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Mia cara Olympe

Segre, Egonu vertiginose cittadine

Quando, giovedì 13 ottobre, la senatrice a vita Liliana Segre  ha detto di provare una vertigine vedendosi presiedere la prima seduta del Senato e ricordando se stessa bambina espulsa da scuola a causa delle legge razziali, ho avuto un sussulto. Parola ormai inconsueta nella povertà del vocabolario corrente, quella da lei scelta nel suo altissimo discorso: stordimento che si prova di fronte a qualcosa di impressionante, annota il dizionario sull’uso figurato del termine vertigine.

Qualcun altra ha provato lo stesso stordimento e usato lo stesso termine, seppur come aggettivo. Era il 2 giugno del 1946, era il giorno, per le donne italiane, del primo, sudatissimo voto. Lei, Maria Bellonci scrittrice poi fondatrice del Premio Strega, scrive, con un’immagine bellissima e densa, di un “vertiginoso ritrovarsi  davanti a me, cittadino” nel momento in cui entra per la prima volta nella cabina elettorale.

La settimana che ricorderemo non soltanto per ciò che Liliana Segre ha detto preziosamente per tanti e si spererebbe per tutti ma anche, e per contrasto, per l’elezione ad alte cariche dello Stato di due portatori di biografie politiche pesanti e preoccupanti si è conclusa con la amara presa di posizione di Paola Egonu, la più forte delle nostre pallavoliste: non giocherò più in nazionale, mi hanno chiesto persino se sono italiana. Il razzismo torna, meglio non finisce mai e alla  denuncia di Egonu se ne sono aggiunte altre di simili.

Se ben vedo, nell’enorme diversità delle due storie, alla radice di ciò che è stato negato alla bambina Liliana chiudendole il portone della sua scuola, ciò che si nega a Paola Egonu nel dirle che non è italiana per il colore della sua pelle è proprio la vertigine provata da Bellonci, ovvero il loro essere compiutamente cittadine, nel senso pieno e importante che ha questo termine, per le donne vieppiù. Nel caso di Liliana Segre poi, l’espulsione dalla scuola sarà ‘solo’ il primo gradino di quella terribile derubricazione che la porterà ad Auschwitz: Untermensch, subumano, era il termine usato dai nazisti per gli ebrei e gli altri deportati.

Non sono giorni facili questi, non è facile il tempo che si prepara, ma Segre ed Egonu li hanno, con le loro storie e le loro parole, illuminati. Entrambe, da vertiginose cittadine di un paese che dovrebbe meritarsele.

 

 

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Appunti sulla mondialità

Tempesta sull’Europa

La tempesta perfetta che, dalla pandemia in poi, si è abbattuta sul mondo costerà all’economia globale circa 2.800 miliardi di dollari. Secondo le proiezioni OCSE rilasciate a fine settembre, a causa del conflitto in Ucraina, dell’inflazione, dell’impennata dei prezzi delle materie prime e della stretta delle banche centrali si perderà il 2% del PIL mondiale. A tutti questi problemi si va ad aggiungere la strozzatura della catena mondiale di rifornimenti di manufatti e semilavorati causata dall’insistenza della Cina nelle sue politiche “zero Covid”, come se ancora fossimo nella prima fase della pandemia. D’altra parte, la corsa galoppante degli Stati verso l’indebitamento ha raggiunto quota 300 trilioni di dollari, il 351% del PIL mondiale. Se una volta erano i Paesi emergenti quelli più esposti, ora l’epicentro della crisi debitoria è l’Europa, che sta pagando il caro energia come nessun’altra area al mondo. Sull’inflazione, tolti i “campioni” Argentina e Turchia, vicini al 100% annuo, troviamo in testa l’Eurozona con la media dell’8,8%.

Questi dati raccontano più cose insieme. Innanzitutto evidenziano le fratture che negli ultimi anni si sono create all’interno delle catene mondiali di valore: il mondo globalizzato, con la sua divisione internazionale del lavoro, è entrato in crisi; pandemia, conflitti e cambiamento climatico hanno provocato strozzature, carestie e scarsità di materie prime, aumenti spropositati dei combustibili fossili, dell’energia e dei derivati, come i fertilizzanti. La globalizzazione, si è detto più volte in questi mesi, non sarà mai più uguale a prima; ma poco si sa di come si ristabilizzeranno i rapporti tra Paesi che ormai sono parte integrante di un’economia-mondo, e che da soli non potranno certo conservare il proprio status. È questo il caso dell’Europa, potenza dalle mille dipendenze: dipendenza energetica, dipendenza alimentare, dipendenza industriale, dipendenza dal lavoro immigrato. Di fatto l’Europa, grande potenza culturale ed economica, deve buona parte del suo benessere a rapporti di dipendenza nei confronti del resto del mondo. Fu infatti il colonialismo a consentire il protagonismo militare e finanziario di un continente piuttosto povero di risorse. In seguito la globalizzazione, impostata dagli Stati Uniti, ha permesso all’Europa di continuare a governare il proprio mercato combinando la protezione dei propri settori strategici con delocalizzazioni e aperture liberiste laddove la convenienza era più tangibile.

