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Mia cara Olympe

Dobbiamo gratitudine alla famiglia Cecchettin

Dobbiamo molta gratitudine alla famiglia di Giulia Cecchettin, a suo padre, a sua sorella Elena, a suo fratello Davide. Gratitudine  sincera, perché ci hanno mostrato, in questo lungo, drammatico tempo trascorso tra  la scomparsa di Giulia e i suoi funerali, come si può essere e sentirsi cittadini e cittadine, ovvero parte pensante, attiva, critica di una comunità in ogni momento, anche il più doloroso, della propria vita. E come si può lasciare un segno pubblico, politico, duraturo di un dolore privato.

Dobbiamo gratitudine ad Elena, che ha rotto lo stereotipo che vuole il lutto silente, per dire che la morte di Giulia è un femminicidio, che ha per retroterra una cultura sistemica e una diseguaglianza feroce: opera non di ‘mostri’ ma di ‘bravi ragazzi’ – come Filippo Turetta, reo confesso ora in carcere. Una cultura diffusa che ha per obiettivo la libertà delle donne, proprio quella esercitata da Giulia lasciando il fidanzato ossessivo e possessivo. La voce di Elena ha risuonato forte, è stata ascoltata, ha motivato ad andare in piazza il 25 novembre ed è entrata in un discorso pubblico che, nelle ultime settimane, ha registrato uno scatto di consapevolezza e ha squadernato sul tavolo tanti temi: la questione maschile, l’educazione all’affettività, la prevenzione, la tutela delle donne, il racconto sui media della violenza di genere.

Dobbiamo gratitudine a Gino Cecchettin, alle parole che ha saputo trovare oggi, giorno dell’addio più straziante che non solo un genitore, ma un qualunque adulto può immaginare: il saluto a una giovane figlia, a una giovane donna piena di vita e di desideri. Anche lui ha rotto lo schema con cui spesso i media dipingono i familiari delle vittime di morte violenta, stretti nell’unica tagliola di un “perdono” da concedere o negare. Gino Cecchettin si è tenuto lontano da tutto questo ed è stato capace di un discorso pieno di amore e dolore per sua figlia e di lucidità sul contesto in cui la sua morte si colloca, sulle responsabilità degli uomini e dei decisori politici. E non ha dimenticato la speranza che tutto questo dolore possa servire a noi tutti, in questo paese, per realizzare un disegno di convivenza  tra uomini e donne più giusto e più eguale.

Dobbiamo gratitudine infine anche al silenzio di Davide, giovanissimo fratello di Giulia: lo abbiamo visto ascoltare suo padre stringendosi ad Elena, l’unica sorella che gli è rimasta. E il loro abbraccio ci ha ricordato quanto è importante volersi bene e potersi abbracciare quando si soffre la perdita.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Appunti sulla mondialità

In Olanda vince la paura del cambiamento

In Olanda, dalle urne è uscito vincitore il PVV di Geert Wilders, un partito presentato dai media internazionali come islamofobo. Wilders ha promesso di “restituire l’Olanda agli olandesi”, come se il Paese fosse stato invaso da una potenza straniera. La centralità attribuita a questo tema, che si inserisce nella logica della cosiddetta sostituzione etnica, racconta però molte altre cose. Le società europee si sono forgiate nei secoli attorno all’idea-forza dello Stato-nazione, nel quale esistono una cultura ufficiale, una religione e un gruppo etnico egemone, vero o falso che sia. Non esiste Paese con un passato coloniale che non consideri queste tre caratteristiche come essenziali e indiscutibili. Dalla Francia repubblicana che già nell’Ottocento “appianò” le diversità interne, alla Germania che fece tragicamente la sua pulizia etnica nel XX secolo. In Spagna, Paese che già ha sperimentato il nazionalismo franchista, ma che rimane un contenitore di diverse culture e nazionalità, oggi forti movimenti di estrema destra vorrebbero eliminare le autonomie e le lingue locali in nome dell’ispanità.

