d’una classe al suono dell’ultima campanella; niente eguaglierà l’irrazionalità dell’atto dell’alunno a cui non è fregato una mazza di tutto quello che hai fatto durante l’anno perchè l’ha passato a guardarsi in mezzo alle gambe, ma che, l’ultimo giorno, ti chiede di firmargli a penna il braccio. E allora lì, mentre accetti il rituale, ti viene in mente che l’etimo di “scrivere”, dal greco “gràphein”, è “incidere” (“Ahia, prof!”)

– anche quest’anno, di rinnovo contrattuale e aumenti (e già gli stipendi sono tra i più bassi tra i Paesi più sviluppati) non se n’è parlato. O meglio: se n’è SOLO parlato, tra ipotesi “mancetta 50 euro” al mese e le richieste, ragionevoli, che direbbero 200. L’altro giorno, l’incontro Aran-sindacati si è concluso con un nulla di fatto. Certo, anche lì, un’adesione maggiore al recente sciopero avrebbe giovato: e allora bisognerebbe forse che, kennedynamente, molti docenti cominciassero a chiedersi non “Cosa il sindacato può fare per noi”, ma “Cosa potremmo fare noi per il sindacato”. E soprattutto, devo trattenere un impulso manesco ogni volta che sento docenti affermare che “l’adesione allo sciopero è bassa perchè è una forma di protesta ormai inutile, troppo leggera, innocua: bisogna pensare a roba più forte, tipo blocco scutini, e allora sì che i docenti pertecipano e cambia qualcosa”. Che è un po’ come dire che se a me piace una tipa e questa ha ritenuto di declinare un mio invito ad uscire a bere un drink, be’, sicuramente quel “no” dipende dal mio approccio troppo timido e graduale: avrei dovuto subito proporle direttamente il matrimonio, e lì vedi che avrebbe sicuramente accettato! Lì vedi che successso!”

– Se pensate che la scuola “si deve aggiornare”, “deve stare al passo con i tempi” e cose così, be’, anche soltanto un giro alla Fiera Didacta, organizzata da Indire ogni anno a Firenze (in genere a ottobre; quest’anno, per strascichi di pandemia, a fine maggio) vi avrebbe regalato un po’ di speranza. Certo, lì c’era il meglio dell’innovazione didattica in Italia, troppo spesso in capo all’intraprendenza del singolo docente e raramente espressione d’un percorso organico e di sistema, ok… ma guardate solo il  programma di quest’anno e poi prenotatevi per l’anno prossimo: https://fieradidacta.indire.it/en/

– Se la pandemia è stata raccontata con il lessico della guerra (a torto o a ragione), e se la scuola è stata spesso raccontata con il lessico della medicina (a torto o a ragione), perché non chiudere il cerchio raccontando la guerra con il lessico della scuola? Putin bocciato senza esitazioni (“incolmabili lacune in geografia e storia”); Zelensky rimandato (“è intelligente, ma non si applica; e in più sta tutto il tempo a gigioneggiare”); Stati Uniti: voto bassissimo in comportamento (“troppi atti di bullismo nel primo quadrimestre”); Unione Europea: promossa, ma con un sacco di debiti (“viste le troppe assenze strategiche”).

La scuola è il futuro. La scuola non serve a nulla. Il futuro non è più quello di una volta. La scuola, fortunatamente neanche.

Buon futuro e buone vacanze a tutti!

 

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Natura, rivoluzione interiore e Rolling Stones