Oggi quello schema è saltato e, per la prima volta da molto tempo, si tocca con mano il peso reale delle varie dipendenze. Di conseguenza emergono tutte le differenze tra l’Europa e le altre potenze mondiali. Sulle materie prime strategiche, ad esempio, l’Europa non ha mai reagito al progressivo passaggio dei minerali africani e sudamericani sotto controllo cinese: l’Africa, che per l’Europa è solo un problema legato all’immigrazione, è stata interpretata dalla Cina come un’occasione, la maggiore opportunità per arrivare a controllare i mercati mondiali. Gli Stati Uniti hanno perseguito ostinatamente politiche finalizzate a raggiungere l’indipendenza energetica; tra mille polemiche e scempi ambientali, ciò ha permesso a Washington, già da qualche anno, di non dovere più sottostare ai ricatti mediorientali. Nel frattempo, l’Unione Europea non è riuscita nemmeno a darsi una politica comune sull’acquisto del gas.

La morale di questa situazione è che oggi solo le potenze di grande calibro, e cioè Stati Uniti e Cina, riescono a gestire una politica globale e a mettersi al riparo dalle pesanti crisi in corso, mentre per i Paesi del Vecchio Continente, che singolarmente nel panorama globale sono dei nani, l’unica soluzione sarebbe quella di accelerare la costruzione di un soggetto politico europeo. Ma questo resta un tema tabù perché la politica locale crede ancora, o almeno finge di credere, che da soli si possa avere un futuro.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Preghiera per Černobyl’ perché «non c’è la cultura del dopo Černobyl’»

Da leggere per chi parla di armi nucleari come dell’ultimo drink, per quelli che non si sono ancora alzati dal divano e scesi in piazza vedendo in tv i missili russi insidiare la centrale di Zaporižžja, per noi tutti che pensiamo ai gradi del calorifero di casa e non a costruire pace, giustizia, libertà. Parla un’insegnante evacuata da Černobyl’ (1986): «Ci è accaduto qualcosa che è oltre Kolyma, Auschwitz e l’Olocausto; la tecnica ci ha portato ai confini di un altro mondo. Ma non abbiamo le cognizioni necessarie. C’è la cultura prima di Černobyl’ ma non c’è quella dopo Černobyl’. Viviamo tra le idee della guerra, del fallimento del socialismo e di un futuro incerto. Mentre invece avremmo proprio bisogno di dare un nuovo significato al nostro futuro, noi che a un tratto ci siamo ritrovati senza le grandi prospettive che ci aspettavamo. Soffriamo la mancanza di nuovi concetti, idee, pensieri. Dove sono i nostri scrittori, filosofi? Perché tacciono? E non parlano del fatto che la nostra intellighenzia, proprio quella che più di tutti ha auspicato e preparato la libertà, ora è stata messa da parte. Indigente e umiliata. Ho scritto questa lettera perché rimanesse la verità di quei giorni e dei nostri sentimenti». Traggo la pagina da Preghiera per Černobyl’ di Svetlana Aleksievič Nobel per la Letteratura 2015 «per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo». In lei ribollono speranze, delusioni, angosce, fantasmi, rivincite, frustrazioni, impotenze: il cupio dissolvi possiede. Nata in Ucraina nel 1948 padre bielorusso e madre ucraina, riparata in Germania per sfuggire a Lukashenko ha testimoniato la parabola dell’homo sovieticus: traumi post 2a Guerra Mondiale; ritiro di Mosca dall’Afghanistan; Černobyl’ (il testo citato, 1997, appena pubblicato da Bompiani); suicidi alla fine dell’URSS. Aleksievič culla la speranza di «tornare al cuore dell’uomo» (altro testo del libro). Ma paventa il rischio distruttività totale. Conosce Russia e Putin. Raccomanda accortezza. Aiutare l’Ucraina e utilizzare ogni possibilità della diplomazia. S’allunga l’Ombra del «non c’è la cultura del dopo Černobyl’». Non ci resta che pregare, Svetlana?

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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La nave di Penelope

Quello che non vuole Pro Vita è che si abbattano le discriminazioni

Non è ancora nato il governo e Pro Vita cerca già di metterci le mani, spaventato da chi potrebbe essere il nuovo ministro dell’Istruzione e dai tentacoli della “lobby gay”. Facciamo un passo indietro in questa surreale vicenda.

