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Mia cara Olympe

Elisabetta II, noi qui e il freddo inverno inglese

È morta colei che sembrava non dovesse mai morire, e che ora gode dell’eternità dei libri di storia e della second life digitale oltre che delle memorie personali, ‘è stata un filo che si è snodato attraverso tutte le nostre vite’, ha detto J.K. Rowling, l’autrice di Harry Potter, spiegando a noi che inglesi non siamo il  cordoglio del suo paese. È morta Elisabetta II, è morta ‘la’ regina, interpretata da grandi attrici come Mirren e Colman, l’icona pop, ma anche la ‘cattiva’ che non ha amato Diana e non ha capito in tempo il lutto per lei, la sovrana a capo di un impero coloniale e si potrebbe continuare con i completini e le borsette (ma dove finiranno adesso tutte quelle mise pastello, ci si chiede), con l’orsetto Paddington con cui, spiritosa, ha preso un the, con Winston Churchill e con quel magnifico spettacolo che è ‘The Audience’, dedicato ai suoi incontri del martedì con i primi ministri  britannici… Eccetera, eccetera, eccetera con quanto stiamo vedendo, leggendo e sentendo di lei in questi giorni, mentre Carlo sale al trono e ci si chiede che razza di re riuscirà ad essere.

Ciò detto, ci possono essere molti motivi per sentirsi lontani, indifferenti o poco coinvolti dalla morte di Elisabetta II, a cominciare dalla critica all’istituzione obsoleta – la monarchia – che ha rappresentato per 70 lunghi e densissimi anni. Ce n’è uno però – molto ricorrente in questi giorni sui social – che dichiara la propria estraneità all’evento in nome del fatto che Elisabetta non è, non era ‘come noi’, non si alzava tutte le sante mattine per andare a lavorare, non aveva il problema di far quadrare i conti a fine mese e di pagare le (sempre più care) bollette. Il che è insieme una gigantesca ovvietà – era la regina d’Inghilterra, in fondo –  un errore perché tutto si può dire meno che non abbia fatto infaticabilmente il proprio mestiere,  ma anche un segno che dice qualcosa di noi. Mancanza di immaginazione, incapacità di andare oltre la propria esperienza, effetto di un pensiero populista che ha ormai intaccato anche la nostra facoltà di giudizio su cose e persone? Forse un mix di tutto questo: preoccupa questo assumere la propria vita come unico e assoluto metro di giudizio di ciò che accade, ci impoverisce e ci rinchiude in uno spazio che non si fa permeare dal lontano e dal diverso da noi. Che sia, anche, la vita di una regina, certo.

A margine e non tanto: sono tornata dall’Inghilterra giusto la sera prima della morte di Elisabetta II. In un megamagazzino di mobili di seconda mano, posto meraviglioso e sgarrupatissimo alla periferia di Manchester, una simpatica signora bionda, dopo aver saputo che le due potenziali acquirenti erano italiane, ci ha detto nell’ordine: che, se potesse, dal suo paese se ne andrebbe domani mattina, destinazione Italia, Spagna, o qualunque altro posto; che ha votato per la Brexit sulla base di una quantità innumerevole di frottole e adesso si sente presa in giro; che suo figlio non le parla proprio per questo motivo; che la gente non compra i suoi mobili perché non ci sono soldi e vengono risparmiati per pagare le bollette invernali. Piccolo squarcio, ma non certo del paese ‘prospero’ di cui ha detto la neopremier conservatrice Liz Truss, e invece preoccupato, impaurito se non incazzato: ‘Class struggle is back’, recita una locandina del partito socialista dei lavoratori vista su tante fermate degli autobus. Se n’è andata Elisabetta: ne ha viste tante, non vedrà quel che si annuncia come un inverno inglese di molto freddo, dentro e fuori.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

Devianze, belli e sani: a futura memoria (psicologo concedente)