Da quasi un anno mi sono trasferito in una casa indipendente di fronte a un bosco, lontana dal delirio e dal rumore della città. Verde, alberi, fiori, frutti e profumi che pensavo non esistessero più. Da tempo sentivo dire: “Non esistono più le stagioni”. E quasi ci credevo. Balle. Magari non esistono più in città, nel grigiore di palazzi, uffici e supermercati che hanno tutto e tutto l’anno. Ma in campagna le stagioni ci sono eccome, e te ne accorgi inequivocabilmente. Il ciliegio davanti a casa lo abbiamo visto spoglio in inverno, colorarsi di fiori bianchi come manna a marzo, ed ora è pieno di piccole e gustose ciliegie rosse. E così è stato per il nespolo, le amarene e così via.
Nel verde la vita e il suo ciclo assumono tutta un’altra connotazione. Con mia moglie desideravamo che i nostri bimbi crescessero sporcandosi le mani nella terra e non solo sulla tastiera di un ipad o di un cellulare. Qua su ti svegli e vai a dormire col rumore dei grilli, la sera passano a salutarci i daini e di notte il grugnito incessante annuncia l’arrivo di un gruppo di cinghiali che, affettuosamente, ho ribattezzato “i ragazzi”.
Con i vicini – in tutto due famiglie, anche loro con bambini – abbiamo messo su una piccola comune. Ci si aiuta, si chiacchiera, si sta intorno al fuoco a bere vino onesto raccontando storie e guardandosi negli occhi. Non siamo i soli ospiti, comunque. Due vasche d’acqua al lato sentiero ospitano una tartaruga che sembra un dinosauro, ranocchie più verdi di una pianta di marijuana, pesci rossi, fiori di loto e due carpe giapponesi che abbiamo chiamato Sid e Dharta. Se ne occupa Chri, per tutti “il sindaco” perché è sempre pronto a occuparsi di far star bene tutti quanti. A coadiuvarlo nel far funzionare le cose e nell’insegnarmi un po’ di lavoro manuale ci sono Sumo detto “l’ambasciatore” e Sergio “il druido”. Il primo è un restauratore dalle mani d’oro, con gli occhi buoni e la fissa per i Rolling Stones. Il druido invece è il druido e basta, perché grazie ai suoi intrugli nel suo orto cresce di tutto, dal limone caviale all’ultimo sperduto frutto che vi viene in mente. Pensato? Ecco, nel suo orto cresce.
C’è un sacco da fare quassù, tra il giardino, l’orticello e tutto quanto, la sera io e mia moglie alle 10 siamo già a letto stanchi morti. Praticamente vado in branda all’ora in cui una volta uscivo, e mi sveglio quando una volta andavo a dormire.
Questa cosa mi piace, è come esplorare un’altra parte di tempo e spazio che prima non conoscevo.
Le tante cose da fare, la bellezza della natura e dello stare fuori, poi, hanno anche un altro merito: ci allontanano dalla TV, dai social, dal mondo non più mondo di internet.
Già televisione se ne vedeva poca, ora proprio zero. Niente TG, solo qualche film o documentato.
Ebbene, abbiamo scoperto che nella tranquillità, lontano da cemento, opinionisti e strilli, la mente diventa un po’ più lucida, silenziosa e a fuoco.
E in questo momento di scontri, consapevolezza del mondo col fiato corto, liti su tutto quanto, questo silenzio non è solo piacevole. È necessario.
E col fuoco che scoppietta, nella mia capanna nel bosco – parafrasando Terzani l’ho definita affettuosamente “gompa” e dipinta di giallo e rosso – l’unico rumore che sento è quello del vento, che mi bacia i capelli mormorando una poesia.

“E sali verso la montagna
Un passo dopo l’altro
Il piede sulla terra
a schiacciare la paura
Albero dopo albero
Roccia dopo roccia
Il sole a sciogliere quel nodo
Che puzza di terrore”

E allora mi è chiaro che il Buddha ha sempre avuto ragione. L’unica rivoluzione possibile è quella interiore. Ma per sentirsi, ascoltarsi, annusarsi e guardarsi veramente dentro serve silenzio. Bisogna spegnere non accendere. Sbucciare e semplificare. Ripartire dalla natura, dai suoi consigli e dalle sue regole.
E il resto poi arriva…
Gary Snyder – sì quello immortalato da Jack Kerouac ne “I Vagabondi del Dharma” – grande poeta e attivista per l’ambiente americano scrive: “Come poeta coltivo i valori più arcaici che ci siano. Risalgono al tardo Paleolitico: la fertilità della terra, la magia degli animali, la visione di potere nella solitudine, l’iniziazione terrificante e la rinascita, l’amore e l’estasi della danza, il lavoro comune della tribù”.
Rassicura l’idea di ripartire da lí: Natura, rivoluzione interiore e Rolling Stones!

