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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Sia Fatta la tua volontà: Richard Romagnoli e il leone che si credeva una pecora

A un leoncino muore la mamma e resta solo. Un gruppo di pecore, impietosite, lo prendono con loro. Lui cresce, non sa di essere un leone, e soffre, é pieno di paure e non capisce perché. Un giorno un altro leone passa di lì per mangiarsi qualche pecora. E lo vede. Se ne sta immobile, intimorito, quasi paralizzato dalla paura.
“Ma che ci fai tu qui?” gli dice, e poi lo trascina fino a uno specchio d’acqua perché veda la sua immagine riflessa.
“Sei un leone, non una pecora”.
Il giovane leone si osserva a lungo, non assomiglia proprio alle pecore con cui é cresciuto ma a quel maestoso leone vicino a lui.
Da quel momento diventa consapevole di chi é e della propria forza. Non attaccherà mai le amiche pecore ma andrà per la sua strada, conscio della propria essenza.
Ho letto questa antica storia indiana nel bel libro “Era scritto nelle foglie del Destino” di Richard Romagnoli (Roi Edizioni) e l’ho trovata semplice e incisiva. Il coraggio di capire ed accettare chi siamo é l’unico modo per affrontare le nostre paure, le incertezze, i traumi del passato. E poi lasciarli andare, che le cose cambiano, lo fanno sempre. Dobbiamo abbandonare la convinzione che abbiamo capito tutto. Anche perché, magari, poi alla fine scopriamo che siamo stati convinti per una vita di essere pecore e invece siamo leoni.
Alla base di tutto c’é la consapevolezza di chi si é, dove si é, e infine la serena accettazione di quello che viene. Ancora Richard, nel suo libro racconta della preghiera-mantra che ripete dentro di sé a quel Dio/Energia dell’universo quando ha paura. Una frase sola, una frase semplice: “Sia fatta la tua volontà”, che vuol dire accetto quello che viene, cerco di padroneggiare al meglio le cose che posso padroneggiare, mi impegno per imparare il più possibile da quello che mi succede, e non mi preoccupo. Tanto quello che non é in mio potere cambiare non dipende da me.
“Sia fatta la tua volontà”. Un mantra potente, che racchiude il senso della vita, il mistero della fede e l’energia dell’universo.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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La scuola non serve a nulla

Valditara, Dante e l’Islam

Mie impressioni sulla faccenda trevigiana...

Vi sarà arrivata all’orecchio la polemica “Dante sì, Dante no” da Treviso, dove due studenti musulmani di terza classe di una Scuola Secondaria di 1° Grado (la Scuola Media) sarebbero stati “esentati” dal loro prof. dalle lezioni sulla Divina Commedia: essendo opera a sfondo religioso, non sarebbe stata in linea con la fede professata dai ragazzi.

Ma essendo ora per noi pure campagna elettorale, al Circo Togni della politica non è parso vero di potercisi tuffar dentro e attingere a piene mani alla zuppetta: il ministro Valditara ha disposto un’ispezione; la ministra Santanché, rinomata dantista, ha tuonato “La Commedia non è più divina, ma una farsa in nome dell’Islam. Continuiamo a sottometterci ai musulmani rinnegando la nostra cultura, la nostra storia, la nostra identità. Sicuramente tutti questi politicamente corretti Dante li avrebbe messi nel girone degli ignavi”; e il redivivo filologo veneto Zaia ha commentato che “è un’assurdità cancellare Dante. Ma dietro questo si nasconde un problema ancora più grande: l’integralismo”. Per quanto, anche nel PD si sono espressi dubbi, da parte di esponenti come Simona Malpezzi e Debora Serracchiani.

Sulla questione, i miei due centesimi solo per chiarire alcuni punti.

– pare che tutto sia nato da un eccesso di zelo del docente in questione, che avrebbe chiesto alle famiglie dei ragazzi il permesso di far loro studiare quest’opera, date le sue implicazioni religiose. Dal che mi vien da pensare: e cosa avrebbe dovuto fare il nostro nel caso ci si fosse accostati ad altre opere di uguale se non maggior preponderanza cattolica, da “I promessi Sposi”, all’ “Orlando Furioso”, per non parlare de “La Gerusalemme Liberata”? Si sarebbe fornito stesso modulo prestampato? La richiesta di tale autorizzazione, per quanto dettata da una forma sincera di rispetto, credo sia stato un errore;

– per questi ragazzi, il docente pare si sia peritato di sostituire la parte di Dante con un programma parallelo alternativo su Boccaccio. Che avrebbe potuto creare attriti culturali pure maggiori: “Desiderate che vostro figlio studi un’opera in cui tre ragazzi e dieci ragazze si appartano da soli in campagna a raccontarsi storielle licenziose?”, avrebbe dovuto recitare qui il modulo di richiesta;

