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Appunti sulla mondialità

Torna il debito estero…ma in Africa

Quello del debito pubblico degli Stati è un problema antico, già emerso all’attenzione dell’opinione pubblica verso la fine del ’900, quando le istituzioni finanziarie internazionali individuarono come cura standard, per i Paesi che ne erano gravati, il taglio dei cosiddetti “rami secchi” (cioè istruzione, pensioni e welfare), la liberalizzazione dei mercati e la privatizzazione delle aziende pubbliche. Una ricetta che ebbe pesanti ricadute sulla vita dei cittadini, basata su pochi ingredienti giusti e molti altri dettati dall’ideologia. Non è mai stato dimostrato, ad esempio, che un minor investimento nell’educazione dei giovani o nella cura degli anziani possa migliorare stabilmente i conti di uno Stato: anzi, nel medio periodo di solito accade l’esatto contrario. Ma il problema dell’indebitamento è come un iceberg del quale si vede solo la parte superiore, quella economica, mentre tutto il resto rimane sommerso.

Tra gli anni ’80 del secolo scorso e gli anni 2000 la questione riguardò soprattutto l’America Latina: Messico, Brasile, Ecuador, Perù rischiarono il default o addirittura dovettero dichiararlo, come accadde all’Argentina nel 2001, il caso più noto. Non furono le ricette del Fondo Monetario Internazionale a sistemare le cose, bensì il ciclo di crescita economica e l’aumento delle quotazioni delle commodities agricole e minerarie, che aiutarono quei Paesi a uscire dalla crisi.

Situazione economica internazionale e quotazioni delle commodities sono le ragioni per le quali oggi, dopo la pandemia, con la guerra in Ucraina ancora in corso e con il rischio di una recessione globale all’orizzonte, il debito torna prepotentemente all’attenzione. L’America Latina, che nel 2019 aveva una media del 58% di debito in rapporto al PIL continentale, è balzata al 72%.

La situazione è ancora più delicata in Africa, continente finora risparmiato dalle grandi crisi debitorie e che diverse volte ha usufruito di cancellazioni del debito. Nel 2022 il debito estero africano ha superato quota 700 miliardi di dollari e ben 8 Stati, secondo gli analisti, rischiano il default a breve termine. La crisi debitoria nasce dalla debolezza della struttura economica della maggior parte dei Paesi africani, che dipendono talvolta dalle quotazioni di una sola materia prima da esportazione, a fronte di una popolazione giovane in aumento e di una bassa tendenza al risparmio; si aggiungono il problema insoluto della corruzione generalizzata e la bassa fiscalizzazione dell’economia locale. Ora, prima che scatti l’effetto domino, si cercano soluzioni: ma in questo caso non è soltanto il Fondo Monetario a dettare le regole, perché quando si parla di Africa bisogna fare i conti con la Cina, che detiene quasi il 15% del debito estero del continente. Per anni, infatti, Pechino ha elargito agli Stati africani prestiti a buone condizioni, spesso per ripagare infrastrutture costruite dalla Cina stessa, e oggi teme l’insolvenza di alcuni dei Paesi con i quali ha stabilito rapporti di dipendenza. Almeno 6 Stati saranno chiamati a breve a ristrutturare il loro debito, e alcuni di essi sono Paesi importanti, come il Kenya, l’Egitto e la Nigeria.

A differenza di quanto accaduto in America Latina, qui c’è poco da tagliare, perché il welfare è quasi inesistente e gli Stati non possiedono grandi risorse. Assisteremo quindi a un negoziato che avrà poco di economico e molto di geopolitico, con la concessione di vantaggi agli investitori provenienti dai Paesi creditori, politiche restrittive sulle migrazioni e allineamenti politici che possano bilanciare l’avanzata dell’influenza di Mosca. Del resto, già in passato il debito estero è stato un fenomenale strumento di pressione politica oltre che economica. I Paesi indebitati devono abbassare le loro pretese, dimenticare il protagonismo internazionale e sopportare il commissariamento dei loro bilanci pubblici. Finché la prossima crescita economica allenterà la pressione debitoria e si potrà ancora una volta ricominciare a fare debito, come se nulla fosse.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