Nel frullatore preelettorale son finiti i dolori psichici giovanili. Sbocco naturale in vista del voto se anoressia, autolesionismo, isolamento, bulimia, bullismo fossero al centro d’un piano per adolescenti vittime di due anni di pandemia e d’una società che ha rubato il futuro alle generazioni. Invece occasione è stata Giorgia Meloni che ha scambiato buio dell’anima per devianze garantendo: con me al governo lo sport farà crescere «italiani sani e determinati». Chi vellica la pancia d’un Paese smarrito canta ciò che i suoi vogliono udire e da sirena pesca nell’inconscio collettivo. Le crisi insopportabili suggeriscono novità “a prescindere”, rimozioni di massa, semplificazioni, rassicurazioni. Basta frequentare bus o vedere come sui media tutto s’appiattisce: aumento di prezzi e bollette, giochi di Putin sul gas, paure per inverno e lavoro, aggressioni di giovani sui treni, branco che istiga al suicidio. Chi nella competizione dovrebbe mettere scale di valori, idee di uomo e mondo invece non sa dare immagini che scaldino i cuori e non ha esperienze di politiche nazionali o locali coi giovani. È andata a tutti bene la logica del bonus: casa, elettrodomestici, trasporti, psicologo. Il bonus è arma ambigua: attenzione per emergenze; ma senza strategie e priorità mantiene ingiustizie, distorsioni. Negli stessi adolescenti suscita reazioni opposte. Prospettive non chiare anche in chi dovrebbe prestare le cure. Note ufficiali stupiscono. Ordine degli Psicologi del Lazio: «Non entriamo nel merito politico della questione», come i giovani fossero bega Meloni/Letta. Per chi s’occupa di psiche non prender posizione sui nessi tra idea di uomo, civitas, episodi è o superficialità (non esiste terzietà professionale avulsa dai contesti storico, civile, culturale!) o convenienza corporativa. I giovani stan male? Se non tengon dentro dolore e vuoto li sfogano su sé o altri? Per curarli Ordini e Associazioni psicoanalitiche si riservan trattative con chi vince? Altri bonus? Sarebbe tradire le attese. C’è un libro di Sciascia: “A futura memoria. Se la memoria avrà un futuro”. Con ‘ste elezioni a chi scrive sembra di farlo “a futura memoria”. Contando che i giovani ci sian sempre. Almeno loro!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Breaking Dad

RICOMINCIO DA TRE (prima parte)

Come Troisi. Sì, perché non c’è modo migliore per ripartire con “Breaking Dad”: ricominciare da tre. Noi tre in viaggio, proprio nella città del grande Massimo.

Uno, due e tre, allora: tre biglietti del treno Milano-Napoli. E’ il nostro ultimo scampolo di vacanze: cinque giorni a esplorare, visitare, mangiare squisitezze per strada. Una piccola avventura, così l’abbiamo pensata, organizzando qualche cosa, ma non troppo per lasciarci il piacere della sorpresa e dell’improvvisazione. Della fantasia. Del resto andiamo a Napoli, mica a Zurigo.

 

GIORNO UNO

Il Frecciarossa è puntuale: partiamo, come previsto, alle 10.05 dalla stazione centrale di Milano. Sono quattro ore e mezzo, che è pochissimo se pensiamo a cosa fosse questo tragitto solo qualche anno fa (“Sì papà, ok, ai tuoi tempi ci si andava a cavallo? Ah ah ah!”). Ma non è proprio un niente, insomma bisogna inventarsi qualche cosa da fare, ché il paesaggio dal finestrino è come la musica balcanica secondo Elio: è bello e tutto quanto ma alla lunga… (ndr. per chi fosse interessato all’effetto – alla lunga –  della suddetta musica, vedere “Il complesso del Primo Maggio” di Elio e le Storie Tese, strofa 1).

Comunque, ingannato il tempo con giochini, musica e cibarie portate da casa, alle 15 e spiccioli siamo in piazza Garibaldi per il primo selfie davanti alla grande scritta sulla parete a vetrata della stazione centrale partenopea. Il nostro alloggio si trova in via Pignasecca (il nome mi piace da matti), nei Quartieri Spagnoli. Decidiamo di andarci a piedi, sono solo un paio di kilometri e viaggiamo leggeri: due piccoli trolley e uno zaino. Così cominciamo a prendere contatto con la città. E l’impatto è notevole per i ragazzi che per la prima volta ci mettono piede (io ci ero stato anni fa ma un po’ di corsa). Appena lasciata la grande via Toledo e inoltratici nei Quartieri (così li chiamano qui, senza Spagnoli) è tutto un: guarda là, guarda qua, no vabè, che figata…. I vicoli, stretti, che si arrampicano sui gradoni, i vicoli addobbati con i panni stesi, i motorini che sfrecciano con due o tre persone in sella, le bancarelle con le magliette di Maradona, gli stendini in strada, le signore con le sedie davanti alla porta aperta della loro piccola casa al piano terra. Fabri e Franci sono curiosi, osservano un po’ circospetti. Io osservo loro e ho già la sensazione di aver avuto una buona idea.

