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Appunti sulla mondialità

I colori di Hollywood

Una volta Hollywood non guardava al colore dell’attore o dell’attrice per assegnare i ruoli nei film a sfondo storico. Liz Taylor recitava nei panni di Cleopatra e Richard Burton era Marco Antonio, Sylvia Sidney diventava Madama Butterfly e Yul Brynner il re del Siam. Non erano già più i tempi in cui gli afroamericani erano apertamente discriminati, e venivano interpretati da bianchi col volto annerito, ma si trattava di scelte artistiche e commerciali: si andava sul sicuro ingaggiando la star del momento, a prescindere dalla sua “etnia” o dal colore della pelle. Una scelta che è stata criticata, e a ragione, perché effettivamente sanciva il monopolio dei bianchi, preferibilmente anglosassoni, nel mondo del cinema e della comunicazione. Per tutti gli altri non c’erano ruoli se non quelli da comparsa, costretti a interpretare sempre e solo la parte che la storia aveva loro assegnato: lo schiavo egizio, l’“indiano” che lancia il grido di guerra mentre assalta la diligenza, il giapponese kamikaze, il nero al lavoro nella piantagione…

Al di là del macinare sempre e comunque i soliti luoghi comuni sugli “altri” popoli, qualcuno si chiede se Hollywood fosse a tutti gli effetti razzista o se la discriminazione si manifestasse solo nello star system, nell’esclusione dei “non bianchi” dalla possibilità di avere ruoli importanti. Ma, forse, la storia di dominazione e la certezza di superiorità dei bianchi si celavano proprio nella supposizione che un attore bianco potesse recitare qualsiasi ruolo, mentre un nativo americano poteva interpretare solo l’“indiano”, un afroamericano solo ruoli “da nero” e via incasellando.

La grande rivoluzione dei nostri giorni, che però genera commenti spesso increduli o di condanna, è che gli attori neri, asiatici e latinoamericani stanno cominciando a interpretare figure che storicamente non rientrano tra i loro antenati, emancipandosi dai ruoli subalterni che sono stati loro appiccicati in passato. Lavorano e vengono scelti solo perché sono bravi attori e attrici. Come nel caso della regina Carlotta interpretata dalla afro-britannica India Ria Amarteifio o del magistrale Arsène Lupin interpretato dal franco-senegalese Omar Sy. Senza dubbio è cambiata la sensibilità del pubblico, e sul mercato del cinema e delle serie tv si sono affacciati miliardi di spettatori non bianchi, ma occorre anche considerare che dalle scuole di teatro e recitazione delle metropoli multietniche d’Europa e America escono sempre più bravi attori e attrici di ogni origine, e in grado di recitare bene, a prescindere dalla loro storia familiare o etnica.

È un mondo che cambia, ma che ancora si divide tra giovani e vecchi. I primi non trovano nulla di strano nel veder rappresentata, anche nei media, la stessa società nella quale vivono; i secondi si scandalizzano del fatto che la regina Carlotta sia interpretata da un’attrice di colore, ma sono gli stessi ai quali andavano bene la Cleopatra di Liz Taylor e la Madama Butterfly di Sylvia Sidney. E forse qui c’è un residuato delle ideologie razziste del passato, nel pensare che non a tutti gli attori sia concessa la libertà di rappresentare qualsiasi figura, a prescindere del colore della pelle. Perché scompaia questo pregiudizio dovrà passare ancora del tempo, ma la veloce crescita economica e politica di popoli una volta marginali, e ora coinvolti nella globalizzazione, sicuramente accelererà la scomparsa di quest’eredità di una storia non proprio edificante.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Mia cara Olympe

Una tenda, è questo il posto dei giovani?