A spasso fra “i maledetti” del Pére-Lachaise, da Jim Morrison a Modigliani…

I cimiteri mi hanno sempre lasciato addosso un gran senso di pace e tranquillità. Le persone nei cimiteri parlano a voce bassa, camminano lentamente, hanno un approccio più misurato alla vita. Sarà la paura, o forse un senso di condivisione naturale verso l’unico destino che accomuna tutti.
Ora, non voglio certo dirvi che quando ho un momento libero lo passo al cimitero, quanto trasmettervi semplicemente l’informazione di essere una persona che tra le lapidi non avverte disagio. Figurarsi se mi capita poi di visitare delle vere e proprie opere d’arte, come il cimitero di Pére-Lachaise, a Parigi, anche noto come “il cimitero degli artisti”.
Arroccato nel XX arrondissement della capitale, ogni anno accoglie oltre tre milioni e mezzo di visitatori, il che ne fa il cimitero più visitato al mondo.
Ci arrivo insieme a mia moglie Daria, come in una sorta di pellegrinaggio, a piedi dal Bercy Village in una fredda, freddissima mattinata di gennaio. Cinquanta minuti di buon passo, un the verde e un espresso nel café a fianco all’ingresso e due roselline bianche comprate dal fiorista cinquanta metri più indietro.
Oggi é una giornata importante per me. Trent’anni dopo una promessa fatta al bar al mio migliore amico, porterò il nostro omaggio sulla tomba della mia più grande fonte di ispirazione artistica: Jim Morrison.
Se oggi vivo grazie ai libri, alla poesia e alla musica, il merito in parte va proprio a Jim, che per primo ha acceso in me queste passioni. Piccola nota di colore: sotto la giacca e la felpa indosso fieramente la t-shirt dei Doors.
Dopo aver consultato la piantina, cammino in silenzio, mentre le nuvole sembrano abbassarsi e una “pioggerellina gentile” scende dal cielo senza dare fastidio. Ma é solo un attimo, smette subito e quando mi trovo a pochi passi dalla tomba di Jim ha già smesso.
Ed eccola lì, a pochi passi da noi e protetta da una transenna che ne vorrebbe scoraggiare l’accesso. A quasi 48 anni mi emoziono. Tanto. Precipito ai miei 11 anni, quando papà mi faceva ascoltare i Doors in macchina. Ai 16 quando sotto la pioggia battente presi l’1 e poi il 20 per raggiungere il Cinema Universale nel centro di Genova per vedere il film “The Doors” di Oliver Stone, uscendo da lì completamente cambiato. E torno a quando lessi “Nessuno Uscirà vivo di Qui” e grazie a quel libro che era infarcito delle passioni di Jim mi avvicinai alla poesia di Rimbaud e Baudelaire, alla beat generation, allo sciamanesimo indiano e agli studi di Carlos Castaneda. Senza dimenticare la meravigliosa, ipnotica e visionaria musica dei Doors. Con loro in cuffia mentre salivo sull’immancabile treno delle sette e quarto diretto a scuola, mi si aprí un mondo, passioni su passioni che alla fine mi portarono a scegliere la strada della scrittura e della musica.
Davanti alla tomba di Jim, alle sue foto in evidenza, la lapide con il suo nome e quella scritta in greco che più o meno recita “fedele ai propri demoni”, le emozioni mi attraversano crude.
Mi sento commosso e grato, un padre di famiglia che corre verso i cinquanta e si ferma a dire grazie all’uomo che per lui é stato la prima scintilla, sulla quale é divampato un incendio che ancora non si è spento.
Un cerchio oggi si chiude.
Ed é con l’emozione che mi vibra ancora nelle ossa che lascio la tomba di Jim per accompagnare Daria alla ricerca della lapide di uno dei suoi più grandi ispiratori: Amedeo Modigliani, che qui a Parigi trovó la morte a 36 anni, finendo tumulato al Pére-Lachaise. Estremo, verace e bohemienne all’ennesima potenza, il pittore livornese diventerà leggenda appena morto, dopo una vita da pittore vizioso e squattrinato nelle bettole.
La sua tomba é semplice, quasi nascosta fra le lapidi di illustri sconosciuti, anche se una bottiglia vuota di Montepulciano lasciata lì sopra, lascia intendere che c’é sempre chi lo ricorda con un certo affetto. Insieme a lui riposa la sua compagna Jeanne Hébuterne, con cui ebbe una figlia e un altro era in arrivo quando Amedeo morì per un attacco di meningite tubercolotica. Distrutta dal dolore, la ventiduenne Jeanne, incinta di quasi 9 mesi, si gettò dalla finestra, suicidandosi. Davvero una storia dolorosa.
Ci spostiamo alla ricerca della tomba di Edith Piaf, sbagliamo strada e allora decidiamo di passare prima a rendere omaggio a Fryderyk Chopin, che pare trovarsi più vicino. Mentre cerchiamo di raggiungere il sommo pianista polacco mi imbatto casualmente nella tomba di Michel Petrucciani, il piccolo grande gigante del jazz francese. Affetto da osteogenesi imperfetta – una rara malattia congenita conosciuta anche come “sindrome dalle ossa di cristallo”, che priva le ossa del calcio necessario per poter sostenere il peso del corpo e impedisce la crescita – Michel seppe raggiungere in vita traguardi impensabili viste le sue difficoltà iniziali, ed oggi è riconosciuto come uno dei più grandi pianisti del novecento europeo.
Dopo aver reso omaggio a due assi del piano, troviamo finalmente la tomba di famiglia di Edith Piaf. Una vita tragica la sua, segnata da eventi tragici – su tutti quello della figlia Marcelle Carolina di appena due anni – malattie, alcool, droghe, e disperazione. Ricordo che quando la affrontammo in una delle puntate di “Rock is Dead” mi colpì in modo particolare.
A pochi passi da Edith mi incuriosisce la tomba di un signore presumo cinese, tale Ling Yang Tien. Più che una tomba sembra un tempietto mystic-trash che non ti aspetti. Non so chi sia, cerco su internet ma non trovo nulla. Chi ne sapesse di più mi scriva in privato.
Nella zona nord del cimitero, troviamo la tomba di Oscar Wilde. Impossibile sbagliarsi per via dell’orribile statua a forma di sfinge alata lì a fianco. La realizzò lo scultore e pittore statunitense naturalizzato inglese Jacob Epstein, prendendo spunto dalla poesia di Wilde “La Sfinge”. Più fedele a Oscar e alla sua fama, era l’idea di baciare la sua tomba lasciando l’impronta del rossetto, un rituale andato avanti per decenni anche se adesso non si può fare più e un’orribile barriera in plexiglass protegge l’angelo alato sotto il quale giaciono i resti mortali dello scrittore.
Ce ne sarebbero ancora molti di nomi illustri a cui rendere omaggio, penso a Rossini, Bellini, Balzac, Proust e tanti altri ancora, ma tra il freddo pungente, oscilliamo tra zero e 1 grado, la stanchezza per la lunga camminata e il dispendio emotivo figlio di tutte le esperienze forti, decidiamo di andare. Serve tempo e spazio per metabolizzare, assaporare e fare davvero propri certi momenti.

