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Mia cara Olympe

Quanto vale il mio voto

Meno tre. Poi sarà domenica 25 settembre, giorno di elezioni da chi scrive non volute, anzi piombate addosso a mettere angustia, preoccupazione, ansia. È con questi sentimenti che andrò a votare. Come sempre, nel senso che sempre ho votato, più di altre volte nel senso del carico di preoccupazione sul futuro che accompagnerà la mia scelta. Che, prima ancora di essere una scelta politica, è la scelta di non sottrarmi ad un voto, sia pure subìto. Non è banale, oggi, ricordarlo: perché rischiamo di toccare un’altra vetta di astensionismo, perché sembra essere quella di chi non vota (più, questa volta, da sempre, a seconda dell’offerta politica, gli atteggiamenti sono tanti) una delle opinioni più forti in campo, perché ad astenersi sono e probabilmente saranno maggiormente le donne, perché il territorio sul quale misurare la crisi della rappresentanza, la distanza, la disillusione se non il rancore nei confronti della politica è proprio quello della partecipazione di cui il voto è esplicita espressione.

Eppure, questa è una sensazione, mi sembra che la campagna elettorale non abbia risposto più di tanto alla marea di indecisi/intermittenti/delusi e abbia continuato a rivolgersi all’elettorato già orientato e a quella parte che vota perché pensa quasi inconcepibile non farlo, al netto di giudizi assai critici sullo stato dell’arte. Nel mio caso, l’espressione del voto fa profondamente parte del mio sentirmi cittadina, sia pure figlia di quella cittadinanza imperfetta delle donne sulla quale continuiamo in tante a ragionare, scrivere, dibattere. Il forte timore di oggi – ne ho avuto riprova anche in un recente e interessante dibattito sull’astensionismo femminile promosso dalla Scuola di Alta formazione donne di governo – è che questo sentimento, largamente diffuso nella mia generazione, non lo sia altrettanto tra le donne più giovani e proprio tra quelle che si riconoscono in un’appartenenza femminista. Non votare significa, per loro, esprimere un bisogno di risposte radicali (alla crisi climatica, alle diseguaglianze, ai gap di genere) che non viene soddisfatto e mettere il proprio desiderio di politica altrove, in un territorio non più di tanto interessato alla dialettica con la democrazia rappresentativa, nelle forme di certo non smaglianti che prende qui e ora. Parliamo di donne giovani e il futuro è loro e di donne che stanno consapevolmente e attivamente nel mondo: che ‘manchino’ loro o tante di loro e per scelta rivendicata, in un momento in cui sul fronte dell’agenda delle donne si rischia moltissimo  – e parlo di legge 194 e non solo –  mi sembra un paradosso  straordinariamente eloquente.

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Breaking Dad

Ricomincio da tre (seconda parte)

RIASSUNTO DELLA PRIMA PARTE: siamo a Napoli. La città ci ha rapito con i suoi colori, i suoni, i sapori. Ce la giriamo in lungo e in largo, con Fabri e Franci che si guardano attorno, scattano fotografie e contano gli innumerevoli motorini che sfrecciano tra i vicoli.

 

GIORNO 3

“Siete andati a vedere Maradona?”, ci chiede la signora della bancarella delle magliette. Dice proprio così: non “il murales” o, al limite, “il disegno”. Nossignore e sapete perché? Perché lì, in fondo a quella strada, girato l’angolo di un vicolo a gradoni, poi subito a destra e avanti ancora un po’, non c’è una raffigurazione: c’è proprio Lui. Come se fosse un Santo, in immagine terrena che per miracolo si fa Presenza. Mica un muro pittato.

La visita a Maradona è stata fin da subito nei nostri piani e oggi è il giorno. Ci arriviamo, con un po’ di emozione, dal nostro appartamento nei Quartieri Spagnoli. A mano a mano che ci avviciniamo notiamo persone che camminano nella nostra direzione e altre che tornano indietro. Un via vai che assomiglia a un pellegrinaggio. E alla fine, eccolo. Fabrizio sgrana gli occhi, Franceso ride. Non è tanto il disegno, enorme, sulla facciata di un condominio, a lasciarci stupefatti. E’ tutto quello che c’è attorno: il cortile circondato da un muricciolo è, evidentemente, una specie di tempio. Con relativi mercanti, naturalmente.