– fermo restando questo punto, facile prevedere poi che in qualunque classe d’Italia con alunni musulmani, alla stessa richiesta avresti avuto risultati simili. Ho alunni di nazionalità marocchina, nati in Egitto, emigrati dalla Tunisia, i cui genitori raramente parlano italiano (o lo parlano ancora male, e sicuramente non è l’arabo l’italiano la lingua con cui si comunica in casa), e che non avrebbero potuto capire le sfumature insite in una tale richiesta (l’avrebbero vista come una semplice ingerenza religiosa);

– il docente ha comunque, secondo me, perso l’occasione per dedicarsi a quello che è il più alto magistero che l’istituzione scolastica possa attuare (e il più nobile compito per un docente): quello di provare a far comprendere il contesto di un testo, le radici sociali di un paese e la sua cultura (che per quanto imbevuta di una certa religione, può non coincidere con la confessione religiosa tout court); quello di educare al rispetto e all’incontro delle diverse specificità storico-culturali, e alla riflessione su quanto sia una fortuna e un’opportunità la presenza delle differenze. Difficilissimo, ma se la scuola cessa di provare a far questo, non è più scuola.

– non si capisce perché Dante si sia affrontato in terza media, visto che da che mondo è mondo lo si fa all’inizio della seconda;

– in virtù dell’autonomia scolastica e della scomparsa dei programmi, sono decenni che noi docenti decidiamo quali sono i testi più adatti per promuovere le competenze linguistiche (ma anche estetiche, personali, formative, dello “spirito”.. ), dei nostri diversissimi alunni. Insomma, da tempo operiamo scelte sui testi, per quanto restando in un alveo “tradizionale”, selezionandone alcuni e tralasciandone altri, visto che non si può far tutto. Compreso io: spesso mi è capitato di esonerare la parte di letteratura ad alunni cinesi appena arrivati in Italia, o agli alunni accolti dopo la loro fuga dall’Ucraina: era – credo – ragionevole, perché a malapena sapevano dire “Ciao”. Ecco, da qui la riflessione si sposta a come certi fatti vengono raccontati dai media al solo scopo di stuzzicare il ventre molle degli utenti in rete: bastava raccontarli un po’ diversamente, questi miei episodi testé raccontati, e con questi stessi, al centro della polemica nazionale di giornata avrei potuto esserci io!

In conclusione: mi pare che il governo, come per la questione del giorno di chiusura del Ramadan per la scuola di Pioltello, anche qui ignori o finga di ignorare (per poi scoprirlo d’improvviso), come funziona la scuola, le sue leggi, i suoi orientamenti normativi: al sol(it)o scopo di alimentare versioni pettinate o parziali – quando non false –  di fatti per darli meglio in pasto all’opinione pubblica; di modo che possa servire ad avvelenare ancor di più il clima, rafforzare l’idea dell’invasione e della “cancel culture” asfissiante, e sperare nel rituale incasso elettorale.

E tutto questo, banchettando allegramente su quel che rimane della scuola, delle sue scarse risorse, e del gesto di un prof. in buona fede ma forse solo un po’ incauto.

Che tristezza…

 

Che ne pensate? Per qualunque cosa vogliate dirmi riguardo ai miei articoli su questo Blog, dagli apprezzamenti, ai consigli, alle critiche fino agli insulti (questi ultimi però purché formulati rigorosamente in lingue antiche), scrivete a: antonellotaurino1@gmail.com .

 

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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Appunti sulla mondialità

La tecnica dei populismi

Tutti i populisti, anche se di segno politico diverso, presentano tratti in comune. Il primo, che da sempre spicca sugli altri, è l’attacco violento portato al rivale non solo sul piano politico ma anche, e soprattutto, su quello personale. Demolire l’avversario, accusarlo di essere corrotto o debole, anziano o poco avvenente, affermare che ha parentele o amicizie “pericolose”: fa tutto parte della retorica corrente dei populisti. Non importa, ovviamente, che le accuse di immoralità, di corruzione o di altri reati siano o meno fondate – anzi, spesso sono fake news di portata gigantesca – né che l’avversario mai si sognerebbe di compiere a sua volta attacchi che scendano sul piano dell’aspetto o della prestanza fisica. Invece Donald Trump può daredel “vecchio rimbambito” a Joe Biden, malgrado i suoi 77 anni abbondanti (e portati piuttosto male); Javier Milei seminare in pubblico sospetti sulla moglie del primo ministro spagnolo in base ad acclarate fake news; e Vladimir Putin affermare che le istituzioni ucraine sono in mano a una classe politica interamente nazista. Hitler, del resto, costruì la sua criminale ascesa politica “spiegando” che certi tratti somatici degli ebrei confermavano il loro essere colpevoli di tutti i mali della Germania. Venendo a noi, su un livello diverso e assai meno pericoloso, un certo comico italiano prestato alla politica iniziò il suo percorso dando del “nano pelato” o dello “psiconano” all’avversario.

