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Appunti sulla mondialità

Il calcio è di tutti

Alla base di tutti i discorsi c’è sempre lui, il calcio. Uno sport nato in Inghilterra, come quasi tutti i giochi di squadra moderni, ed esportato in quasi tutto l’Occidente dai dirigenti delle compagnie britanniche durante la globalizzazione di fine Ottocento. Piaciuto velocemente nel resto d’Europa e anche (soprattutto) in Sudamerica, ha poi contagiato l’Africa, l’Asia e infine il Medio Oriente. La grande differenza, nella passione per questo gioco, è quella tra i Paesi dove a calcio giocano praticamente tutti i bambini e quelli dove il calcio è, più o meno, una moda. I grandi scrittori che hanno raccontato il calcio sono nati dove il calcio si beve col latte materno: basti pensare all’uruguayano Eduardo Galeano, all’argentino Osvaldo Soriano, all’italiano Gianni Brera o all’inglese Nick Hornby. Autori che hanno dato una dimensione letteraria e anche fantastica al calcio, ad esempio con la partita tra socialisti e comunisti nella Terra del Fuoco, arbitrata da un figlio di Butch Cassidy, raccontata da Soriano.

Il gioco del pallone non è solo lo sport di base per milioni di ragazzi, e sempre più anche per moltissime ragazze, ma anche un fenomeno sociologico, psicologico e perfino antropologico. È ampiamente risaputo come questo gioco – che qualcuno, parafrasando Marx, definisce “oppio dei popoli” – sia strumentalizzabile da regimi in cerca di visibilità. Lo fecero per primi i militari brasiliani, che “sequestrarono” le vittorie della nazionale e la figura di Pelé, seguiti a ruota dai militari argentini che nel 1978 organizzarono il primo vero Mondiale della vergogna. Senza dimenticare i mondiali di Putin nel 2018, per arrivare all’edizione 2022 in Qatar. Il colpo d’occhio offerto dal palco d’onore dello stadio al-Bayt, durante la cerimonia di apertura, faceva venire i brividi: vi era rappresentata una sorta di “nazionale” del totalitarismo: al-Sisi, Erdoğan, il principe saudita Bin Salman, oltre allo sceicco del Qatar Al Thani. Un mondiale-business che produrrà un giro d’affari di 7,5 miliardi di dollari e che lascerà alla Fifa un miliardo di profitto.

Intanto, per il Mondiale del 2030 si candidano Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Tutti Paesi dove il calcio non è mai stato praticato né seguito, ma che hanno bisogno di una vetrina globale che il gioco del pallone può dare. Una vetrina che, però, è stata costruita nel tempo da milioni di bambini italiani, francesi, brasiliani e argentini che fin da piccoli sognavano di diventare bravi giocatori per poter aiutare la propria famiglia. Perché il calcio è stato un formidabile ascensore sociale, sebbene riservato a pochi, selezionati non sulla base degli studi o del lavoro ma dell’abilità con i piedi.

Per questo i bambini, e non solo loro, malgrado tutto seguiranno il Mondiale 2022. Perché è un’opportunità che si presenta ogni 4 anni che consente di dire “siamo i migliori”. Perché quella coppa rende orgogliosa una nazione, e seguire il calcio alza l’autostima di persone povere che vedono gente come loro che è riuscita ad emergere. Il calcio è tutto questo e anche di più, e nessuno staterello autoritario, per quanti miliardi spenda, potrà mai appropriarsi di una briciola di questa storia. Perché non si tratta di una storia costruita da generali o da principi, ma da milioni e milioni di diseredati che sono corsi dietro un pallone per farsi valere, per farsi sentire.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Breaking Dad

Mondiali: il boicottaggio all’ora di cena

Ci sono due fratelli che hanno quindici e undici anni. Si vogliono molto bene e la sera, quando sono con il loro papà, durante la cena scherzano, ridono, guardano la tv, insomma fanno quelle cose che ti fanno stare bene al solo vederli. Ma poi arriva il Mondiale del Qatar.

Lo so, lo so, che lo dicevate tutti già dal 2010, che ora è un anno che non parlavate d’altro eccetera, eccetera. Tutti bravi. Ma alle conseguenze sulle dinamiche familiari ci avevate pensato? E, per essere ancora più pratici, ci avevate pensato a come cavolo cenare se un fratello boicotta il controverso torneo e l’altro non vede l’ora di ammirare il suo idolo Neymar di cui tiene un pupazzetto sulla mensola della camera? Ecco. Ieri sera ha debuttato il Brasile. Ma facciamo un passo indietro.