La paura del cosiddetto “pericolo islamico” è un fenomeno più recente, ed è collegata ai flussi migratori (che, per la verità, spesso sono iniziati per volontà degli stessi Paesi ricettori, nel secondo dopoguerra). Secondo gli imprenditori della paura che condizionano l’opinione pubblica, in Europa si starebbe formando una sorta di califfato, ostile alla storia e alla cultura dei Paesi ospitanti, che ambisce a conquistare il potere. In questa teoria si tralasciano molti elementi di realtà, a partire dal fatto che la religione musulmana è al tempo stesso minoritaria e fortemente resiliente: non ha bisogno di alimentarsi con flussi migratori né di diventare egemone per continuare a tramandarsi anche in contesti diversi da quelli d’origine. Soltanto nelle Americhe tra gli immigrati di religione islamica si è verificato un distanziamento culturale rispetto alle origini. In Europa, entrambi i principali modelli di gestione della società moderna post-coloniale, quello multiculturale britannico e quello assimilazionista francese, hanno fallito. Le cause non riguardano la religione. Per comprenderlo basta tornare sull’esempio americano: là esistono ampie possibilità di affermazione sociale per gli immigrati, mentre in Europa non solo i migranti ma anche le “seconde generazioni” sono spesso condannate ai ghetti urbani, ai lavori subalterni, a un’educazione di serie B, alle discriminazioni quotidiane, al fastidio per l’esibizione dei sentimenti e dei simboli religiosi. La “guerra del velo” che la Francia ha intrapreso a più tornate ha finito per produrre effetti contrari rispetto alle intenzioni. Pensata per eliminare le discriminazioni, è diventata invece fonte di discriminazione per chi, ovviamente in modo libero, sceglie un certo tipo di abbigliamento. È il frutto di quella stessa idea di superiorità dei propri valori che accompagnò, e giustificò, il colonialismo. La cultura europea era ritenuta superiore quando si colonizzavano l’Africa, l’Asia o l’Oceania, e oggi nelle nostre metropoli si predica una sola e indiscutibile concezione dei diritti e delle libertà.

I politici come Wilders sono molto abili nel sottolineare l’apparenza per non dovere affrontare la sostanza. Una sostanza che non è fatta di dispute teologiche, ma di cose concrete, come la possibilità di studiare in scuole di buon livello, di avere un lavoro decente, di non essere costretti a inviare, come in Francia, un curriculum vitae “cieco”, cioè senza nome, cognome e foto, per evitare discriminazioni nella ricerca di occupazione. Che poi la rabbia di chi è discriminato e relegato ai margini della società determini un ritorno alla religione, magari nelle sue forme più radicali, è solo una conseguenza, e non la questione centrale. Davanti al calo demografico generalizzato e all’invecchiamento della popolazione, da una parte l’Europa sa perfettamente che, senza ricorrere all’immigrazione, tra 10 o 20 anni non avrà futuro; dall’altra, gli europei stanno esercitando il diritto al voto come una clava. Ma, al di là delle polemiche, è solo una questione di tempo: non è facile, per chi è stato per secoli al centro del mondo, accettare l’idea che per poter mantenere lo status quo occorra chiedere aiuto proprio a quelle popolazioni a lungo denigrate.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