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Mia cara Olympe

Da Gardaland all’Essex c’è un filo rosso

Cosa hanno in comune l’aggressione e le molestie sessuali sul treno di ritorno dal Garda lo scorso 2 giugno ad un gruppetto di giovanissime ad opera di ragazzi e al grido – riferiscono le cronache – ‘Qui è Africa, voi siete bianche, non vi vogliamo’ e l’ultimo dei femminicidi  di cui è stata vittima, nella contea dell’Essex in Inghilterra, una docente universitaria italiana uccisa dal marito, secondo i media, ‘invidioso’ di un suo maggior successo professionale?

All’apparenza poco o nulla: diversi i pesi e gli esiti delle due vicende, diversi i contesti, le dinamiche – lì la logica del branco in uno spazio pubblico, qui la scena purtroppo consueta di un uomo che toglie la vita alla sua partner nel chiuso di una villetta ‘tranquilla’ – diverse le domande che il primo episodio suscita e che hanno, anche, a che fare con la vita delle seconde o terze generazioni di immigrati in Italia.

Eppure il filo rosso c’è e conduce ancora una volta alla grande questione dell’autorizzazione maschile:  un’autorizzazione interiore e antica a violare il corpo femminile nelle mille maniere in cui si può farlo, e al contempo moderna perché oggi a essere violata è, oltre al corpo, una raggiunta libertà delle donne. La libertà di  vivere in autonomia, di decidere, di attraversare il mondo, sia per tornare a casa con le amiche da una gita a Gardaland sia per condurre la propria vita tra l’università di cui si è docente apprezzata, lo era Antonella Castelvedere, e quella villetta in cui cresce una piccola figlia.

È questo il cuore del problema: oltre le circostanze, le questioni culturali e sociali, oltre quelli che chiamiamo  ‘moventi’ e che talvolta servono a non vedere lucidamente la trama comune della violenza maschile contro le donne che si va facendo più dura, perché è esercitata da chi vede o comunque percepisce che il privilegio patriarcale di cui generazioni di maschi hanno goduto si va incrinando. Il nocciolo duro sta lì e rimanda tutta l’urgenza di fare di più e meglio per  interrogare questa violenza, per svelarne le forti radici  e i tanti alibi di cui si ammanta. Compito della comunità certo, compito non eludibile degli uomini.

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Breaking Dad

La fine delle Elementari

Succede che manchi meno di una settimana alla fine delle Elementari. Ne sono assolutamente certo, ho fatto bene i calcoli: mercoledì prossimo accadrà. Ora, è vero che era già capitato con Figlio Uno (che poi ha finito pure le Medie ma alzi la mano chi ha provato la stessa cosa alla fine delle Medie). Già era stata una bella botta. Ma c’era il secondo tempo, accidenti. Invece adesso no, è proprio finita.

Questi giorni stanno passando in un’atmosfera un po’ sospesa. Tra cerimonie di saluto, preparazione dello spettacolo finale, vaghi discorsi su quello che lo aspetterà a settembre. Sì, certo, molti compagni e compagne li ritroverà, la scuola è ancora nel quartiere, non si va lontani. E poi c’è la voglia e il bisogno di provare cose nuove, di mettersi alla prova. Ma in realtà lo sappiamo bene cosa lo aspetterà: il non essere più bambini. La fine delle Elementari segna proprio questo. Ma voi vi rivolgereste a un alunno (o si dice già “studente”?) di prima o seconda media chiamandolo “bambino”? No, con tutta evidenza non lo è più. Io lo so e, secondo me, anche lui se ne rende conto, o forse non del tutto, chissà.

“Alle medie, papà, si va a scuola da soli?”. Bè, sì, direi che non ci sono dubbi. Tanto più se la scuola si trova a un chilometro da casa. Ecco, non ci sarà più quel rito del mattino, uscire insieme mezzi addormentati. Ma ne inventeremo altri, eccome. Né quello del pomeriggio alle quattro, che poi si sta al parchetto e la merenda te la porto io, oppure andiamo subito a casa che fa freddo e poi c’è allenamento.

