Sono già quattro, accidenti, gli iconici artisti che ci hanno lasciato quest’estate, ma se i primi tre – Tina Turner, Jane Birkin e Tony Bennet – avevano un’età “importante”, la quarta, Sinéad O’Connor, era ancora relativamente giovane e, probabilmente, pure parecchio a credito con la vita. Se n’è andata all’improvviso, l’annuncio è stato dato ieri dalla tv irlandese, e per adesso non si sanno le cause della morte, anche se, analizzandone la travagliata vita, viene più di un sospetto.
Sinéad Marie Bernadette O’Connor, per il pubblico semplicemente Sinead, nasce l’8 dicembre 1966 nel sobborgo operaio di Glenageary, a Dublino, terza di cinque figli. Suo padre si chiama Sean e di mestiere fa l’ingegnere mentre sua madre, Marie, sta a casa a occuparsi dei ragazzi.
A 9 anni, a seguito della separazione dei genitori, viene affidata alla madre. Non è una scelta felice, la donna soffre di depressione e ha problemi con il bere, le frustrazioni di una vita disgraziata le scarica tutte sui figli. Quando il padre viene a conoscenza degli abusi, Sinead va a vivere da lui e dalla sua nuova compagna e inizia a frequentare diverse scuole cattoliche.
Ed è qui che nasce il suo complesso rapporto con la spiritualità e la fede, un rapporto fatto tanto di devozione e ricerca verso l’altrove, quanto di rabbia e ribellione contro le ingiustizie.
Espulsa diverse volte da scuola, alla ricerca di un proprio posto nel mondo, a quindici anni viene arrestata per taccheggio e rinchiusa per quasi diciotto mesi al Grianan, un centro per ragazzi difficili gestito dalle suore, con annesso centro per il trattamento dei disturbi mentali.
Un’esperienza terribile, che però ha il pregio di regalarle tanto tempo per suonare la sua amata chitarra e scrivere le prime canzoni. La musica, d’altronde, è un ottimo rimedio per sfogare la rabbia.
Durante un‘esibizione a un matrimonio viene notata da Paul Byrne, bassista della band irlandese degli In Tua Nua; Sinead sta cantando Evergreen di Barbra Streisand, e Byrne letteralmente impazzisce, prendendola con sé. La introduce subito nel giro che conta, pensa a lei come nuova cantante per il suo gruppo e insieme registrano il singolo Take My Hand. Ma lei è troppo giovane, ha appena quindici anni e il progetto sfuma.
Passa qualche anno ma non l’amore per la musica, Sinead studia piano e voce al Dublin College of Music e per mantenersi, recapita a domicilio telegrammi cantati. Grazie a un annuncio su Hot Press incontra Colm Farrelly, un giovane musicista con la passione per la world music. I due reclutano altri musicisti e mettono su i Ton Ton Macoute, un gruppo strano ma che da subito suscita parecchia curiosità grazie alle convincenti esibizioni dal vivo e all’ugola eccezionale della sua strana cantante. Nel giro la notano subito, ma se la accaparra Fachtna O’Ceallaigh, amico degli U2 ed ex CEO dell’etichetta Mother, che ne diventa il manager e come prima mossa la inserisce nella colonna sonora del film The Captive, curata proprio da The Edge.
E da qui parte tutto. Arriva il primo contratto discografico con i tipi della Ensign Record.
Poco dopo sua madre muore in un incidente d’auto. È una bella mazzata, Marie se ne va prima che la figlia le possa dirle tutto quello che sente. E un rapporto irrisolto con un genitore è l’anticamera a una vita di problemi.
Ma per ora c‘è la musica e Sinead si sente pronta per un album tutto suo, ci crede, lo vuole fortemente. Non si può dire lo stesso della Ensign che invece ritiene le sue tracce ancora troppo strane, non definibili in un genere, e quindi poco adatte al mercato.
Per niente intimorita, la O’Connor sbatte i pugni sul tavolo e convince quelli dell’etichetta: The Lion and the Cobra, titolo dal chiaro riferimenti al Salmo 91 della Bibbia, esce il 4 novembre del 1987.
Si tratta di un esordio fulminante, che porta il nome dell’artista dublinese sulla bocca di tutti. Sinéad ha 20 anni, capelli rasati, occhi dolcissimi, look and attitude post-punk e una voce da brividi. Le sue canzoni sono tanto rabbiose quanto tenere e pure, come sussurri che sanno graffiare.