Incontriamo il nostro padrone di casa, un gentilissimo signore che fa a Fabri una sola raccomandazione, un po’ scherzando ma un po’ no. “Siete di Milano, no? E allora dite che siete dell’Inter o del Milan, come vi pare. Ma juventini, quello no. Mi raccomando.”

A questo punto abbiamo fame. Sotto casa, pochi metri alla sinistra del grande portone di ferro del nostro antico palazzo (“Vecchio, papà, è proprio vecchio…”), c’è un camion che vende: frittatine, pizza fritta, frittura di mare nel cartoccio (‘o cuoppo). Più altre svariate cose. Fritte, comunque. Più che street food è freet food.

Cose notevoli del nostro appartamento: la vista dal balcone che affaccia su un vicolo lungo e stretto che sembra ricostruito da Sorrentino; l’ascensore che bisogna metterci 20 centesimi per farlo partire; la scritta incisa sul muro dell’androne – chissà quanti decenni fa – “Gennaro ama M.” (decidiamo che è Maria); il cortile che dà sul mercato giornaliero di verdure, pesce e carabattole della nostra via.

 

GIORNO DUE

Il secondo giorno comincia con una colazione come si deve. A base di caffè, cappuccino e sfogliatella, riccia e frolla. Segue dibattito su quale sia più buona. Io scelgo la frolla, ai ragazzi piace di più la riccia, a Fabri ancora di più il cornetto al cioccolato. Il tutto guardando piazza del Plebiscito che si allarga maestosa alla nostra destra. La percorriamo in tutta la sua larghezza, sotto un cielo blu e una luce smagliante. Il colonnato è imponente, Fabri lo fotografa e ci si fa un selfie; ma invano tento di aver udienza quando, leggendo la nostra fedele Lonely Planet, provo a spiegarne le origini. Giusto, papà, che palle, me lo dico da solo. Va meglio con un tizio che vuole vendermi dei cornetti rossi e che io rimbalzo un po’ bruscamente pigliandomi un vaffa in napoletano stretto. Ecco, questa cosa piace molto: vedi, uno si ingegna e poi…

La tappa successiva è lui. Il Mare. Il mare luccicante che abbraccia, ricambiato, questa città meravigliosa. E’ proprio meravigliosa, siamo appena al secondo giorno ed è evidente a tutti e tre. Ce lo diciamo anche, ogni tanto. Scendiamo attraversando il rione di Chiaia. A un certo punto Fabri dice: “246”. Cosa? “Duecentoquarantasei motorini, li sto contando”. Poi ci fermiamo ad ascoltare due signori sulla sessantina che suonano una chitarra e un mandolino. La prima fa l’accompagnamento, il secondo la melodia, come osserva Franci con il suo esperto orecchio di chitarrista. Diamo un po’ di moneta ai due musicisti, che non sembrano farci molto caso, anche perché hanno gli occhi chiusi e sono completamente assorbiti dalla musica.

Arriviamo sul lungomare Caracciolo. C’è poca gente – siamo in agosto – qualcuno che corre, qualcuno porta il cane a passeggio. Tre ragazzini sfrecciano avanti e indietro con un monopattino elettrico, gridandosi cose che non capiamo. Uno è magro magro e biondo, con i capelli lunghi sul davanti. L’altro è grassoccio, con una pettinatura da calciatore e il ciuffo ossigenato. Il terzo è più piccolo, potrebbe essere il fratello minore di uno degli altri due. “Sono scugnizzi?”, chiede Fabri. Bè, non so non è che sia proprio una cosa precisa, è un modo di dire. Mi sembrano dei bravi ragazzi, in ogni caso. “Sì, secondo me sono scugnizzi”, conclude Fabri. Nel frattempo è saltato fuori un pallone e i tre si sono messi a giocare a cavallo del marciapiede.