A trent’anni da quella promessa, esco dal cimitero commosso e grato. Già ve l’ho detto: se oggi vivo grazie ai libri, alla poesia e alla musica, il merito in parte va a colui che per primo ha acceso queste passioni in me, fragile mente di bimbo aperta come un guscio d’uovo da Jim, dai Doors e dal grande beat…

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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L'Ambrosiano

L’arditodemosauro

Il fascismo non torna: ne son convinto e so di trovarmi in buona, larga, agguerrita compagnia. La Costituzione è caposaldo; Mattarella è sapiente, affidabile garante di rispetto e applicazione, come i predecessori, riferimenti autorevoli e super partes perché eletti con processi di consenso democratico, non direttamente dal popolo secondo umori e propaganda; la democrazia di buona salute gode ancora seppur abbia vita complicata (chi non l’ha?): è immunizzata da un ventennio di male assoluto (leggi razziali, guerra), da efficaci booster protetta. Se dunque ha resistito a stragi, terrorismi, memoria corta, golpe tentati, logge segrete, mafie, corruzioni, secessionismi sognati, cene eleganti, populismi, voltagabbanismi disinvolti, la democrazia supererà le prove che la aspettano in Italia, Europa, equilibri mondiali. Dovrà fare i conti con una nuova creatura che da tre mesi si aggira per le strade, abita il Palazzo, cerca poltrone in enti pubblici, media, presidi culturali, fa scouting tra antenati: arruola Dante. Negli antichi bestiari il mitologico “mostro” prende forma dall’incrocio di parti diverse. Oggi, ad esempio: la baldanza d’esponenti della destra giovani che usano dati sensibili come clava per attaccare gli avversari e quelli d’esperienza che ammettono (finalmente!) esser state le leggi razziali «macchia indelebile per l’Italia», ma tralascian di citare e bollare chi le promulgò e dopo l’8 settembre consegnò ebrei e inermi ai nazisti. Poi c’è la parte democratica: consenso raccolto legittimamente per il combinato di mirabolanti promesse, alleati in cerca di bandierine da scambiare, disastri di quelli che dovrebbero fare opposizione, narcisismi, legge elettorale poco rispettosa delle possibilità di scegliere (e le urne si svuotano). E c’è la parte che evoca figure, fantasie, paure arcaiche ma ricorrenti: i “sauri”, alla Spielberg, minacciosi d’un passato mai morto, poi sconfitti. In bestiari a noi più prossimi parlerei di “arditidemosauri”. Nel gioco di alternanza e pluralismo dovrebbero duellare coi “brontopidisauri”, “lucertole del tuono” (è l’etimologia). Dice il motto popolare: «tanto tuonò che piovve». Ma coi cambiamenti climatici è scarsa anche l’acqua che ristori.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