I temi del disco spaziano dalla spiritualità all’amore, dalla denuncia sociale all’introspezione più onesta e dolorosa. Le sonorità che attraversano il lavoro sono altrettanto vaste: si va dal punk-rock alle delicate ballate, dal folk al pop, dal funk alla canzone tradizionale irlandese più qualche accenno di world music.
Il disco viene unanimemente considerato come uno dei più promettenti debutti dell’anno, ottiene presto l’oro e Sinead viene nominata al Grammy per la migliore performance vocale femminile.
Nell’anno della consacrazione, Sinead trova anche l’amore e si sposa con il suo produttore, l’ex batterista John Reynolds, con cui avrà un figlio, Jake. Ma la storia fra i due finisce nel 1990 e, quando esce I Do Not Want What I Haven’t Got, il disco della consacrazione, si sono già lasciati, anche se continueranno a collaborare insieme per parecchio.
I Do Not Want What I Haven’t Got è un successo spaventoso, soprattutto grazie a una delle canzoni più programmate di sempre: Nothing compares 2U, scritta dall’artista che allora si chiama ancora Prince.
Il genio l’aveva composta e affidata ai Family nel 1985, che la inclusero nel loro unico disco , rivelatosi un flop. La O’Connor, dopo cinque anni, spinta dal suo manager, reinterpreta a suo modo il brano, altrimenti destinato a rimanere sconosciuto alle grandi platee.
Oltre alla bellezza della canzone, forte di una melodia che cattura, colpisce il riuscito videclip, che ritrae Sinead sempre con i capelli rasati, ma in una versione più dolce e femminile, che piange calde lacrime d’amore dai suoi grandi occhi da cerbiatta. Affermare sia uno dei cinque pezzi più iconici degli anni Novanta non credo sia un’esagerazione.
La voce melodiosa e il viso d’angelo non traggano comunque in inganno, la O’Connor resta un’artista che definire non facile è un eufemismo.
Scostante, intrattabile, lunatica, occhi di cervo litiga più o meno con tutti. Si scaglia contro gli U2, che accusa di gestire in modo mafioso la scena dublinese, strizza l’occhio a quelli dell’Ira, sogna un’Irlanda unita e fuma vagonate di marijuana guardando con interesse ai rasta e alla reggae music.
Sinéad sa anche essere generosa. Dona alla Croce Rossa la sua casa da 750mila dollari sulle colline di Hollywood, partecipa a numerosi appuntamenti umanitari e destinerà al popolo curdo il ricavato del mini-cd My Special Child.
Eppure vivere controcorrente sembra la sua filosofia e il capo rasato, in stridente contrasto con la tenerezza dei suoi occhi e la delicatezza dei suoi lineamenti, né è la manifestazione più fedele. Si narra che tagliarsi i capelli a zero sia il suo primo gesto di protesta contro le ingerenze dell’industria discografica che la vorrebbero più rassicurante, perché quello musicale è, parole sue, il peggior business con cui si possa avere a che fare.
Successi musicali e comportamenti sempre più incendiari si alternano con regolarità quasi scientifica. Più dischi vende più Sinead diventa ingestibile.
Dapprima declina l’invito a prendere parte al Saturday Night Live insieme al comico Andrew “Dice” Clay perché quest’ultimo, a suo dire, è uno xenofobo e antifemminista; poi si rifiuta di aprire il concerto al Garden State Arts Center del New Jersey interpretando l’inno americano, come tradizione imporrebbe, facendo infuriare anche Frank Sinatra, il quale dichiara che l‘avrebbe volentieri presa a calci nel culo.
Quindi boicotta i Grammy Awards del 1991, sostenendo che Mtv andrebbe abolita, perché la tv uccide l’arte e la poesia.
Infine, quando dopo lunga trattativa, finalmente accetta di intervenire al Saturday Night Live, da vita al suo gesto più celebre. Vestita di bianco, alcune candele sullo sfondo, una stola con i colori rasta poggiata sul microfono, Sinead interpreta a cappella una personalissima versione di War di Bob Marley, che conclude stracciando in diretta una foto di papa Giovanni Paolo II all’urlo: “Combatti il vero nemico”.
Diplomatico come una bomba a mano, il gesto della O’Connor è pensato per protestare contro la politica repressiva attuata dalla Chiesa cattolica nel suo paese.
Scende un silenzio spettrale in studio, tutti a chiedersi se l’abbia fatto veramente. E la risposta è sì, l’ha fatto davvero.