La nostra meta, ora è la Mappatella. E’ una spiaggetta cittadina in direzione Mergellina, ma prima. Ci vanno i napoletani così, in pausa pranzo, o per passare qualche ora sul mare senza andare in vacanza. Si portano una sedia, una sdraio, qualcuno ha l’ombrellone, grandi borse, come quella da cui una signora estrae una teglia di parmigiana. Ci togliamo calze e scarpe ed entriamo in acqua anche noi fino alle ginocchia: si sta bene, ci rinfreschiamo un po’. Volano palloni e richiami di mamme a bambini che sguazzano.

 

[CONTINUA –  nella prossima puntata: Il Santo Maradona, la città sotterranea, quella bruciata dalla lava e la pizza del nostro amico Patrizio]   

  • Alessandro Principe

    Mi chiamo Alessandro. E, fin qui, nulla di strano. Già “Principe”, mi ha attirato centinaia di battutine, anche di perfetti sconosciuti. Faccio il giornalista, il chitarrista, il cuoco, lo scrittore, l’alpinista, il maratoneta, il biografo di Paul McCartney, il manager di Vasco Rossi e, mi pare, qualcos’altro. Cioè, in realtà faccio solo il giornalista, per davvero. Il resto più che altro è un’aspirazione. Si, bè, due libri li ho pubblicati sul serio, qualche corsetta la faccio. Ma Paul non mi risponde al telefono, lo devo ammettere. Ah, ci sarebbe anche un’altra cosa, quella sì. Ci sono due bambini che ogni giorno mi fanno dannare e divertire. Ecco, faccio il loro papà.

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Mia cara Olympe

Quanta paura dobbiamo avere di Giorgia Meloni?

Non so voi, ma io non ho ancora capito quanta paura bisogna avere di Meloni e soci, mentre, implacabili, i sondaggi continuano a dirci di un distacco che non appare facilmente colmabile.

Mi spiego meglio: del significato di un eventuale premierato Meloni – argomento che suscita giustamente un grande dibattito tra donne e femministe, essendo una prima volta nel nostro paese – ho già scritto qui. In breve, se non nego il segno di maggiore equità che questa eventualità porta con sé in un paese in cui non fa e non ha mai fatto scandalo la sottorappresentazione femminile in politica, giudico la parte di agenda che più riguarda le donne non soltanto deficitaria, ma culturalmente e praticamente pericolosa, a riprova che non è mai bastato e tantomeno basta adesso essere ‘una donna’ per significare una differenza, in termini di sguardo, di politiche, di riduzioni dei tanti gap che contraddistinguono la situazione italiana.

Poi c’è il ‘resto’. Ci sono le politiche economiche e quella sciagurata flat tax che, per esempio, significherà con ogni probabilità tagli alla sanità pubblica con conseguente campo largo per quella privata; la ripresa del progetto delle autonomie differenziate che penalizzerà ulteriormente il sud; c’è il tema della scuola declinato su una meritocrazia che non ne risolverà gli indubbi problemi. E si potrebbe andare avanti, mettendo ai primi posti la questione delle migrazioni e delle politiche relative, i ventilati blocchi navali: un’idea di Italia escludente, di un ‘prima gli italiani’ che non guarda correttamente né all’ineludibilità e alle caratteristiche del fenomeno migratorio né alla crisi demografica. E c’è il tema dei diritti civili e del modello di società che il centrodestra propaganda, un’idea retriva, difensiva che si appella ad una ‘tradizione’ che sa di stantio. (Ci si potrebbe chiedere allora come mai questo livello di consenso: una risposta sta nella paura di ceti svantaggiati o già impoveriti, un’altra negli interessi da tutelare, un’altra ancora nella ‘novità’ della proposta che però lascia intravedere una radice politica esistente e resistente in Italia). Per contro ci sono sfide enormi da affrontare, alcune delle quali, come l’utilizzo corretto degli ingenti fondi del Pnrr, sono veramente l’ultima spiaggia per disegnare un paese più equo, moderno e green.