Il popolo delle tende si spande, giorno dopo giorno: dalla prima, Ilaria davanti al Politecnico di Milano, le e gli accampati si fanno vedere in tante città, dai portici bolognesi alla Sardegna, in una protesta che si potrebbe dire marxista in quanto prende la mosse da precise e pesanti condizioni materiali –  il caro affitti  come primo anello di una catena di diseguaglianze che riguardano le generazioni più giovani  – e insieme assai efficace dal punto di vista comunicativo. Come non vedere lo spostamento di significato dell’uso di una tenda in mezzo a una città? Lontano da immagini di boschi e campeggi, la tenda rimanda alla condizione degli homeless: quelli che con le loro pinetine affollano i giardini di Washington, i quartieri centrali di San Francisco, quelli che anche a Milano siamo abituati a vedere in Corsia dei servi, pieno centro città.

Homeless, senza casa, senza posto: condizione che si vorrebbe lontana da giovani che frequentano l’università e che dovremmo tenerci cari visto che sono anche pochi, essendo l’Italia uno dei posti in Europa con meno laureati. E invece. Troppo facile, troppo ‘vittimista’ – qualcuno lo pensa – pensare che ciò che studentesse e studenti dalle loro tende stanno mandando a dire ad una politica così misera da farne una questione di schieramento – il ministro Valditara – è che il caro affitti racconta di un modello escludente di città e società e di una grande questione generazionale alla quale negli anni i e le giovani hanno dato, silenziosamente e individualmente, risposte diverse? Molti se ne sono andati in una varietà di traiettorie che quasi nessuno si è dato la briga di vedere per quello che indicano: non una questione privata semmai venata di privilegio, ma una domanda inevasa, una perdita che il nostro Paese non ha saputo colmare con altri arrivi – figurarsi adesso con le politiche della destra sulle migrazioni – o dando la possibilità di un ritorno. Molti in realtà, complice il Covid, sono tornati e, come quelli rimasti, sono andati a ingrossare le fila degli stage, del ‘Comincia a lavorare e poi ci aggiustiamo’, i più fortunati con posti di lavoro la cui ‘flessibilità’ va solo a vantaggio delle aziende, tutti  alle prese con un gap salariale tra generazioni che ormai, secondo il recentissimo studio ‘Countries of Old Man: an Analysis of the Age Wage gap’,  arriva al 40% e intrappolati ai livelli bassi delle carriere. Per non dire, ed è sempre da dire, che per le giovani donne è tutto e sempre ancora più difficile e hai voglia a lamentare la natalità più bassa della nostra storia e a fare gli Stati generali…

Sotto quelle tende c’è tutto questo e qualcosa di più impalpabile ma altrettanto importante (e che da questa parti suscita grande simpatia): la richiesta di porsi come soggetto collettivo, come forza – energie, idee, saperi, progettualità –  di cui noi, società invecchiata e assai disillusa, abbiamo disperatamente bisogno. E non solo per pagarci le pensioni.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

La tenda

In principio fu la tenda. Potrebbe esser l’inizio d’un racconto inedito dell’Italia nel 75° della Costituzione antifascista che a tali sorgenti attinge per riscattarsi, rilanciarsi, ripartire. Protagoniste due donne (oggi va così): Ilaria e Giorgia, una studentessa d’Ingegneria e la Premier; la prima pianta una tenda davanti al Politecnico perché sono un’indecenza 700 euro per un letto a Milano; la Meloni non fa il nesso tra culle vuote e i giovani non messi in condizioni di pensare al futuro e a metter su famiglia sin dall’università. La ragazza della provincia di Bergamo denuncia le inadeguatezze del Governo e manda un avviso anche alla Milano perbene che vota Pd in centro ma ha periferie banlieue e una borghesia che sfrutta rendite immobiliari e da capitale; la madre, cristiana, italiana ha ritenuto prioritari, decreti insicurezza, misure anti rave, reality a Palazzo Chigi il 1° maggio, invece di garantire formazione a figlie e figli così non vanno all’estero. Ilaria e Giorgia due Italie, due modi di vivere presente e futuro. La tenda può cambiar qualcosa? Ilaria è notizia da pagine locali o nazionali? Le cronache rivelano imbarazzo. Le tende crescono. Donatella Sciuto rettora reca solidarietà, il Politecnico però non ha case. Milano chiama Roma. Ma tg e Governo sono su altre lunghezze d’onda: video della Premier; Morandi e La Russa al Senato; Eni e biogas; schermaglie con Bruxelles e Parigi; non pervenuti: diritto allo studio, edilizia residenziale pubblica, welfare, scuola e sanità pubbliche. Cambiare il Paese per melosalviniani è occupare vertici Rai, Enti, GdF, Ps, autonomia differenziata, riscrivere la storia, “fare la storia” cambiando la Costituzione più bella che c’è, offrire narrazioni senza conferenze stampa: i giornalisti potrebbero far domande. A porle però oltre a Ilaria e al Politecnico sono i romani. Anche davanti alla Sapienza crescono tende, perché pure lì mancano alloggi per gli studenti. Il caso monta: è nazionale. Ma Meloni ha convocato a Palazzo Chigi le opposizioni per chieder loro che idee hanno su presidenzialismo, premierato, monocameralismo. Diritto a studio e casa, futuro decente per i giovani, giustizia sociale, covano sotto le tende. Per ora.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