Il populismo, infatti, non punta a vincere sul piano delle idee, come è normale in democrazia, ma si spinge ben oltre. Punta a demonizzare e demolire il pensiero avverso, ad attaccare fisicamente coloro i quali ostacolano un percorso che mira, in sostanza, a costruire un regime. Per questo l’offesa al rivale, l’attacco che ne prende di mira la fisicità o l’età, è tipico del fascismo. Che non cerca il confronto ma solo la prevaricazione, soprattutto con la forza, perché non considera il dissenso un diritto né tantomeno una voce da ascoltare per migliorare il proprio operato, ma lo interpreta come un atto d’insurrezione, una ribellione contro l’ordine che si vuole costruire. Chi è contrario, allora, è una zecca”, uno “scarafaggio”, un “ratto”.

Quanto pesino problematiche di salute mentale nel comportamento di diversi populisti è difficile da stabilire: il terreno è scivoloso, e non vorremmo rischiare di scendere sullo stesso piano. Quello che è evidente è che in tempi e scenari politici, culturali e politici diversi, l’insulto e la disinformazione funzionano sempre. E non soltanto perché i talk show televisivi sono una scuola di formazione che orienta al turpiloquio politico, “pollai” dove nessun tema viene mai approfondito e nessuna posizione espressa in modo da essere ben compresa: anche prima della comunicazione di massa moderna, quello della manipolazione del dibattito politico era un meccanismo ben oliato. Perciò, per ridurre i rischi, tra le regole auree di una vera democrazia ci devono essere la libertà di stampa e il rispetto delle idee di tutti. Rispetto perché è fondamentale mantenere il dibattito entro i limiti della civiltà, con toni che permettano di esprimersi e di capire; libertà di stampa perché i giornalisti hanno, o dovrebbero avere, il dovere di verificare le notizie e fare informazione corretta.

Nel 2023 sono stati uccisi nel mondo 99 giornalisti: tentavano di raccontare l’economia dei narcos in Messico, le violazioni dei diritti umani nelle Filippine e soprattutto le conseguenze dell’intervento militare israeliano a Gaza. La buona notizia potrebbe essere che per la prima volta da tanti anni la Russia non compare in questo elenco, ma ciò accade perché non sono rimasti più giornalisti da eliminare, dopo le purghe degli anni scorsi e le fughe all’estero. Lo specchio da osservare per provare a immaginare un mondo governato dai populisti, senza più stampa libera, lo offre proprio la Russia di Putin, dove è vietato pronunciare la parola guerra e si rimodella il passato fino a renderlo mitologico, dove chi critica il potere e il capo è un essere “decadente e degenerato” al soldo dell’Occidente.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

La bandiera della cura

Son cent’anni dall’assassinio di Matteotti e governa la destra. Di De Gasperi ricorre l’80°; del centro che guarda a sinistra però non ci sono eredi: solo omini che boccheggiano sul 4 per cento. Il divorzio è sancito da 50 anni, ma i diritti civili di cui quel referendum fu capofila irritano il potere. In milioni salutarono Berlinguer 40 anni fa; la Schlein lo mette sulla tessera d’un Pd che dell’incontro cattolici-sinistre fa bilancino tra correnti. Cultura e politica che furon sangue e anima della Costituzione han bandiere da esporre con orgoglio. La destra che comanda no. A meno che il 10 agosto qualcuno non voglia celebrare gli 80 anni da quando 15 partigiani per ordine del comando nazista vennero fucilati in Piazzale Loreto a Milano da militi della Ettore Muti, RSI, cioè Mussolini “statista” secondo un generale candidato Lega alle Europee. Eppure la destra dai vessilli posti in cantina o mandati in tintoria se qualche esponente cerca di assolvere le SS (l’AfD tedesca «ha passato il limite» pure per Le Pen e Salvini: toh!) governa in Italia e vuol ribaltare le alleanze in Europa. FdI lo proclama: portare a Bruxelles il modello Meloni: premierato; nuovo Patto di Varsavia nel contrasto ai diritti (tutti a Est i Paesi che con Roma non han firmato contro l’omofobia); blocco sociale cementato da condoni (ultimo la casa dopo altri 18), no redditometro, disinformatia: dar colpa di incapacità, inadeguatezze, miserie proprie ad altri: chi è venuto prima, migranti, sinistra, poteri forti. Il cantante Ultimo 28 anni a Aldo Cazzullo sul Corriere ha detto: «Non conosco coetanei che votino o vadano in chiesa. Essere giovani è tremendo». Ma ha precisato che lui si cura, va in analisi, sente «una gran fede dentro», crede «nelle energie […] in quelle che Jung chiamava sincronicità: come incontrare la persona giusta al momento giusto». Dobbiamo proprio tornare a sperare, ritrovare la cura, farne bandiera. Il Covid non è passato, crediamo ancora d’esser noi sani in un mondo malato. Non porta voti dire da Vespa “se non cambiamo noi il mondo continua ad andar male”; anzi Meloni ammicca ai novax per un po’ di voti. Ma curarsi è la via. Convinciamoci tutti! Impopolare? La politica è servizio.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