Demografia globale

Due dati demografici recenti ci parlano del futuro: sul pianeta siamo oltre otto miliardi di esseri umani e, per la prima volta dal 1961, la Cina ha registrato un calo demografico, tanto che nel 2023 non sarà più il primo Paese al mondo per popolazione, superata dall’India. I due dati risultano tra loro complementari, soprattutto se li si osserva in una prospettiva di lungo termine. La frenata demografica cinese, infatti, non può essere considerata episodica, e nemmeno una “semplice” conseguenza delle politiche restrittive sul diritto alla procreazione varate in passato dalle autorità, ma è frutto anche dalla crescita economica che ha cambiato lo stile di vita di ampie fasce della popolazione cinese e, più in generale, dal processo che ha visto la civiltà contadina tradizionale trasformarsi in una società operaia di massa. In questi ultimi decenni, lo stesso è accaduto anche in altri Paesi: a livello planetario, il sorpasso della popolazione urbana su quella rurale è avvenuto nei primi anni 2000. Ovunque si sia verificato questo fenomeno, la fertilità media per donna è calata. Proprio questo è stato uno dei principali freni alla crescita demografica globale.

Dunque siamo sì otto miliardi, numero enorme, ma la prospettiva di crescita oggi è ridimensionata rispetto alle proiezioni fatte 30 anni fa. Le attuali proiezioni elaborate dalle Nazioni Unite ci parlano di tempi ancora lunghi prima di arrivare al picco, previsto attorno al 2180, dopo il quale la popolazione globale comincerà a scendere. Nel frattempo, però, si saranno aggiunti altri due miliardi di uomini e donne nati soprattutto nei Paesi più poveri, laddove ancora il lavoro agricolo richiede braccia, dove le campagne per la salute sessuale e la prevenzione non esistono per povertà o sono rifiutate per convinzione religiosa. Nei prossimi anni sarà infatti l’Africa il continente che farà il grande salto demografico: attorno al 2050 la Nigeria contenderà agli Stati Uniti il terzo posto al mondo per popolazione e l’intero continente avrà raddoppiato la sua popolazione attuale. La Cina, che come si è visto già comincia a calare demograficamente, si troverà presto ad affrontare gli stessi problemi dell’Europa e del Nordamerica: l’invecchiamento della popolazione, il peso crescente dei pensionati (e dunque anche dei servizi sanitari e di welfare per la terza età), la carestia di giovani da impiegare.

L’altro mondo invece, quello ancora in crescita, deve far fronte ai problemi opposti: dalle mancanze di servizi e di cure per giovani mamme e bambini all’eterno deficit dell’offerta formativa, fino all’abbondanza di giovani senza impiego, premessa per l’emigrazione.

Quelli che abbiamo definito due “mondi” diversi si trovano però sullo stesso pianeta. Anzi, di fatto sono fortemente interdipendenti: c’è chi esporta braccia e chi le importa, chi ha lasciato l’agricoltura e chi continua a produrre alimenti. Non è però un’interdipendenza all’acqua di rose. Le gigantesche disparità nella distribuzione delle opportunità, a livello locale e su scala globale, l’avanzare degli effetti peggiori dei cambiamenti climatici, la mancanza di una politica migratoria globale che regoli i flussi e garantisca i diritti, l’instabilità endemica di Paesi vittime della criminalità o di conflitti armati rendono il mondo ancora una volta incapace di pensarsi come comunità.