Nell’ultimo periodo stiamo facendo delle prove. La simulazione riesce perfettamente, visto che la scuola elementare è vicinissima alla media. Fabri esce di casa da solo, lo guardo dalla finestra della sala che dà sulla piazza. Si avvia, seguendo la strada che abbiamo fatto mille volte insieme. Lo vedo mettersi disciplinatamente in attesa che il semaforo sia verde e poi passare (guardando lo stesso, ché non si sa mai) a passo veloce, quasi corricchiando. Dopo un po’, scendo anch’io e lo seguo a distanza. Lo vedo davanti a me, lo zainetto sulle spalle, lui sa che sto arrivando ma non si volta, deve fare come se fosse davvero da solo. Infine, lo raggiungo davanti alla scuola, qualche minuto prima dell’ingresso.

“Alle medie non c’è la maestra, vero?”. No, ma ci sono tante professoresse e professori bravissimi, che ti insegneranno le varie materie. Vedrai, sarà super interessante! Assomiglierà molto più al mondo e molto meno al nido. Ma, vabé, questo lo capirai più avanti. Mica è sbagliato, ci mancherebbe, è giusto così. E’ solo un’altra cosa che ci si lascia alle spalle.

Mi viene in mente Valentino Rossi che, fresco papà, in questi giorni ha detto: “Fare il genitore è una figata!”. E’ vero Vale, ma è pure un bel casino perché dall’istante in cui lo diventi hai ogni giorno davanti agli occhi uno spettacolo meraviglioso che non si ripeterà mai più. Che ti riempirà il cuore e, nello stesso momento, ti lascerà un po’ di malinconia addosso. E va bene, mica ci pensi ogni volta, ovviamente, sennò diventa una lagna! Ed è anche questo il bello, in fondo: le tappe, il viaggio, la crescita. Però poi ecco che arrivano quei momenti in cui è proprio impossibile fare finta di niente. E ti viene il groppo in gola. Come alla fine delle Elementari.

  • Alessandro Principe

    Mi chiamo Alessandro. E, fin qui, nulla di strano. Già “Principe”, mi ha attirato centinaia di battutine, anche di perfetti sconosciuti. Faccio il giornalista, il chitarrista, il cuoco, lo scrittore, l’alpinista, il maratoneta, il biografo di Paul McCartney, il manager di Vasco Rossi e, mi pare, qualcos’altro. Cioè, in realtà faccio solo il giornalista, per davvero. Il resto più che altro è un’aspirazione. Si, bè, due libri li ho pubblicati sul serio, qualche corsetta la faccio. Ma Paul non mi risponde al telefono, lo devo ammettere. Ah, ci sarebbe anche un’altra cosa, quella sì. Ci sono due bambini che ogni giorno mi fanno dannare e divertire. Ecco, faccio il loro papà.

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L'Ambrosiano

Pahor, frontiere, Gorgone, ossa umiliate: e la festa della Repubblica

Che Boris Pahor sia morto alla vigilia della Festa della Repubblica è uno dei piccoli regali che la vita elargisce: con parsimonia perché la semina fruttifichi meglio. Che poi lo scrittore sloveno di Trieste scampato ai lager nazisti se ne sia andato a 108 anni in tempo per vedere Putin aggredire l’Ucraina, macerie e carestie connesse è monito inesausto; cosa ancora deve accadere perché si impari dalla storia, dallo scontro tra poli estremi: il male assoluto inoculato in dosi diabolicamente sapienti così che le masse finiscon per ritenerlo “normale”; e gli sforzi per riscattare abiezioni di cui solo l’uomo è capace; cosa deve accadere perché sopravvissuti oltre al senso di colpa non vivan gli incubi di cui parlò Primo Levi: chi ha fatto ritorno non ha visto a fondo la Gorgone; chi l’ha vista non è tornato.