Il ‘resto’ dunque appare pesante e motiva un enorme timore, non ultimo per quanto riguarda chi e con quali competenze dovrà gestire i fronti di cui sopra, guerra e covid inclusi: in tanti però dicono, ed è un argomento non peregrino, che un conto è la propaganda elettorale, altro è governare e che sarà la situazione internazionale e la spada  di Damocle della reazione dei mercati a consigliare cautela e ragionevolezza. Qualcuno si spinge a dire che c’è da augurarselo, visto che la posta in gioco è altissima e che, se non dovessimo rispettare il programma, rischiamo di perdere le prossime tranches di finanziamenti europei.

C’è però un ultimo punto che esula sia dalla questione del programma e delle competenze, sia da ogni possibile cautela il centrodestra possa mettere in campo per garantirsi una navigazione non troppa burrascosa: un premierato Meloni segnerebbe l’archiviazione della matrice antifascista sulla quale è nata la repubblica e si fonda la nostra costituzione. Non esattamente un dettaglio e neanche un punto di mero principio per chi interpreta l’antifascismo come una categoria di sintesi che guarda e legge la storia per tenere la barra dritta sul futuro. E qui sì che mi sembra che di paura c’è da avercene:  come ben sappiamo, una radice di destra reazionaria, parafascista nell’Italia del 2022 continua a vivere e non potrà che prosperare.

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

Il tarlo di Martini

Parto da un ricordo personale: conta eticamente per me, aiuta a capire perché far memoria di Martini. Pochi giorni prima che lasciasse Milano gli portai fresco di stampa Il Cardinale (Mondadori): i 22 anni di vita di lui, della Chiesa, della città e dei riflessi su Italia e Europa. Sapeva che ci stavo lavorando ma avevamo fatto un patto: non gli avrei mostrato nulla prima; mi assumevo io la responsabilità di ciò che scrivevo. Sfogliò il libro con la cura del cattedratico (Martini è rimasto professore) davanti a una tesi di dottorato. Con mosse rapide andò a indici (analitico e nomi), pagine evidenziate da titoli, rimandi. Commenti? La mobilità dei muscoli facciali e cenni del capo (col non verbale diceva più che in parole). Mi chiese cosa m’aspettassi dal libro. «Che sia apprezzato, abbia successo», mi uscì. Risposta: «Sì, ma di queste cose non si parlerà prima di 10 anni almeno». Fui sorpreso; neanche tanto. Era Martini: nelle relazioni d’una timidezza proporzionale a vicinanza e profondità; un passo avanti a tutti nella visione laica degli eventi convinto che Dio ha creato l’uomo non una volta per tutte: l’ha lasciato libero d’esser sempre co-creatore o rifiutarlo; lo studioso di Critica testuale che gode della scoperta d’un antico manoscritto che illumina un passo incerto ma sa che il prossimo reperto farà cambiare idea e la ricerca crescerà. Con me quel giorno era stato ottimista. I capisaldi dell’episcopato (coscienza individuale; vangelo delle Beatitudini; cristiani minoranza: piccolo gregge, seme, lievito; rispetto per la dignità della vita: caso Welby; politica come servizio; Chiesa senza burocrazie e carrierismi; ecumenismo; Europa delle persone, non dei mercati) han subìto una progressiva eclissi. A 10 anni dalla morte molti lo celebrano, altri lo contestano ancora. Perché? A chi gli fece gli auguri per gli 80 anni disse: «Imparate a pensare, a inquietarvi»; non esortò a devozioni. Martini ha messo un tarlo nell’intimo di chi crede e di altri: essere inquieti, non rifugiarsi nel s’è sempre fatto così, a me che me ne viene, ci penserà un altro. I tarli non si vedono ma sfarinano ingombranti strutture. Quando esse crollano liberano spazi: il sole risorge. Là dov’è Martini se la gode sornione.

  • Marco Garzonio

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    Highlights di sabato 18/01/2025

    Nell'esordio di Highlights abbiamo parlato dei due casi di razzismo che hanno segnato in negativo la scorsa giornata del campionato di calcio di serie B maschile. Con Luca Gattuso abbiamo riassunto quel che è successo ai calciatori Ebeneezer Akinsanmiro della Sampdoria e Mehdi Dorval del Bari, vittime di insulti e versi razzisti sui campi di Brescia e Reggio Emilia. Con l'avvocato Luca Viola, esperto di diritto sportivo, siamo entrati nel merito degli interventi previsti dal regolamento, quasi mai veramente applicati, e delle novità della legge sportiva per contrastare le discriminazioni.

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