Ci vorrebbe invece uno sguardo d’insieme per gestire la transizione demografica in corso, così come per affrontare la sfida ambientale e per provare a risolvere i conflitti aperti. Tutti temi di alta politica, per i quali in verità ci sono molte ricette, alcune semplici altre complesse, che troviamo scritte in tutti i rapporti delle Nazioni Unite. Un organismo, formato e finanziato dagli Stati, il cui lavoro però, a quanto risulta, non viene mai nemmeno preso in considerazione dai decisori. La sfida demografica è soltanto uno dei dossier aperti che riguardano questa globalizzazione, ancora alla ricerca di uno sguardo attento, di idee, di volontà politica per essere governata.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Mia cara Olympe

Dopo il Pertini, sulla scena del parto

Un paio d’anni fa, per un settimanale femminile, mi sono occupata di violenza ostetrica. Ho intervistato le donne e le attiviste che hanno fondato l’osservatorio e promosso l’indagine Doxa (su un campione di donne che hanno partorito – il 99% in ospedale – tra il 2003 e il 2017,  il 21% pari a 1 milione di donne ha dichiarato di avere subito violenza ostetrica. Il 41% ha riferito di pratiche lesive della propria dignità o integrità psicofisica e il 33% non si è sentita adeguatamente assistita), ho ascoltato ginecologhe e ostetriche, queste ultime ospedaliere e non. Sin dai dati (c’è un’altra indagine promossa dalla società scientifiche dei ginecologi che dà tutt’altri risultati) si poteva notare una fortissima divaricazione di sguardi: se sul fronte delle attiviste si rivendicava l’aver dato voce alle donne (e tante, tantissime l’hanno ripresa in questi giorni dopo la drammatica morte del neonato al Pertini di Roma) e l’aver fatto emergere pratiche e abusi in sala parto, il personale sanitario sottolineava  gli alti livelli di sicurezza garantiti alle madri dai nostri ospedali e un lavoro di decenni per modificare pratiche e cultura del parto.

Il parto è un iceberg: c’è un emerso –  la creatura è nata, si festeggia, la mamma torna più o meno conciata a casa, tutto riprende il suo corso – e un  sommerso gigantesco, tanto grande quanto personale, anche se una caratteristica comune c’é: nessuna dimentica, tutte possono raccontare a distanza di decenni il proprio o i propri parti. Altro che il  “Vedrai, appena ce l’hai in braccio ti dimenticherai di tutto”. Il parto è un iceberg che trascina, fa emergere con violenza per poi rinascondere mille cose di te e malgrado te: il rapporto con il corpo, con la sessualità, con il dolore, la genealogia femminile, le mille voci che da tempo immemore fino al momento prima di entrare in sala parto hanno detto cose, sussurrato comportamenti,  imposto norme, alimentato aspettative… Una di quelle è la tua stessa voce che ha costruito nei mesi dell’attesa una scena: talvolta troppo edulcorata, o spaventata, o fiduciosa, o tutte queste cose ed altre insieme.

Quell’iceberg riguarda anche chi ti assisterà e chissà quanto ha elaborato e lavorato sulla richiesta che da secoli impone alle donne di essere subito, interamente, autonomamente, coraggiosamente madri come se ciascuna non fosse una madre, quella madre, tra le tante possibili. E quel parto non fosse quello, unico, nuovo tutte le volte. Mentre, intanto,  i reparti si svuotano di medici e ostetriche, il clima di lavoro diventa sempre più pesante e in parte ‘burocratizzato’, l’alleanza terapeutica tra medico e paziente è andata, da tempo, sgretolandosi, la rete dei consultori si è impoverita e le donne sono più sole.

Ecco cosa mi sembra ci sia dietro la terribile vicenda del Pertini:  una relazione sempre più difficile tra il personale sanitario e le donne e, invece, sempre più necessaria, se è vero che  si partorisce più tardi,  il livello delle complicazioni aumenta e così anche – prima durante e dopo – la solitudine delle madri, aggravata dal Covid che ha tenuto fuori dagli ospedali i padri e il cerchio degli affetti. Mi ha detto un’ostetrica intelligente, mentre lavoravo a quella inchiesta: non siamo linee guida ma persone, il parto è a doppio scambio e non sempre si riesce a stabilire una comunicazione. E l’elaborazione di cosa è accaduto è fondamentale per la madre, ma anche per noi. Per vedere l’iceberg, si potrebbe dire, e trarne esperienza e consapevolezza.

Ps. Però (o non però) in chiusura vorrei aggiungere il ricordo di un panino: mi fu offerto da un infermiere, un uomo, alle undici e mezzo di sera nel reparto della Mangiagalli  di Milano dove fui portata dopo l’estenuante e faticoso parto del mio secondogenito che mi aveva impegnato dalle sette del mattino. Era un semplice panino condito con olio e sale: era caldo, affettuoso, buonissimo.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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