In ricordo di Shane MacGowan, il santo bevitore dei Pogues

Notizia orribile. Saputo ora. Shane MacGowan ci ha lasciato. Avrebbe compiuto sessantasei anni il giorno di natale. A stroncarlo una rara forma di encefalite virale, un’infiammazione del cervello che ha avuto vita facile in un corpo distrutto dagli abusi e in sedia a rotelle da otto anni per una rovinosa caduta che gli ha fratturato il bacino.
Il frontman matto dei Pogues è uno di quei personaggi difficili da raccontare in poche righe. Parliamo di carne, sangue e whisky che si mescolano nella stessa tazza per la zuppa, un sogno alcolico vestito di poesia che incendia i cuori dei figli del pub da quasi quarant’anni.
Nasce il giorno di Natale del 1957 a Tunbridge Wells, in Inghilterra. I suoi genitori, fieramente Irish, sono lì in vacanza da alcuni parenti.
I Mac Gowan vivono in una fattoria della contea di Tipperary, in Irlanda, con Shane che cresce circondato da uno stuolo di parenti, come nella migliore tradizione contadina. Alcuni sono davvero bizzarri, come la zia Nora, la più religiosa della famiglia. La signora ha uno strano modo di insegnare il catechismo al nipote: gli fa bere birra e sigarette fino a stordirlo e poi lo indottrina con la religione. Per un periodo sarà quella la sacra triade del piccolo Shane: alcool, tabacco e fede, tant’è che valuta anche l’idea di farsi prete. Poi la fede verrà sostituita dalla musica.
Un altro personaggione da romanzo è il taciturno zio John, che dice solo “fuck” ed è solito portarsi quel nipotino al pub a bere con lui dopo il faticoso lavoro nei campi.
“Mi mettevano sul tavolo per cantare qualche canzone” ha ricordato Shane “avrò avuto tre, quattro anni. All’inizio ero intimidito ma poi cominciai a sentirmi a mio agio, e tutti mi dicevano che ero bravo. Si può dire che realizzai di essere un grande già in tenera età”.
Un grande tanto a cantare quanto a bere alcolici, visto che tracannare birra e poi whisky è un rito che inizia prima ancora di andare a scuola. E non è il solo fra i ragazzetti della zona. C’è un detto fra gli uomini di Tipperary che spiega meglio di mille discorsi come la si pensa sul dare alcolici ai bambini: “Beh, se gliene dai abbastanza quando sono giovani non esagereranno da grandi”.
Quando Shane compie sei anni, la famiglia si trasferisce a Londra e lui ne soffre tantissimo.
Nella capitale inglese cresce ribelle e confuso, come tutte le persone autentiche. E subisce episodi di bullismo, perché per certi beceri inglesotti gli irlandesi stanno una spanna sotto, sempre e comunque, soprattutto in quegli anni politicamente così tesi. Quell’odio, quasi razziale, ha un solo effetto sul giovane MacGowan: consolidare ancor più l’orgoglio di essere irlandese. Ma la vita è sempre complicata, i genitori a casa litigano, mamma soffre di depressione e lui fatica a ritagliarsi un proprio posto in quell’angolo di mondo bagnato dal Tamigi. Per consolarsi, oltre all’onnipresente alcool arrivano le pillole e i viaggi con gli acidi. Quando ci aggiunge anche gli psicofarmaci che rubacchia alla madre, Shane va fuori di testa e finisce in un centro di igiene mentale dove rimane quasi sei mesi.
Ripulito dalle psico-porcherie, ritorna in tempo per i Sex Pistols, che vede dal vivo nel 1976. Folgorato sulla via del punk, inizia a frequentare assiduamente la scena londinese. Piccolo particolare: ci ha dato un taglio con acidi e pillole ma continua a bere come una spugna.
Sempre in quell’anno, mentre assiste a un concerto dei Clash completamente ubriaco, cerca di baciare una ragazza che gli addenta l’orecchio con un morso. Il giovane MacGowan rotola a terra e inizia a perdere sangue. Un giornalista assiste all’accaduto e scatta una foto. Quell’immagine capeggerà sul giornale del giorno dopo sotto al titolo, inequivocabilmente punk: “Cannibalismo al concerto dei Clash”.
Ma non esistono solo le birre e i concerti. L’inquieto Shane è un tipo sensibile e complesso che ama la poesia, il disegno, le vite complesse degli underdogs, il tratteggiare gli aspetti più nascosti dell’esistenza. In quegli anni giovanili così veloci e tormentati non sta fermo un momento. Infatti, quando non viene azzannato dalle ragazze, lavora al Rocks Off, un celebre negozio di dischi sulla Hanwey Street, proprio a due passi del Virgin Megastore, cura una fanzine di sua creazione chiamata Bondage e milita nei Nipple Erectors – che più o meno vuol dire “inturgiditori di capezzoli” – un gruppo punk che forma con la bassista Shanne Bradley.