Ci sono bandierine di ogni paese del mondo appese a mezz’aria, fotografie, poster e quadri a tema appesi ai muri, altri murales più piccoli, ci sono statuine da presepe e cartonati di Maradona a grandezza naturale. Ci sono bigliettini con disegni di bambini incollati ai lampioni, foto ricordo che assomigliano tanto a degli ex voto. Non si capisce cosa sia in vendita e cosa no, cosa sia commercio e cosa devozione, cosa attrazione turistica e cosa autentico sentimento popolare. Ma forse è tutto insieme, è tutto mischiato. Certamente, a noi tre resta negli occhi e Fabri lo racconta, la sera, ai suoi amici al telefono: “Oh, siamo andati da Maradona…”

La sera lo raccontiamo a Patrizio. E’ lui, un ragazzino di 15 anni, a venire al nostro tavolo, nella pizzeria su piazza della Carità. Non è la prima pizza che ci mangiamo qui a Napoli. Ma ogni volta è una soddisfazione. Cerchiamo anche di capire cosa ci sia di diverso dalle pizze che mangiamo a Milano: ne parliamo tra noi, poi lo chiediamo a Patrizio che la fa facile: “Lo sai che c’è? C’è che qua stiamo a Napoli”. Patrizio non va più a scuola. Lavora: di giorno in un hamburgheria nel rione Sanità. “Ci siamo passati!”, dice Franci che se la ricorda, nella piazza proprio sotto al murale che raffigura sei volti di bambini del quartiere. La sera, invece, lavora qua, in pizzeria. Fabri chiede ancora: ma come, non vai a scuola? Risposta: no. Ok, si passa oltre, al Napoli e al suo nuovo fenomeno che non si sa bene come si pronuncia. Più tardi, Patrizio – finito di prendere le ordinazioni e di portare le pizze ai tavoli  – viene a sedersi un po’ con noi e chiacchieriamo del suo lavoro. Gli raccontiamo che siamo andati a vedere la “Napoli sotterranea”, ma lui ci dice che non l’ha mai vista, anzi, non sapeva nemmeno che ci fosse. “Eh, infatti – risponde Fabri – è sotterranea…”.

 

GIORNO 4

E venne il giorno di Pompei. Atteso e anche un po’ temuto. Perché a Pompei bisogna arrivarci. La nostra visita guidata comincia alle 10, dunque tocca organizzarci per tempo. La sveglia è puntuale e la preparazione spedita. Cominciamo a diventare proprio bravi, penso con soddisfazione, i miei ragazzi e io. La Metro, poi la Circumvesuviana. Tutto puntuale, arriviamo con un certo anticipo. Durante il viaggio rievochiamo l’eruzione del Vesuvio e ci facciamo un po’ di film su come deve essere stato, su quello che avremmo fatto per scappare e Fabri un po’ si preoccupa che – vuoi mai la sfiga – il vulcano si riattivi proprio oggi.

Troviamo il nostro gruppetto, che si è radunato attorno alla guida, una signora napoletana che scopriremo poi essere eccezionalmente brava, coinvolgente, appassionata. E la visita comincia. Siamo un po’emozionati e il caldo si fa sentire. Abbiamo negli zaini due bottiglie di ghiaccio. Sì, di acqua lasciata in freezer in modo da farla ghiacciare completamente: così si scioglierà pian piano e noi avremo acqua fredda per tutto il giorno. Fabri è particolarmente fiero della trovata.

Pompei non si può descrivere. O meglio, non si può descrivere tanto facilmente quello che si prova a camminare in una città di duemila anni fa, praticamente integra. Siamo a bocca aperta, camminiamo con gli occhi sgranati. E, terminata la visita guidata, continuiamo a passeggiare ancora per un paio d’ore abbondanti tra le vie lastricate, le botteghe, le piazze antiche.

Il resto della giornata, tornati a Napoli, se ne va tra una piccola passeggiata per i “nostri “ Quartieri Spagnoli e una cosa che ci diverte molto. La lavatrice. Sì, perché realizzo che ne siamo dotati e decidiamo di fare l’esperienza definitiva del cliché napoletano: stendere il bucato nei fili appesi al balcone. I nostri calzini, le nostre mutande, le magliette ora sventolano nel vicolo: ci sentiamo veramente a casa e facciamo gli stupidi parlando tra noi un napoletano maccheronico tutto “Uè, ‘uagliò, maronn’”.