“Oh, la settimana prossima cominciano i Mondiali”, dice Fabri.

“Io li boicotto”, risponde Franci.

“Ragazzi, cosa cuciniamo per cena”, svio il discorso, vigliaccamente.

Ma Fabri ha fiutato qualcosa, anche se non gli è affatto chiaro il concetto di boicottaggio. Con l’istinto di un fratello minore, ha intuito che c’è un pericolo, dietro quella strana parola pronunciata dal suo fratellone.

Cioè ma vi rendete conto? E’ uno scandalo. Questi Mondiali fanno schifo. Lo sapete quanti lavoratori sono stati sfruttati come schiavi per costruire quegli stadi assurdi in mezzo al nulla, che poi verranno magari buttati giù perché tanto in Qatar chi cavolo è che gioca a pallone? E per non parlare dei diritti civili: le donne e gli omosessuali, oh ma sapete che i gay in Qatar sono considerati, se gli va bene, dei malati mentali? E poi hanno detto che se due si baciano li arrestano. E l’ambiente? Vogliamo parlare dei costi ambientali di questo inutile Mondiale? Ma sapete che tengono l’aria condizionata negli stadi perché sennò si muore di caldo e se ne fregano allegramente del surriscaldamento globale? E che mondiale assurdo è, d’inverno? E perché tutto questo? Per i soldi, solo per il business dei diritti televisivi, dei grandi sponsor, delle multinazionali e delle federazioni immanicate con gli sceicchi, e poi…

“Franci, vuoi un megafono? Secondo me viene ancora meglio”

“Vaffa…”

Ha ragione, che gli vuoi dire? E poi, solo per la passione civile meriterebbe, lui sì, la Coppa del mondo. Ma, ancora una volta, Fabri va dritto al punto che gli interessa:

“Ma quindi non guardiamo le partite?”

“Io non ci penso nemmeno, non voglio essere complice di questo schifo, che…”

“Ok, ok, abbiamo capito”.

Per fortuna la cena è pronta, al mondiale manca una settimana e una bella puntata di MasterChef, almeno per il momento, mette tutti d’accordo. A meno di non voler boicottare il buon Cannavacciuolo per la pettinatura. O Chef Barbieri per le inguardabili giacche.

E torniamo al giorno del Brasile. Del boicottaggio se ne è parlato ancora, ma fino a ieri sera non era mai diventata una questione concreta, non ce n’era stata l’occasione. Sì, c’era stata Francia-Australia, all’ora di cena. Ma il martedì Fabri ha il suo allenamento di calcio e finisce tardi. E poi i francesi sono antipatici e gli australiani, boh, io sapevo che si lanciano il boomerang mica che giocano a  pallone. Si può non guardare. Ecco, eravamo riusciti a cavarcela così.

Ma il Brasile è il Brasile. Che sia quello di Pelè, di Falcao o di Neymar per un bambino appassionato di calcio è il richiamo della foresta. Irresistibile. Senza contare che, certamente, tutti gli amici-compagni di squadra ne parleranno.

“Se volete guardarla io vado di là, ceno da solo in camera”, esordisce Franci.

“Ma scusa: ma se vai di là chi è che lo sa? Cioè, non è che se mangi con noi e vedi un pezzo di partita qualcuno lo sa, quelli del Qatar mica lo vengono a sapere…”, Fabri la fa facile.

Francesco alza gli occhi al cielo al cospetto di tanto cinismo.

Alla fine, come spesso accade, il papà deve fare il Var. Ed emettere il verdetto. Ok: fino a che non è pronto, teniamo la tv accesa senza volume e, nel via vai, chi vuole dà un’occhiata. Poi mangiamo qui, come sempre, tutti e tre insieme, senza partita. Finito di cenare, Franci andrà in camera a suonare la chitarra e Fabri vedrà un po’ del match. Tutti d’accordo? Qualche rimostranza, ma di dettaglio. Non importa, tanto si fa così uguale.