“Gli feci un’audizione nel mio monolocale sulla Stavordale Road. Stavo cercando un frontman” racconterà Shane anni dopo “Non appena entrò nella stanza iniziò a tuffarsi e rotolarsi sulle lenzuola di lino da quattro soldi, urlando come un pazzo: stava facendo una sua personale rivisitazione degli Stooges. Mi è bastato questo per capire che era la persona giusta”
Dopo l’uscita del primo singolo, King Of The Bop (1976), il gruppo cambia nome nel più accettabile The Nips e registra altri tre singoli.
La formazione è tutto fuorché stabile, per un periodo alla batteria siede anche Jon Moss, prima di accasarsi con i Culture Club e vendere milioni di copie insieme a Boy George.
I Nips smettono di suonare sotto questo nome alla fine del 1980; della loro gloriosa storia resta un album dal vivo, Only The End Of The Beginning, e l’orgoglio di aver aperto gli show di gruppi mitici quali Jam e Clash.
Nello stesso periodo in cui milita nei The Nips, Shane suona la chitarra anche in un altro gruppo punk, The Millwall Chainsaws, in cui si alterna alla voce con Peter Stacy, un tipo tosto originario di Eastbourne che tutti chiamano Spider. Altri musicisti che gravitano intorno alle due band in cui è impegnato MacGowan sono Jem Finer – un amico di Shane che suona banjo, mandolino, sassofono e ghironda – e l’aspirante scrittore Jamer Fearnley, che invece se la cava discretamente con chitarra, fisarmonica, pianoforte e mandolino. Poi c’è il percussionista Andrew Ranken, che abita vicino a Shane e anni dopo, si dice, vivrà una turbolenta relazione con una giovane e inquieta Courtney Love. Il basso invece lo imbraccia Cait O’Riordan, bionda diciassettenne irlandese, che incontra Shane al negozio di dischi dove lavora. È più o meno questa la formazione embrionale dei Pogues, perlomeno dal 1982, perché prima la line up cambia spesso, esattamente come il loro nome. Saranno prima i The New Republicans, poi i Pogue Mahone e solo alla fine arriverà il nome della leggenda: The Pogues.
Il loro stile? Una mescola di musica tradizionale irlandese, poesia, folk e rock n’roll, il tutto benedetto da un’attitudine punk ubriaca.
La prima canzone dei Pogues – Streams of Whisky – MacGowan la scrive dopo essersi sgolato una bottiglia di sidro nel suo appartamento a King’s Cross. Ne seguiranno tante altre, ispirate e bellissime. Come incredibili sono i loro concerti: allegri ma anche brutali, sudati e fradici di birra, conditi tanto dai baci sulla bocca quanto da risse, denti che saltano, balli selvaggi e abbracci fraterni. D’altronde di questo parlano molte delle canzoni del gruppo: della vita, delle sue amarezze, delle difficoltà da annegare nell’alcool, ma anche e soprattutto della luce che filtra dalle cicatrici. Non sorprende che Joe Strummer abbia definito MacGowan come “un poeta visionario, probabilmente il più raffinato scrittore di questo secolo”.
Shane rimane con la band dal 1982 al 1991, realizzando cinque dischi e due EP che vendono tantissimo, rivoluzionano il modo di approcciarsi al folk e trasformano i Pogues in un gruppo di culto assoluto.
Sono loro, per dire, insieme alla cantante Kristy Macall, a realizzare Fairytale in New York, una delle canzoni di natale più famose, amare e discusse della storia della musica. Il pezzo racconta la storia di un migrante irlandese chiuso in una cella di New York a seguito di una sbornia che inizia a sognare a occhi aperti la sua donna, con cui ha litigato proprio alla vigilia, per via dell’alcool e dei suoi problemi con la droga. Musicalmente la violenta lite dei due ex innamorati doveva essere un duetto tra Shane MacGowan e Cait O’Riordan ma la bassista lascia il gruppo nel 1986 per sposare Elvis Costello, che tra l’altro ha prodotto i due precedenti album della band prima di litigare con Shane ed essere allontanato. Steve Lillywhite, il produttore subentrato a Costello, chiede allora a sua moglie Kirsty MacColl di registrare una traccia vocale in modo da utilizzarla come linea guida per le prove. La voce della MacColl colpisce cosi tanto i Pogues che la vogliono in studio per cantare la versione definitiva della canzone. Il successo del tormentato brano è senza precedenti: Fairytale in New York diventa la canzone di maggior successo dei Pogues e trascina l’album “If I Should Fall from Grace with God” fino alla terza posizione della chart inglese e nella top ten in tanti altri paesi, inclusi gli Stati Uniti.