Scoppia un caos di proporzioni bibliche, la notizia in breve tempo fa il giro del mondo, portandosi appresso una serie di inevitabili conseguenze.
Appena qualche settimana più tardi, l’artista di Nothing Compares 2U non riesce ad esibirsi al Bob Dylan Tribute perché una folla impazzita le urla ogni genere di insulto. Sinead risponde intonando nuovamente le prime strofe di War quindi abbandona il palco.
Scandalo e riprovazione internazionale si abbattono sulla cantante, che viene etichettata come un’eretica squilibrata.
Con quel gesto, l’artista irlandese si fotte la carriera.
Alcuni mesi dopo il fattaccio al Saturday Night, esce Am I Not Your Girl, una raccolta di classici tratti dal repertorio di grandi stelle della musica. Le interpretazioni dei brani sono notevoli ma il successo, questa volta, non arriva.
Si apre un periodo duro per la cantante, stroncata dalla critica, odiata da moltitudini di detrattori e in preda a una cupa depressione.
Le presta soccorso Peter Gabriel, che la vuole con sé nel cast del Womad Tour, carovana itinerante della world-music, ideata proprio dall’ex-leader dei Genesis.
Nel 1994 esce Universal Mother, un disco che vuole rappresentare sia la pace con la sua Irlanda sia una confessione a cuore aperto in cui Sinead buttta fuori tutta la merda che ha accumulato dentro da quando è nata: i demoni, gli psicodrammi familiari, individuali, sociali e politici.
Ma anche questo disco, pur pregevole nelle intenzioni, si rivela commercialmente un mezzo flop, bocciato sia dalla critica che dal pubblico.
Alla disperata ricerca di un po‘ di affetto, Sinead convoglia a seconde nozze con il giornalista John Waters. Stavolta arriva la femmina, Rosin.
Negli anni seguenti, la ribelle irlandese sembra mantenere un basso profilo, recitando a teatro e suonando in piccoli club, quasi a volersi rifare una verginità artistica lontana dagli squali dello showbiz.
Ma non sta per niente bene, soprattutto psicologicamente. Si dice tenti addirittura il suicidio.
Torna nel 1997, con un EP intitolato The Gospel Oak, un lavoro struggente, doloroso e pieno di fantasmi.
Non se ne accorge quasi nessuno e allora lei scompare di nuovo, per altri tre anni.
È il momento di una nuova trasformazione per la problematica ragazza dublinese, che per un periodo sembra abbandonare la musica per dedicarsi a trovare una via per assecondare quella spiritualità dilagante che sente dentro ma verso la quale non è ancora riuscita a trovare una quadra. E allora si fa suora! Nel 2000 viene ordinata sacerdotessa della chiesa cattolica Latin Tridentine, non riconosciuta dal Vaticano, con il nome di suor Bernadette-Marie. Ottiene comunque dalla sua chiesa una dispensa speciale che le permette di non essere casta, che si sa il sesso a volte aiuta.
Inevitabile la nuova esposizione mediatica e lo sconcerto internazionale.
Dopo avere finalmente risolto una serie di controversie legali legate alla separazione dal marito John Waters, che l’accusa di negligenza nei confronti della figlia piccola, Sinéad torna a incidere musica pubblicando nel giugno del 2000 l’album Faith And Courage, primo disco di inediti da oltre 6 anni.
Fra influenze reggae, musica tradizionale irlandese e folk, Sinead affronta temi complessi quali la spiritualità, la fede, la politica e pure la sua complessa sessualità. E la prima a non avere le idee chiare è proprio lei: “Sono stata a letto con donne, ma sono molto più attratta dagli uomini”, dichiara a “Hot Press”.
“Sono lesbica, anche se finora ho avuto molte difficoltà ad accettarlo” rivela poco dopo a Curve.
Non che ce ne freghi qualcosa, comunque.
Sinead nel frattempo sposa il giornalista Nicholas Sommerland, ma si separa dopo poco.
Nel 2002 è la volta di Sean-Nos Nua, disco di reinterpretazioni di vecchi brani folk irlandesi. Anche stavolta il successo è misero.
Nel 2003, presta la voce ai Massive Attack per il brano 100th Window. Nello stesso anno annuncia che, dopo la pubblicazione del nuovo disco She Who Dwells In The Secret Place Of The Most High Shall Abide Under The Sahadow Of The Almighty (raccolta di inediti, live e rarità), abbandonerà la carriera musicale.