In una nota, l’associazione attacca il lavoro della ministra alle Pari opportunità, Elena Bonetti, e il governo Draghi che hanno approvato la “Strategia Nazionale Lgbt+ 2022-25 per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere”, un documento che segue quello dell’Ue approvato nel 2020 che si dà degli obiettivi e ipotizza delle azioni da realizzare nei prossimi anni per abbattere le discriminazioni e favorire l’inclusione.

“Un regalo in extremis alla lobby gay”, ha commentato, invece, Pro Vita nella nota. L’associazione scrive: “Ci aspettiamo che il Governo Meloni vagli con attenzione questo documento e trattenga solo ciò che è effettivamente finalizzato al contrasto di discriminazioni sociali, stralciando qualsiasi riferimento all’ambito scolastico”.

Nel documento (qui consultabile) se si cerca la parola “scuola” si nota che le uniche azioni che vengono messe in campo sono per arginare i fenomeni di bullismo e cyberbullismo e l’obiettivo è “prevenire e contrastare la discriminazione di giovani Lgbt+ nelle scuole di ogni ordine e grado, mediante percorsi di educazione al rispetto delle differenze, percorsi di formazione per i dirigenti scolastici, i docenti, il personale Ata e diffusione di buone prassi”.

Quindi, “stralciando qualsiasi riferimento all’ambito scolastico”, Pro Vita intende eliminare le azioni che contrastano le discriminazioni e il bullismo, di fatto. O si è avventato a priori sul documento senza averlo letto?

Per chiedere una rottura con le politiche finora adottate (o meglio, con quanto le scuole stanno facendo autonomamente, visto l’impenetrabile silenzio del ministero sull’argomento), si appella a Giorgia Meloni, in quanto probabile prossima presidente del Consiglio, per assicurarsi che “il prossimo ministro dell’Istruzione sia una persona non solo dotata di visione e competenze d’area, ma politicamente schierata contro abusi come la ‘carriera alias’ e i ‘bagni gender’ che proliferano nelle scuole”.

Per cui, qualsiasi strumento sia utilizzato per far vivere più serenamente la scuola a una persona trans e che non comporti un coming out forzato – si pensi a come si può sentire Marco, una persona in transizione che non ha potuto ancora cambiare il nome anagrafico (un processo lungo e complicato), se durante l’appello in classe, davanti a 30 persone, viene chiamato Maria, perché gli viene negato di utilizzare un’identità alias – è considerato “un abuso” da parte di Pro Vita. Quindi meglio continuare a discriminare le persone, a farle bullizzare, a metterle a disagio davanti a tutti. Ma non è finita.

Nella stessa nota Pro Vita chiede che la futura presidente del Consiglio non prenda in considerazione il nome di Anna Maria Bernini (Forza Italia), circolato nei giorni precedenti, per guidare “il Miur” (una sigla, questa utilizzata dall’associazione, che tra l’altro non esiste più, vista la separazione dei ministeri di Istruzione e Università all’epoca di Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi). Il motivo? Mancanza di interesse o competenze specifiche verso il mondo scolastico? No. L’unica motivazione è che la senatrice azzurra, si legge nella nota, è stata “più volte legittimamente orientata verso l’accoglienza delle istanze del mondo Lgbt”.

Per cui ricordate che non importa se a vostro figlio insegnano bene l’inglese o la matematica, l’importante è che il ministro che arriva stia attento a nascondergli l’esistenza del mondo Lgbt.

E se lo viene a sapere lo stesso perché il suo compagno di banco si è preso una cotta per un altro? O gli piace mettersi vestiti considerati femminili? O si fa chiamare “Francesca”, anche se sul registro c’è scritto “Luca”? Allora a quel punto, l’importante è negare la realtà, meglio che a scuola non si sappia, così l’apparenza è salva. Al massimo il suo compagno di banco verrà preso di mira, si porterà dietro qualche trauma psicologico, ma questo è forse un problema? Sicuramente, penserà Pro Vita, questo ragazzino sarà un lobbista di domani, della potente lobby gay.

Ma questo, in realtà, ha delle ripercussioni anche grandi nella vita delle persone. Traumi, disturbi psichiatrici, tentativi di suicidio. Giusto per dare un dato, secondo “Estimating the risk of attempted suicide among sexual minority youths: a systematic review and meta-analysis”, pubblicata su Jama Pediatrics nel 2018 e che considera un campione di quasi 2 milioni e mezzo di ragazzi eterosessuali e oltre 113mila appartenenti a “minoranze sessuali” tra i 12 e i 20 anni, i tentativi di suicidio tra gli adolescenti omosessuali superano di tre volte e mezzo quelli dei loro coetanei eterosessuali. Si arriva a 5,9 volte per i transgender.