La sera torniamo a mangiare la pizza da Patrizio, che ci dice che manco a Pompei è mai andato e allora gliela raccontiamo.

 

GIORNO 5

E’ il nostro ultimo giorno a Napoli. Ci svegliamo un po’ stanchi dopo la giornata a Pompei. Abbiamo un ultimo appuntamento in programma: la visita alla Cappella San Severo dove si trova il Cristo Velato. Non è che sia proprio accattivante per i ragazzi, e soprattutto per Fabri, me ne rendo conto. Ma ci tenevo molto. E le aspettative non sono deluse. La meraviglia di quello scrigno barocco e di quella incredibile scultura! Alla fine anche i ragazzi ne sono colpiti.

All’uscita mi si avvicina una signora. Mi mette in mano un pugnetto di sale grosso. E mi fa: gettalo, gettalo dietro le spalle! Io, piuttosto in imbarazzo, eseguo, mentre lei pronuncia una formula scaccia-malocchio che io devo ripetere. I ragazzi stanno tre passi indietro, non capisco se siano divertiti o preoccupati. Io lancio loro un’occhiata rassicurante. Tipo: tranquilli, so perfettamente cosa succede ora. In realtà non lo so affatto! La signora mi dice bravo. Poi mi mette in mano un biglietto con dei numeri assicurandomi che sono vincenti al Lotto. Poi il biglietto va strappato e gettato via anche quello. Infine, mi rifila un pendaglio con dei cornetti rossi di plastica e mi dice: “Signore, me li dà 2 euro?” Eccola là, penso io. Ma poi aggiunge: “Signore, io ho 72 anni, non ho mai fatto male a nessuno, questa qua è la mia vita”. Io quasi mi commuovo e le do cinque euro. Mi resta il dubbio di essermi fatto fregare. Anzi, è proprio così, mi dicono i ragazzi, per una volta assolutamente concordi: papà, ti ha fregato.

La giornata se ne va tra un babà, una pizza fritta (ma è meglio quella normale, concordiamo tutti e tre) e una passeggiata tra Spaccanapoli e San Gregorio Armeno.

Ma poi, alla fine, l’ultima sorpresa. Castel Sant’Elmo, che raggiungiamo con la funicolare canticchiando, ovviamente, “funiculì, funiculà”. Lo spettacolo di Napoli da lassù è commovente. Se devo pensare a un esempio di Bellezza, bè questo rende perfettamente il concetto. Anche i ragazzi sono incantati e guardate che non è affatto scontato che un quindicenne e un undicenne restino ammaliati da un panorama. Ma questo non è un semplice panorama. Questo è uno squarcio di cielo, di mare, di vita che si indovina brulicare tra le vie che si intrecciano là sotto. Il ritorno lo facciamo a piedi, scendendo tra le case che si arrampicano sulla collina.

 

EPILOGO

“Allora, ragazzi, vi siete divertiti, vi è piaciuta Napoli?” Il nostro treno per Milano è in ritardo, arriveremo all’ora di cena. Siamo un po’ stanchi, adesso, e non vediamo l’ora di arrivare. Siamo anche molto orgogliosi della nostra avventura lo sono davvero anche i ragazzi. “Papà….”, “Dimmi, Fabri”. “Però domani si cazzeggia, vero?”

  • Alessandro Principe

    Mi chiamo Alessandro. E, fin qui, nulla di strano. Già “Principe”, mi ha attirato centinaia di battutine, anche di perfetti sconosciuti. Faccio il giornalista, il chitarrista, il cuoco, lo scrittore, l’alpinista, il maratoneta, il biografo di Paul McCartney, il manager di Vasco Rossi e, mi pare, qualcos’altro. Cioè, in realtà faccio solo il giornalista, per davvero. Il resto più che altro è un’aspirazione. Si, bè, due libri li ho pubblicati sul serio, qualche corsetta la faccio. Ma Paul non mi risponde al telefono, lo devo ammettere. Ah, ci sarebbe anche un’altra cosa, quella sì. Ci sono due bambini che ogni giorno mi fanno dannare e divertire. Ecco, faccio il loro papà.