Ammirato dalla coerenza di Franci e commosso dalla passione di Fabri, non trovo soluzione migliore. Ma sembra funzionare. Poi arriva il 73esimo minuto del secondo tempo. Il Brasile sta vincendo 1 a 0 ma attacca ancora. Dalla sinistra Vinicius la mette in mezzo, un assist pennellato per Richarlison. Che fa una cosa straordinaria: con un tocco si alza il pallone appena sopra la testa, poi si coordina ed esegue una semirovesciata spettacolare che finisce alle spalle del portiere avversario. Fabri salta in piedi e grida: che gooooool!!! Io lancio lo strofinaccio e corro davanti alla tv. Un gol bellissimo, davvero. Per chi se la ricorda, il gesto atletico sembra riprodurre la celebre immagine delle figurine Panini. Dalla camera, di là, tutto tace. Ma Fabri non resiste, vuole assolutamente (e un po’ perfidamente) coinvolgere il fratello.

“Franci, Franci, vieni, un gol pazzesco! Vero papà?”

“Ma vai, ma vieni, ma che gol ha fatto?!” (perdo un po’ il controllo, lo ammetto. Avrei sempre voluto segnare un gol così…)

Franci si affaccia, va verso la cucina. Chiede solo: “Bello?”. Si versa un bicchiere d’acqua e torna nell’altra stanza. Passando davanti alla tv dà una fugace occhiata al replay. “Azzz.. che gol!”. E torna di là. Fabri saltella e manda messaggi nella chat degli amici.

  • Alessandro Principe

    Mi chiamo Alessandro. E, fin qui, nulla di strano. Già “Principe”, mi ha attirato centinaia di battutine, anche di perfetti sconosciuti. Faccio il giornalista, il chitarrista, il cuoco, lo scrittore, l’alpinista, il maratoneta, il biografo di Paul McCartney, il manager di Vasco Rossi e, mi pare, qualcos’altro. Cioè, in realtà faccio solo il giornalista, per davvero. Il resto più che altro è un’aspirazione. Si, bè, due libri li ho pubblicati sul serio, qualche corsetta la faccio. Ma Paul non mi risponde al telefono, lo devo ammettere. Ah, ci sarebbe anche un’altra cosa, quella sì. Ci sono due bambini che ogni giorno mi fanno dannare e divertire. Ecco, faccio il loro papà.

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L'Ambrosiano

Borges, Odissea, Bibbia, Giorgia Hood; non disperare, osare, ripartire

Non disperiamo se del male non si vede il fondo: storia e poesia dan coraggio. Mosca bombarda case, ospedali, centrali, strangola gente col gelo e l’Occidente conosce il rombo delle armi non il lessico di pace e diplomazia: un altro genocidio? Guardiamo all’Iran: donne e giovani a mani nude sfidano la violenza dei pasdaran; perché l’Europa tace? Non è fatto di ricadute e nodi lo scacchiere mondiale? A Sharm el-Sheikh regno del dittatore al-Sisi (ci dà il gas: può far spallucce di diritti e responsabilità verso Regeni) i governi non han fatto passi avanti sull’ambiente ma terra e vita son più forti di Stati ignavi, ancora oggetto d’un grande amore: africani, siriani, afghani, iracheni, uomini donne neonati a migliaia nel Mediterraneo osano la speranza, sbarcati baciano il suolo anche se ostile sancendone la sacralità; sono una benedizione: l’umano contro il non umano. Forse è fortuna dell’Italia la destra che ha vinto: si vede quel che è; una Premier, Giorgia Hood, erede del più noto Robin, che però ribalta il karma familiare: il governo toglie a poveri, Sanità, scuola, diritti, dialogo con i giornalisti, e dà a ricchi, caste da flat tax, evasori; il contrasto col mondo reale ricorda che resistono amministratori, sindacati, volontari, associazioni cattoliche e laiche, solidarietà che accoglie, aiuta, cerca inserimenti; fa risaltare che, nonostante le attuali opposizioni, può risorgere la politica ispirata a giustizia sociale, libertà, diritti e doveri, pace. Quando sembra di dover disperare in soccorso vengono Odissea e Bibbia, due archetipi dell’anima come scrive Borges: «Gli uomini lungo i secoli hanno ripetuto sempre due storie: quella di un vascello sperduto che cerca nei mari mediterranei un’isola amata, e quella di un Dio che si fa crocifiggere sul Golgota». Gianfranco Ravasi, Cardinale amante di poeti laici, ricevendo la laurea honoris causa in Cattolica per gli 80 anni e il sapere, ha citato il “teologo ateo” (così Sciascia chiamava Borges) e suggerito a giovani e adulti (docenti e politici) smarriti una prospettiva di senso. I tempi son duri? Prima di disperarsi, osare, prendere il largo: rischiare un’isola e la Croce, come migranti! Approdare; di nuovo ripartire, nel caso; ancora osare.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Pete Doherty, il libertino fedele ai propri demoni