Tra le cause, secondo i ricercatori, la visione che il mondo ha di loro, le difficoltà di riconoscimento all’interno della famiglia e dell’ambiente scolastico e dei gruppi di appartenenza.

Forse Pro Vita, se vuole continuare a portare questo nome, dovrebbe meditare su questi dati e ragionare sulle cause prima di proporre ai ministeri di intervenire per bloccare i tentativi delle scuole di essere più inclusive e, come sempre, più avanti della politica.

  • Claudia Zanella

    Sono nata a Milano nel 1987. Ma è più il tempo che ho passato in viaggio, che all’ombra della Madonnina. Sono laureata in Filosofia e ho sempre una citazione di Nietzsche nel taschino. Mi piacciono tante cose ma, se devo scegliere tra le mie passioni quali sono quelle che più parlano di me, direi: la Spagna, il rock e il giornalismo. Dopo averci vissuto, Madrid è la mia città d’elezione; il rock scandisce il mio ritmo di vita e venero le mie chitarre come oggetti magici; infine, fare la giornalista soddisfa il mio impulso alla Jessica Fletcher di voler sempre vedere chiaro e poi raccontare. Ho lavorato per cinque anni per La Repubblica, come cronista e responsabile del settore “Educazione e scuola” a Milano. Cofondatrice del progetto di storytelling su Milano ai tempi del coronavirus: “Orange is the new Milano”. Sono approdata a Radio Popolare nel 2019, occupandomi di un po’ di tutto, ma mantenendo sempre un occhio vigile sul mondo della scuola.

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Appunti sulla mondialità

Oceani versus sushi

Il ruolo dei mari e degli oceani è vitale per il clima terrestre e tutti sappiamo che grazie alla pesca e al mare vivono milioni di persone, da millenni. Ma oggi quando si parla di mari si parla di autostrade della globalizzazione che, secondo l’OCSE, producono 1.500 miliardi di dollari all’anno, sommando tutte le attività economiche che vi si svolgono. Prima tra tutte l’estrazione di fonti energetiche fossili con le tecniche offshore: gas e petrolio che contano per un terzo dell’estrazione mondiale, ma che rappresentano il 70% delle scoperte di giacimenti a livello mondiale degli ultimi anni. In ordine di importanza abbiamo poi il settore ittico, unico produttore di proteine animali che potrebbe aumentare la sua disponibilità in modo relativamente sostenibile attraverso allevamenti di pesce in mare. C’è poi una miriade di attività di impatto economicamente inferiore ma comunque non trascurabile: dalla crocieristica all’estrazione mineraria, dalla posa di cavi alle bio-prospezioni e alla desalinizzazione.

I principali rischi per gli ecosistemi marittimi sono determinati da fattori diversi ma sempre riconducibili al genere umano: si tratta del cambiamento climatico, dello sversamento di plastiche e della pesca industriale intensiva. Negli ultimi due decenni la Cina ha costruito la prima flotta peschereccia di acque profonde al mondo. Sono quasi 3.000 navi che rastrellano l’Oceano Indiano ed entrambi gli oceani al largo del Sud America. Agiscono spesso violando acque territoriali e senza rispettare nessun calendario riproduttivo. L’Ong Oceana ha conteggiato lo scorso anno 300 navi cinesi che pescavano al limite delle 200 miglia nautiche delle Galapagos. La fanno da padrone anche nell’Atlantico meridionale, una delle zone più pescose al mondo. Ora Pechino ha varato una “portaerei” della pesca, la Hai Feng 718. È una nave cargo refrigerata che fornisce rifornimenti a oltre 70 navi più piccole e ne raccoglie il pescato, in modo che non debbano tornare ai porti di partenza. Così si pesca sempre, senza dare tregua alla fauna marittima.

Tutto ciò accade perché il mercato mondiale del pesce è stato rivoluzionato dalla moda globale del sushi: oggi si mangia il 30% di pesce in più rispetto a pochi anni fa. Anche in questo settore, le mode globali e i Paesi che operano senza rispettare nulla vanno a braccetto: ciò che diventa cool nei migliori ristoranti di New York o di Milano è il risultato di uno sfruttamento delle risorse naturali condotto come se non ci fosse un domani.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Banlieau e rivolta le due parole più usate per descrivere cosa successo nelle notti di domenica e lunedì nel quartiere Corvetto, noi ve lo raccontiamo con il reportage di Roberto Maggioni e le voci degli amici di Ramy Elgaml e degli abitanti della zona. Camille Eid giornalista e docente all’Un. Cattolica, collaboratore di Avvenire, ci racconta la tregua dal punto di vista libanese. Maria Grazia Gabrielli della segreteria nazionale Cgil, invece, il tavolo con il ministro Salvini e lo scontro sul diritto di sciopero.

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