La guerra del litio si combatte sulle Ande

Viene già presentato come l’oro bianco del XXI secolo ed è l’unico minerale che negli ultimi anni ha moltiplicato più volte il suo valore: oggi è arrivato a costare il 450% in più rispetto al 2020. Stiamo parlando del litio, che dunque fa gola a molti. Senza, non potrebbe esistere la transizione energetica tanto auspicata per porre un freno all’aumento globale delle temperature. Non ci sarebbero automobili elettriche e nemmeno gli smartphone così come li conosciamo. Come succede con i giacimenti di petrolio, concentrati per la maggior parte nel vicino Oriente e in Siberia, anche il grosso dei depositi naturali di litio si trova in zone limitate del pianeta: la principale è il cosiddetto triangolo del litio, a cavallo tra Cile, Bolivia e Argentina. I tre Paesi sudamericani hanno scoperto una ricchezza inaspettata nei deserti di alta montagna dove si trovano le saline, ambienti che si sono rivelati ricchi di questo minerale: insieme, i tre Stati possiedono circa il 59% delle riserve terrestri conosciute. Tra i produttori, attualmente il Cile contende il primo posto mondiale all’Australia, al terzo posto si piazza la Cina e al quarto, molto distaccata, l’Argentina. La Bolivia, che secondo alcune classifiche sarebbe il primo Paese al mondo per riserve, non produce praticamente nulla, e la stessa Argentina estrae litio molto al di sotto le sue potenzialità.

In Sudamerica, dunque, il Cile è l’unico Paese che sfrutta appieno questo minerale, ma lo fa soltanto attraverso due società private, la statunitense Albemarle e la SQM proprietà del miliardario cileno Julio Ponce Lerou, genero del generale Augusto Pinochet. Queste imprese nel 2022 hanno versato allo Stato cileno 5,8 miliardi di dollari tra diritti e tasse, pari all’1,7% del PIL del Paese: è il doppio di quanto ha lasciato nelle casse pubbliche il rame, metallo di cui il Cile è il primo produttore mondiale. Insomma, il litio è davvero l’oro bianco.

In questo contesto si inquadra una recente proposta avanzata dal presidente cileno Gabriel Boric che è stata genericamente etichettata come “nazionalizzazione del litio”. In realtà, la proposta si ispira sì alla nazionalizzazione del rame decisa da Salvador Allende nel 1971, ma non prevede di espropriare chi ha già ottenuto delle concessioni. Piuttosto, Boric mira a far nascere un’impresa mista, di carattere pubblico-privato, per avviare lo sfruttamento di nuovi giacimenti di litio, ma a due condizioni. La prima è dichiarare riserva di biodiversità il 30% del deserto di Atacama, da dove proviene quasi tutto il litio cileno; la seconda è cambiare il metodo di estrazione. Infatti, il metodo attualmente usato in Sudamerica, detto “salamoia”, comporta un grande spreco di acqua, che viene lasciata evaporare in zone dove le riserve idriche sono un bene raro. Secondo i piani del governo, l’acqua utilizzata dovrebbe essere invece re-iniettata nella falda.