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L'Ambrosiano

Morte di Elisabetta, Europa in cerca di simboli (aiutata dai migranti)

Ho contestato la Brexit, l’ho ritenuta errore politico e culturale, frutto di una visione egoriferita ed egoista, un vulnus a ciò che l’Europa avrebbe potuto essere sconfitti nazifascismo e comunismo. Alla luce di come la Gran Bretagna ha vissuto il lutto per Elisabetta capisco la Brexit. Mi è chiaro che il separatismo avrebbe potuto esser contenuto se la lite Londra Bruxelles non fosse stata ridotta da tutti alla contesa d’un idolo: il mercato. I funerali della regina han mostrato al mondo che oltre Manica c’è una cultura simbolica. I simboli tengono insieme gli opposti. Son potenti in quanto consentono il governo dei conflitti tra poli avversi. Una delle fragilità dell’Europa è non disporre di simboli. Ognuno dei 27 ne ha uno per sé ma non ce n’è uno di cui si possa dire: in nome di esso mi sento europeo. Unico candidato per ora è il grattacielo della Banca Centrale a Francoforte. Ma una cassaforte e una tipografia di carta moneta han potere attrattivo quando c’è chi li nobilita con «We have to do whatever it takes»; bastano alternanza ai vertici, guerra, crisi energetica e il presunto simbolo degrada a segno: non tiene uniti gli opposti (bisogni e sviluppo sostenibile) e si riduce a gestione monetaria anti inflazione: chi ha i mezzi si mette al riparo (guadagna addirittura di più) e gli altri, i deboli, si arrangino. L’aggressione di Putin all’Ucraina avrebbe potuto rappresentare forte spunto per riattizzare le braci dei Padri fondatori (Altiero Spinelli, idealmente; De Gasperi, Schumann, Adenauer ai primi governi): ma soltanto le armi (e non del tutto: volubilità di Conte e “pupazzi prezzolati” docent) hanno coeso gli Stati europei. Bombe e cannoni però sono ordigni, non simboli; riarmo se non impiegati come intervento straordinario sotto la bandiera non lassa o retorica di Resistenza e Liberazione in nome di pace, giustizia, fratellanza tra popoli, diritti civili, religiosi, di minoranze, fragili, discriminati. Forse dovremmo chiedere ai migranti che rischiano la vita in mare o nei Balcani cos’è l’Europa. Magari nei sogni e nelle speranze loro riusciamo a riscattarci noi, a ritrovare simboli per questa Europa incerottata, in tv anch’essa orfana di Elisabetta, col fiato sospeso per il voto del 25.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

“People=Shit”? i consigli del Buddha e degli Slipknot per sopravvivere alla rabbia e agli insulti di un mondo che grida…

A molti di noi spesso capita di essere ingiustamente attaccati, insultati, con chili e chili di cattiverie e odio rovesciati sulle nostre spalle dal quinto piano. E quasi sempre non lo meritiamo. Nessuno lo merita. Può capitare sul lavoro, nel traffico, mentre ci stiamo rilassando. A volte la violenza verbale, o peggio fisica, arriva dalle cosiddette persone che ci “amano”, all’interno del nucleo famigliare. Magari l’insulto, il ceffone, quella dolorosa violenza figlia di parole taglienti come lame o brutali come bombe, arriva da nostra madre, nostro figlio, nostro marito o nostra moglie. Alla fine il contesto conta poco, quello che conta è il dolore che certe parole causano in chi le riceve.
Sono ferite invisibili, che fuori non vedi ma dentro bruciano e fanno tanto male, ma così tanto che molte delle cose che bruciano poi non crescono più.
Momenti in cui ci viene da dare ragione agli Slipknot quando cantano “People=Shit”. Anzi ora la metto a tutto volume che può essere catartica.
Ma non é vero. Le persone non sono merda. Semplicemente a volte vengono attraversate dalla merda, che fa una bella differenza. Quindi é molto meglio “Don’t look back in anger” come titola sublime canzone dei fratelli Gallagher quando si volevano ancora bene.