È uscito da qualche giorno anche in Italia, “A Likely Lad”, l’autobiografia di Pete Doherty scritta insieme al giornalista inglese Simon Spence.
Devo dire che il libro mi ha sorpreso, come sa fare solo la vita. È pieno di così tante contraddizioni da risultare, alla fine, assolutamente coerente con il suo protagonista.
Il vecchio Peter è davvero uno strano personaggio: naif, maledetto, bohémien, inaffidabile, estremo, poetico, scoraggiante. Un po’ “Rimbaud dell’indie-rock” come lo ha definito la rivista Mojo, un po’ una specie di Mark Ranton in fuga verso Amsterdam alla fine di Trainspotting. Ed è davvero spiazzante realizzare che lo stesso musicista che con i suoi Libertines ha riempito e tuttora riempie i palchi di mezzo mondo, abbia collezionato quasi più arresti di Vallanzasca e si sia ritrovato implicato in beghe serie, che vanno da un suicidio/omicidio mai del tutto chiarito al furto con scasso in casa di uno dei suoi migliori amici. Un quadro che quasi fa sembrare i suoi eterni problemi con l’eroina – che poi sono la causa dei veri o presunti guai sopra – poco più di una marachella.
In mezzo a questa narrazione degna di un novello Jim Carroll, si erge la persona Peter Doherty, una figura decadente, complessa e a suo modo romantica; un uomo innamorato della fama e della poesia che ha sempre e comunque cercato di mettere la sua arte “sopra ogni cosa” .
Il suo libro, lo confesso, mi è piaciuto tanto, così come negli anni ho appezzato sia la musica dei Libertines che dei Babyshambles e del Doherty solista. La Londra dei primi anni 2000 – vorticosa e affascinante – viene fuori dalle pagine di “A Likely Lad” in tutta la sua intensità, con Peter che non fa sconti a nessuno, a partire da sé stesso. E vuota il sacco sul rapporto rovinoso con le droghe, racconta liti e botte con l’amico e compagno di band Carl Barât oppure quelle con la top delle top ed ex fidanzata super glamour Kate Moss. Ma c’è spazio anche per i racconti delle lunghe serate con l’amica di musica e pippette Amy Winehouse, le tante giornate passate in prigione, i viaggi intorno al mondo per sfuggire alla schiavitù dell’ago, i figli capitati lungo un cammino sentimentale tortuoso, fino all’apparentemente ritrovata sobrietà di un paio d’anni fa, subito prima dello scoppio della pandemia.
Non credo di esagerare nel definire il libro, con tutte le profonde contraddizione del suo autore, uno dei più vibranti e avvincenti memoir rock usciti negli ultimi anni.
Qualche settimana fa Doherty è passato dall’Alcatraz di Milano con i Libertines, in tour per festeggiare i vent’anni di “Up The Bracket”, il disco della consacrazione. Sul palco Pete è apparso parecchio imbolsito ma tutto sommato in forma soprattutto al netto di una condotta di vita non esattamente da atleta. Indossava una felpa del Venezia calcio, chi sa perché è pregato di dirmelo, ed è sembrato divertirsi un mondo. Forse il Rimbaud dell’indie Rock ha finalmente trovato la sua sintesi?
Di sicuro fino ad oggi è stato fedele ai propri demoni.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Mia cara Olympe

Verso il 25 novembre, la responsabilità delle parole

Antefatto: la Stampa, dopo il triplice femminicidio di Roma, ha pubblicato un articolo a firma, anzi a pseudonimo, di Patrizio Bati, scrittore che racconta di essere stato una ventina di volte nell’appartamento delle due donne cinesi, peraltro ancora senza nome, in qualità di cliente.
A mio avviso, (quasi) tutto ciò che non bisogna fare quando si scrive di un femminicidio e quando questo ha per teatro un contesto di prostituzione: con il vestito dell’insider nell’ambiente che dovrebbe dare ‘esclusività’ al racconto  (e già su questo punto c’è molto da dire e riflettere) un esercizio di modestissima scrittura e troppi e pesanti stereotipi – la pelle ambrata e gli occhi a mandorla, le ombre cinesi, le finestre chiuse, la Roma che mai hanno visto e non vedranno. Immediata, sotto forma di proteste e mail bombing,  è arrivata la reazione di tante (anche stavolta, uomini non pervenuti) di cui il giornale ha dato conto con una doppia pagina in cui, oltre a pubblicare alcuni dei messaggi, molti dei quali vengono dal mondo di chi lavora contro la violenza sulle donne, difende e spiega la propria scelta. In sintesi con due motivazioni: non stiamo normalizzando o tantomeno giustificando ma raccontando, la prima delle due motivazioni; il racconto di Bati disturba perché è la banalità del male a darci fastidio, la seconda.