Pahor è impregnato di valori della Costituzione. Ha patito discriminazioni, ingiustizie, violazioni di corpo e anima cui la Carta nata dalla Liberazione ha rimediato con parole chiare, splendide, inoppugnabili. Di una regione di frontiera ha incarnato dolori, rischi, incomprensioni che dovrebbero svegliar coscienze oggi che si muore per il Donbas; per Kobane (i Curdi minacciati da Erdogan); in Terra Santa (non a caso si riattizzano scontri). Pahor ha visto nel 1920 i fascisti dar fuoco alla Casa della Cultura slovena per “italianizzare” negando l’esistenza delle minoranze. Nella Resistenza, sloveno ha patito i Titini. Preso dai nazisti è passato di lager in lager. Visita l’ultimo di questi, in Francia, tra curiosi e turisti: è lo splendido romanzo Necropoli (1965: in italiano tradotto 40 anni dopo!). Dove patì trova un cimitero con due scritte: Honneur et patrieOssa humiliata. Ha parole dure per «l’uomo europeo indolente e pauroso», che «ogni tanto nell’inconscio prova vergogna per questa situazione da eunuco» ma «ha già scialacquato in anticipo il patrimonio di onestà e di giustizia che avrebbe dovuto trasmettere alle nuove generazioni». Carta e Repubblica son la base perché non restino «ossa inaridite» le “ossa umiliate”; queste, dice Ezechiele, tornino a vivere: dai lager di Pahor; dalle fosse comuni ucraine e nel mondo; aiutino l’immissione di cuori di carne al posto di cuori di pietra.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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    L'economia del sud cresce di più di quella del nord. E l'autonomia differenziata, ovviamente, non c'entra niente. Pubblicato ieri l'ultimo rapporto Svimez sul Mezzogiorno. Pil Mezzogiorno: +0,9%. Pil Centro-Nord +0,7%. L’economia del sud cresce di uno “zero virgola” più del nord, ma a trainarla non sono tutte cose buone: le costruzioni (ma anche il consumo di suolo), gli investimenti del PNRR (una tantum). Ma sul sud continuano a pesare ritardi storici: i salari reali nel Mezzogiorno restano più bassi del nord; al sud si concentra il 60% dei lavoratori e delle lavoratrici poveri/e (1,4 milioni). E il governo cosa fa per superare i divari, escluso il dannosissimo progetto sull’autonomia differenziata? Ben poco, se si guarda la piattaforma dello sciopero generale di Cgil e Uil di domani. Che idea ha del lavoro il governo Meloni? Che cosa esprime la sua rivendicata attenzione prioritaria verso le imprese (“non disturbare chi vuole fare”)? Cosa significano le precettazioni sistematiche contro i lavoratori dei trasporti? E se tutto questo è vero, risulta così incompatibile con l’ordine pubblico la dichiarazione di Maurizio Landini, leader della Cgil, sulla rivolta sociale? Pubblica ha tentato di rispondere a questi interrogativi con la professoressa Giustina Orientale Caputo, sociologa del lavoro nella capitale del Mezzogiorno, all’università “Federico II” di Napoli.

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    Mattia Guidi professore associato di scienza politica all'Università di Siena e Giacomo Gabbuti Ricercatore di storia economica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ci raccontano i tagli del governo alla università (mezzo miliardo sono quest'anno), la mobilitazione di ricercatrici e ricercatori (sarà un movimento?). Luigi Ambrosio analizza la lotta dei due vice nel governo che destabilizza il governo. Dino Fracchia racconta quasi 50 anni delle sue fotografie sul lavoro tra scioperi, fabbriche, cortei raccolte in un libro, Working Class, che presenteremo martedì 3 dicembre alle 18.30 nell’auditorium di Radio Popolare, insieme al nostro Massimo Alberti, a Gigi Malabarba di Rimaflow e Vincenzo Greco della Camera del lavoro di Milano.

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    Presto Presto - Giornali e commenti di giovedì 28/11/2024

    La mattina inizia con le segnalazioni dai quotidiani e altri media, tra prime pagine, segnalazioni, musica, meteo e qualche sorpresa.

    Presto Presto – Giornali e commenti - 28-11-2024

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