Lo Stato cileno non è ovviamente l’unico interessato ad allargare il mercato del litio: nel triangolo sudamericano sono molto attive imprese cinesi, statunitensi e anche russe. In Argentina, il gruppo Tsingshan ha appena investito 800 milioni di dollari nella provincia di Salta; nella stessa area, la Tibet Summit Resources ha annunciato l’acquisto di due giacimenti per un valore di 2 miliardi di dollari. In Bolivia sono sempre i cinesi, ma anche i russi, a proporre partnership al governo di La Paz, che qualche anno fa ha nazionalizzato il litio ma ancora non riesce a estrarre quasi nulla. Per ora, quello avanzato dal Cile è comunque il progetto più interessante. E l’America Latina nel suo complesso, pur tra mille contraddizioni, sta riuscendo proporsi come partner e, soprattutto, a creare una cornice giuridica che tuteli gli interessi nazionali, operazione che finora non è riuscita all’Africa.

Per i Paesi del triangolo del litio le opportunità che si aprono sono sicuramente enormi, sebbene ancora difficili da quantificare. Zone impervie delle Ande, che non sono mai interessate a nessuno, all’improvviso si trovano al centro della guerra commerciale per il possesso delle materie prime chiave della globalizzazione: che, per quanto sia percepita come virtuale, si basa ancora sulla terra e sulle miniere.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Noi & loro

«Noi il 1° maggio lavoriamo, loro cantano». Salvini col suo sfottò ha di fatto chiuso una fase del Governo. Così ha anche creato le condizioni perché molti aprano gli occhi, stemperino torpore e tiepidezza, cresca una coscienza d’opposizione a una maggioranza che mostra un volto autoritario. Contengo la ribellione interiore per i due attacchi recenti a democrazia popolare e Costituzione. Primo. Il rozzo tentativo della destra di “occupare” il 1° maggio: informativa imposta ai sindacati la sera prima della Festa dei Lavoratori; squalifica degli invitati chiamati “la triplice”; reality della premier per i corridoi di Palazzo Chigi, come dire: «Io sono il 1° maggio, non il Concertone». Voleva pure sentirsi dire “grazie” (ma di ché?). Secondo. Lo sforzo di “espropriare” il 25 aprile della sacrosanta Liberazione sostituendola con “libertà”, parola bella ma generica; ad Auschwitz campeggiava: «Il lavoro rende liberi»! Il 1° maggio è lo spartiacque non tra “noi e loro”, ma tra due noi. Uno, usato dalla destra, ha la enne minuscola. L’altro, quello della Costituzione nata là “dove caddero i partigiani” (Mattarella) è il Noi (maiuscolo) della Repubblica. Il noi melosalviniano è ristretto, angusto, autoriferito (“nessuno prima di noi l’ha fatto”: bum!), identitario, protettore di appartenenze (economiche e culturali), erige muri, esclude, caccia “loro” (la “sostituzione etnica”). Il Noi della Costituzione comprende tutti alla pari; è il Noi della Liberazione e della cultura di quelli ch’ han partecipato a quella lotta. A destra fa comodo falsare la storia, ingannare i giovani, chi non sa o non vuol sapere, presentare la Resistenza solo come “di sinistra”; così giustificano il colpevole astenersi dal dire “antifascista” nonostante abbian giurato sulla Costituzione che tale è. Non ci son più i comunisti nemici dei fascisti: perché parlare ancora di antifascismo? Perché oltre alla sinistra han fatto la Resistenza cattolici, azionisti, liberali, monarchici e reparti dell’esercito fedeli alla patria non a Salò. Il 1°maggio Noi abbiam cantato orgogliosi dell’Italia Costituente; pure per chi dava uno spettacolo tristanzuolo; senza chiamarlo “loro”. Quel noi è la nostra Ombra.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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    Radio Popolare Minilive - Roberto Cacciapaglia

    A pochi giorni dall'annuncio del suo nuovo tour, Time to Be, al via martedì 25 marzo 2025 dall'Auditorium Mahler di Milano, il compositore e pianista Roberto Cacciapaglia è stato ospite di Jack per una chiacchierata con Matteo Villaci e un paio di brani dal vivo.