Dopo anni di pratica buddhista, osservando tanto i miei comportamenti quanto quelli degli altri, ho capito che chi ti insulta, probabilmente sta soffrendo più di te, e con quelle urla sta cercando di sfogare frustrazioni e paure che lo stanno mangiando.
Quasi sempre chi insulta, offende, alza la voce e ferisce con le parole, é una persona che soffre. Se stai bene difficilmente senti la necessità di aggredire e mortificare un altro essere umano.
Se stai bene tendenzialmente condividi, e non offendi il tuo prossimo.
Se stai male fai l’esatto contrario.
Quindi quelli che ti insultano nove su dieci stanno soffrendo più di te. Certo questo non li giustifica ma…

Una volta il Buddha venne avvicinato da un uomo che cominciò a insultarlo e poi gli sputó sul viso. Davanti ai suoi discepoli infuriati, il Buddha rimase silenzioso e tranquillo.
Appena l’uomo se ne andò, uno dei discepoli chiese al Sublime perché non avesse reagito nei confronti di quell’immotivata aggressione.
“Se io ti regalo un cavallo e tu non lo accetti, di chi è il cavallo?” rispose il Buddha sorridendo.
“Se io non lo accettassi, il cavallo continuerebbe ad essere vostro, maestro” rispose il discepolo.
Sebbene alcune persone decidano di perdere il loro tempo insultando, noi possiamo scegliere di accettare tali parole o meno, proprio come faremmo con un regalo qualsiasi.
“Non accettare le parole di odio, rifiutale. Solo in questo modo colui che ti odia rimarrà con l’insulto tra le mani. Non puoi dare la colpa a chi ti offende e ti fa male, perché è tua la decisione di accettare le sue parole invece di lasciarle sulle stesse labbra da cui sono uscite” concluse il Buddha.)

È innegabile che reagire così a chi ti sta ingiustamente insultando non é affatto semplice, soprattutto quando certe parole uno non se le merita affatto. Eppure é l’unico approccio funzionale, che va dritto al cuore del problema. Alla fine non reagire e lasciare che quelle parole marciscano nella bocca di chi le ha pronunciate, lontano da noi, é l’unica azione sensata che ci resta…

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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L'Ambrosiano

«Come arrivarci» con la “Siccità” che asseta la democrazia

«Come le cose dovrebbero essere quasi tutti lo sanno, ma chi mostra il cammino per arrivarci?». Scomodo Jung (corsi e ricorsi: Pavese pubblicò il testo da Einaudi nel 1942, in piena guerra) un po’ per compensare la latitanza di autorevolezza in campagna elettorale (emblematico Siccità di Virzì: il trailer mostra un Tevere ridotto a deserto; ma il film visto a Venezia va nelle sale il 29: l’arte s’inchina al politicamente corretto?); un po’ perché tante ne abbiam sentite di necessità, però di «come arrivarci» a migliorare davvero la vita di famiglie e imprese poco o nulla. Vale per: risorse necessarie alle mirabolanti proposte (l’art. 81 della Costituzione è sconosciuto ai partiti, in specie dove dice «Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte»); l’ordinamento delle istituzioni repubblicane: si parla come al bar di presidenzialismo (e semi), bicamerali, referendum, autonomie differenziate;  destinatari specifici (penso ai giovani); settori strategici come la sanità: chi ha scritto alcuni programmi di partito non conosce i dati, a cominciare dagli effetti “quota 100” di cui Salvini va fiero ma nessun avversario gli imputa responsabilità per le lacune di specialisti nella gestione del  Covid e i vuoti di organici nel SSN: in Lombardia governata male dal centrodestra a Chiavenna ad esempio prima s’è ridimensionato l’ospedale (non vi si può più partorire, poi parlano di interventi per le famiglie!), adesso si fan venire radiologi in trasferta dalla Sicilia perché di lumbard ai raggi X non ce ne sono! L’elenco di materie è lungo. Il paradosso sarà tra il 25 e il 26. Al vincitore toccherà finalmente di dire «come arrivarci» e a chi avrà perso di decidere se opporsi civilmente sperando nell’alternanza o avviare “trasformismo”, “responsabili”, “patti istituzionali”, tecnici. Nello scritto da cui son partito Jung dice: «La più bella verità non giova a nulla se non è divenuta esperienza interiore e personalissima del singolo». In altro testo aggiunge che si lavora con l’individuo per giungere ad «una comunità consapevole»: l’opposto del «conglomerato anarchico di esistenze separate», cioè d’egoismi e sovranismi, cioè della Siccità della democrazia di Virzì.

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