Il green nichelato

Nella storia della monetazione il nichel è sempre stato importante: basti pensare al nichelino statunitense, in inglese semplicemente nickel, equivalente a cinque centesimi di dollaro, o al nichelino del Regno d’Italia, equivalente a 20 centesimi di lira, e quindi di poco valore. Come componente di leghe metalliche più o meno complesse, il nichel è presente anche in diverse monete moderne, incluse quelle da uno e due euro. Ma questo elemento ha trovato anche una seconda vita, che riguarda le batterie, da quando l’accumulatore nichel-cadmio ha rivoluzionato la durata delle pile di ogni dimensione. Per questo, un minerale storicamente “povero” è diventato un bene ambito, soprattutto da parte di chi controlla quasi tutti i minerali-chiave per la transizione energetica e per il funzionamento dei device del mondo digitale. Stiamo parlando della Cina. Pechino ormai esercita una posizione di monopolio sia sulle terre rare, ne controlla più o meno direttamente oltre l’80% del mercato globale, sia sul litio pronto all’uso per le batterie delle auto, di cui commercializza quasi il 90%. Ora vuole aggiungere il nichel, e lo fa attraverso una joint venture che vede in prima fila l’Indonesia. In questo grande Paese asiatico, che fino a poco tempo fa deteneva solo il 5% del mercato mondiale del nichel, la Cina ha iniettato 30 miliardi di dollari in investimenti diretti, oltre a trasferire tecnologia, per estrarre e raffinare nichel a un prezzo che nessun altro concorrente può eguagliare. Il risultato è che nel 2023 la quota dell’Indonesia sul mercato mondiale è balzata al 55% ed è destinata ad aumentare ancora, perché diversi giganti dell’industria mineraria stanno chiudendo impianti in Brasile e Australia, divenuti non più concorrenziali.

Insieme a LG e Hyundai, l’Indonesia si sta preparando all’apertura della sua prima megafactory, termine coniato da Elon Musk per indicare le fabbriche di dimensioni gigantesche pensate esclusivamente per fabbricare batterie. Ne sono previste altre tre. Intanto, per aumentare l’estrazione di nichel si scavano nuove miniere radendo al suolo intere foreste e per lavorare il minerale si adotta una tecnica basata sull’uso dell’acido solforico a temperature elevatissime, raggiunte con energia ricavata dal carbone. Ed è così che il nichel si va ad aggiungere alla schiera di materie prime vitali per l’economia green, come le terre rare, il litio e il cobalto, ottenute attraverso devastazioni ambientali e lavorate con energia ricavata dalla combustione di carbone, immettendo in atmosfera quantità enormi di anidride carbonica. Per non parlare delle condizioni in cui lavorano minatori e operai: a dicembre una fabbrica indonesiana di proprietà cinese è saltata in aria causando 13 vittime e decine di feriti, e non si tratta di un caso isolato.

Per la Cina l’operazione indonesiana è un nuovo tassello che si inserisce in una strategia precisa, che punta a controllare la transizione energetica da una posizione di forza, anzi, da quasi monopolista. Il paradosso oggi è che i Paesi che vogliono fare seri sforzi per riconvertire il loro parco automotore o per produrre energie rinnovabili devono per forza rifornirsi dalla Cina e dai suoi soci d’affari, acquistando beni ottenuti in violazione di ogni principio di salute ambientale e di rispetto dei diritti dei lavoratori. La cecità che colpì l’Occidente quando Pechino in solitaria si insediava in Paesi poverissimi e dimenticati da tutti, ma che nelle loro viscere celavano materiali destinati a diventare strategici, oggi si paga a carissimo prezzo. Soprattutto, resta sempre d’attualità la ricerca di alternative ai combustibili fossili che non si limitino semplicemente a delocalizzare il problema dell’inquinamento. Ecco perché parlare di rivoluzione green è prematuro, e lo sarà finché dovremo dipendere dai metodi predatori e devastanti con i quali si ricavano e lavorano i minerali che ci permettono di fingere di aver fatto un grande passo in avanti. Per molti aspetti, anche se fortunatamente non per tutti, siamo ancora alla linea di partenza.

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