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    Playground di mercoledì 22/01/2025

    Tributo a Garth Hudson, ultimo componente dei The Band.

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    Jack di mercoledì 22/01/2025

    Dopo il ricordo di Garth Hudson dei The Band, raccontiamo la riduzione della pena a Leonard Peltier, come uno degli ultimi atti ufficiali da presidente di Joe Biden, e la reazione gioiosa dei RATM, parliamo con Barbara Sorrentini di "A Complete Unknown", biopic su Bob Dylan in uscita domani in Italia, parliamo e ascoltiamo tre brani dal vivo di Roberto Cacciapaglia, che ci racconta il suo ultimo lavoro "Time to Be"

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    George Hoyningen-Huene. Glamour e Avanguardia

    Da ieri, 21 gennaio, fino al 18 maggio a Palazzo Reale una prima assoluta in Italia. Una mostra con oltre 100 scatti, stampe al platino che raccontano l’importanza che George Hoyningen-Huene ha avuto nella fotografia. Influenzato dall’arte classica e dal Surrealismo, l'artista ha fatto parte della cerchia ristretta di Man Ray, frequentato artisti surrealisti come Salvador Dalì, Lee Miller, Pablo Picasso e Jean Cocteau e collaborato con Vogue e Harper’s Bazaar. I suoi scatti testimoniano il vivace contesto culturale dell’epoca, dai Ballets Russes di Diaghilev, a quelli dei ballerini Serge Lifar e Olga Spessivtzeva con i costumi disegnati da De Chirico. Il servizio di Tiziana Ricci.

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    Musica leggerissima di mercoledì 22/01/2025

    a cura di Davide Facchini. Per le playlist: https://www.facebook.com/groups/406723886036915

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    Considera l’armadillo di mercoledì 22/01/2025

    Per riascoltare Considera l'armadillo noi e altri animali che ha ospitato Monica Blasi di @Filicudi Wildlife Conservation per parlare del Centro, di Tartarughe, di delfini, di Eolie, di Vulcano. A cura di Cecilia Di Lieto.

    Considera l’armadillo - 22-01-2025

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    Cult di mercoledì 22/01/2025

    Oggi a Cult: Richard Gere sul film "Oh Canada - I tradimenti"; la mostra "George Hoyningen. Glamour e avanguardi" a Palazzo Reale di Milano; Matthew Lenton e Marco Paolini su "Darwin, Nevada" al Piccolo Teatro Strehler; Gianfelice Facchetti su "Arpad Weisz" al Teatro della Cooperativa...

    Cult - 22-01-2025

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    Pubblica di mercoledì 22/01/2025

    Braccia tese e saluti pericolosi. Elon Musk mette in scena alla festa di Washington il nuovo ordine trumpiano. Fa discutere in Europa la coreografia del saluto del padrone di SpaceX, tanto simile ad un saluto nazista. Sempre a Washington la vescova episcopale Mariann Edgar Budde supplica Trump per gli ordini esecutivi anti-immigrati. «Le chiedo di avere pietà, signor Presidente, per coloro che nelle nostre comunità hanno figli che temono che i loro genitori vengano portati via», ha detto la religiosa. Trump l’ha accusata di aver avuto un «tono sgradevole» e di essere «un’estremista della sinistra radicale che odia Trump». Pubblica ha ospitato Mattia Diletti, scienziato politico dell’università “La Sapienza” di Roma, e Chiara Volpato, psicologa sociale, già docente all’università di Milano Bicocca.

    Pubblica - 22-01-2025

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    A come Atlante di mercoledì 22/01/2025

    Trasmissione trisettimanale, il lunedì dedicata all’America Latina con Chawki Senouci, il mercoledì all’Asia con Diana Santini, il giovedì all’Africa con Sara Milanese.

    A come Atlante – Geopolitica e materie prime - 22-01-2025

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