Non è di parola e soltanto due anni più tardi torna a calcare nuovamente le scene. Prima esce la raccolta, Collaborations, che raccoglie tutti i suoi duetti, e poi Throw Down Your Arms, un disco reggae registrato in Giamaica.
Nel 2004 la cantante dà alla luce il suo terzo figlio, Shane, avuto con il guru della musica folk irlandese Donal Lunny.
Nel 2006 ne arriva un quarto, Yeshua Francis Neil, il cui padre è il nuovo partner della cantante, tale Frank Bonadio.
Nel 2007 esce Theology, doppio disco d’inediti, e più che il disco fanno notizia le sue affermazioni da Oprah Winfrey, in cui afferma di aver tentato il suicidio nel 1999 e che qualche anno prima gli è stato diagnosticato un disturbo bipolare, dichiarazione che però poi smentisce.
Insomma dai tempi della foto stracciata del Papa, sia umanamente che professionalmente Sinead sembra non averne azzeccata una.
Con gli anni dieci però qualcosa cambia, c’è gran voglia di anni Novanta, c’è nostalgia per quel decennio pazzo che alla musica ha dato tanto, e la nostalgia, si sa, è brava a ereggere santini. In anni in cui di dischi se ne vendono sempre meno, i live degli artisti dei nineties tornano a essere molto seguiti, anche quelli di Sinead, che di quegli anni è stato uno dei volti più riconoscibili.
E allora eccola, volubile, instabile e graffiante come sempre portare in tour i suoi ultimi due album – How About I Be Me (And You Be You)? (2012) e I’m Not The Bossy, I’M The Boss (2014) – con grande successo nel mondo, Italia compresa.
Ovviamente anche quando tutto va bene lei deve scazzare, protestare, farsi male. E facebook non è certo d’aiuto quando hai la testa che ogni tanto parte per la tangente e la lingua sciolta.
Prima posta uno status in cui afferma che non canterà più Nothing Compares 2 U perché non la sente più sua, e non riesce a dare emozioni al brano.
Di ben altro tenore sono le dichiarazioni successive, che gettano i suoi fans in preda alla preoccupazione. Il 29 novembre 2015 sulla sua pagina Facebook la cantante scrive: “Le ultime due notti mi hanno distrutto. Ho preso un’overdose. Non c’è altro modo per ottenere rispetto. Non sono a casa, sono in un hotel da qualche parte in Irlanda, sotto un altro nome”. E poi aggiunge: “Finalmente vi siete sbarazzati di me”, lasciando intendere un possibile suicidio.
Per fortuna le cose rientrano ma solo per poco, l’8 agosto 2017 eccola pubblicare un video di 11 minuti sempre sulla sua pagina Facebook che fa il giro del mondo e letteralmente sciocca i suoi ammiratori: “Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata. Le malattie mentali sono come le droghe. Vivo in un motel nel New Jersey e sono da sola. E non c’è niente nella mia vita eccetto il mio psichiatra, la persona più dolce al mondo, che mi tiene in vita. Voglio che tutti sappiano cosa significa, e perché faccio questo video. Le malattie mentali sono come le droghe, sono uno stigma: all’improvviso tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te ti trattano male”.
Sembra il preambolo all’ennesima storia di una grande della musica destinata a finire male ma invece Sinead tiene botta, si riprende ed emerge dai fumi di una mente scombussolata grazie all’ennesima doccia spirituale. Convertita all’islam, la cantante cambia nuovamente il suo nome in Shuhada’ Davitt e, ci crediate o meno, per un po’ ritrova il sorriso. Il suo ultimo tour, terminato poco prima dell’inizio dell’emergenza coronavirus, l’ha vista suonare in tutta Europa con sold out quasi ovunque, e sorridente come poche volte la si è vista.
Ma Sinead non è nata per essere serena, evidentemente. Arriva la fibromialgia, dolorosa e invalidante, e poi la cosa peggiore che possa capitare a una madre: la morte di un figlio, con il terzogenito Shane che si suicida lo scorso anno.
Non si conoscono ancora le cause della scomparsa di Sinead ma quella del suicidio, o comunque di una morte accelerata dalla depressione, è un’ipotesi assai plausibile. E dispiace, dispiace immensamente.
Sinead O’ Connor è stata una delle voci più affascinanti degli anni Ottanta e Novanta, un’artista ispirata e visionaria, dalla spiccata personalità, e coerente fino alla morte alla sua incoerenza.
Matta come un cavallo, stralunata, difficile ma, questo è innegabile, capace di pizzicare le corde del cuore e farne melodia.
Riposa in pace, occhi di cervo.