Alla vigilia del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, rimbalza con forza il tema della responsabilità, che afferisce ai media, delle parole e del racconto della violenza. C’è una domanda chiave: c’è qualcosa nel racconto di Bati che non sapevamo, non potevamo immaginare della vita di queste vittime, qualcosa che dà a chi legge conoscenza e consapevolezza? No, nulla aggiunge e molto toglie, quel racconto, e non perché ci fa scoprire la banalità del male ma perché sceglie le tinte più sbagliate – dall’estetizzazione un po’ pruriginosa all’infimo gusto dei ‘rigagnoli di sperma’ che scorrono nel Tevere e che avrebbero dovuto, almeno quelli, far  suonare un campanello d’allarme a chi quell’articolo ha letto prima della pubblicazione – e mai fa neanche lontanamente cenno alla questione centrale della domanda maschile di prostituzione di cui l’autore è peraltro parte. E non basta dire che si tratta del racconto di uno scrittore (Bati, pseudonimo pare ispirato al nome del serial killer di ‘American Psycho’, è autore del romanzo ‘Noi felici pochi’ , la cui sinossi ci informa che tutte le persone di cui si parla nelle scene di violenza descritte sono state realmente aggredite e malmenate); non basta perché resta in capo al giornale la responsabilità delle parole, tanto più pesante proprio perché insistono su una delicatissima vicenda.

Qualche dato per capire di più di un mondo complesso e articolato che mette insieme le donne vittime di tratta e sfruttate e quelle che in autonomia si prostituiscono. Detto che le vite di queste donne e dunque le violenze che subiscono restano, assai più di quelle di altre, lontano dai riflettori non solo dei media ma anche degli apparati dello Stato, tra il 1988 e il 2018 in Italia vi sono stati 485 omicidi di prostitute, dettagliano Paola Degani e Gianfranco Della Valle che, nel 2020, hanno dedicato uno studio ai femminicidi delle  prostitute. Ricordando studi epidemiologici americani secondo i quali il rischio di essere uccise è 18 volte più alto per loro rispetto alle altre donne (altre ricerche danno stime molto più pesanti), scrivono: “Se le uccisioni che hanno come vittime le donne rimangono ‘irrisolte’ solo nel 10% dei casi in assenza di un autore di tali crimini, negli omicidi/femminicidi di prostitute circa il 45% dei responsabili resta ignoto. Una percentuale davvero alta che non rende giustizia a queste donne e nemmeno alla società riproducendo, anche se in modo silenzioso e difficilmente dimostrabile, un’odiosa discriminazione tra donne ‘per bene’ e donne ‘poco meritevoli del rispetto’ della pubblica opinione”.

Di questo (e molto altro) parliamo o meglio dovremmo parlare, non di ombre cinesi, non di ciglia lunghe e pantofoline. Ed è frustrante, e non rende un buon servizio a chi legge, pensare che tutto ciò che in convegni e aule universitarie viene raccomandato in tema di un veritiero racconto della violenza contro le donne resti poi lì confinato.

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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    In onda dal 2001, Prospettive Musicali esplora espressioni musicali poco rappresentate. Non è un programma di genere, non è un programma di novità discografiche, non è un programma di classici dell’underground, non è un programma di gruppi emergenti. Ma è un po’ tutte queste cose mischiate insieme dal gusto personale dei conduttori. Ad alternarsi in onda e alla scelta delle musiche sono Gigi Longo e Fabio Barbieri, con un’incursione annuale di Alessandro Achilli che è stato uno storico conduttore del programma.

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    News della notte di domenica 19/01/2025

    L’ultimo approfondimento dei temi d’attualità in chiusura di giornata

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    “La sacca del diavolo. Settimanale radiodiffuso di musica, musica acustica, musica etnica, musica tradizionale popolare, di cultura popolare, dai paesi e dai popoli del mondo, prodotto e condotto in studio dal vostro bacicin…” Comincia così, praticamente da quando esiste Radio Popolare, la trasmissione di Giancarlo Nostrini. Ascoltare per credere. Ogni domenica dalle 21.30 alle 22.30.

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