Il cuore, la passione, il raccontare la sofferenza e le difficoltà della vita senza piangersi addosso e risultando credibili sono sempre più la cifra stilistica dei Pogues, come quando reinterpretano a loro modo Dirty Old Town, il celebre brano datato 1949 del cantastorie inglese Ewan Macoll
“È una delle mia canzoni preferite da quando avevo 16 anni” mi racconta il musicista basco Tonino Carotone, uno che con Shane ha non poche cose in comune “si tratta di un pezzo triste, profondo e caldo che ti da forza, come sanno fare solo gli inni popolari”.
Il resto lo fa la leggenda di MacGowan, il poeta ubriaco che sul palco fa cose pazze, ha perso i denti davanti chissà come, vive una vita sull’orlo del baratro ma è capace di spremersi l’anima davanti al pubblico fino a far gocciolare l’ultima emozione.
Ironico, confuso, passionale e brutalmente onesto.
“Un’adorabile testa matta a cui si finisce per perdonare tutto, o quasi”. È così che lo descrive la giovane scrittrice Victoria Mary Clarke in una lunga serie di interviste che poi finiscono nel libro A Drink with Shane McGowan (edito in Italia dagli amici di Tsunami). Incontri attraversati dal dardo di Cupido, visto che i due si mettono insieme e, dopo molti anni di convivenza, convoleranno a nozze.
I giorni di Shane con i The Pogues terminano nel novembre 1991 durante un tour in Giappone. La motivazione? MacGowan è ingestibile: ogni notte si temono disastri, ritardi, la paura che non riesca a raggiungere il palco è una costante, senza scordare le rovinose cadute, le liti da ubriaco, i denti in bocca sempre di meno e i chili intorno alla vita sempre di più. La verità è che Shane sta male, soffre un esaurimento nervoso dietro l’altro, patisce nel passare oltre trecento giorni in tour per cavalcare l’onda lunga della fama e, soprattutto, mal digerisce il successo di Fairytale in New York, che ha trasformato i Pogues proprio in quello che la band all’inizio non voleva essere: il tipico gruppo rock commerciale.
Quel pomeriggio in Giappone i compagni lo convocano in una stanza del Pan Pacific Hotel di Yokohama, dove sono alloggiati. La sera stessa devono esibirsi al Womad, il festival itinerante organizzato da Peter Gabriel.
“Tutto bene?” esordisce Shane appena mette piede nella stanza. Nessuno risponde. I suoi capelli sono sporchi, la barba sfatta, il viso pallido, per nulla illuminato dal bavaglino di collane, perline e talismani appeso al collo. Anche il suo odore non è dei migliori, d’altronde indossa la stessa t-shirt nera da due settimane.
Non si scompone quando gli viene comunicato che lo vogliono tutti fuori dalla band.
“’Siete stati tutti molto pazienti con me’” ci disse. Poi esplose a ridere, lasciando che l’aria passasse nei buchi dove una volta c’erano i suoi denti, e concluse: ‘Come mai ci avete messo così tanto?’” racconta James Fearnley nel suo libro “Here Comes Everybody”.
Dopo l’uscita dal gruppo, seppur intraprendendo un percorso professionale frammentario e accidentato, MacGowan realizza cose pregevoli, spendendosi in duetti e featuring vari – memorabile la versione di What A Wonderful World realizzata insieme a Nick Cave – ma faticando a portare avanti progetti più lunghi e articolati. Tra visioni abbozzate e collaborazioni, arriva un disco solista nel 1994 – The Snake, dove appare crocifisso in copertina – e una nuova band per accompagnarlo, che ironicamente chiama The Popes. Disco ispirato e sottovaluto, tra l’altro, con l’amico Johnny Depp a suonare la chitarra in That Woman’s Got Me Drinking, secondo singolo estratto dalla raccolta.
Tre anni dopo arriva un nuovo album con i The Popes, The Crock of Gold, poi basta. All’alcol si è aggiunta l’eroina a inibire vita e creatività di Shane: impensabile realizzare nuove canzoni o, ancor peggio, cantarle su un palco.
Nel 2001, l’amica di una vita Sinead O’ Connor arriva a denunciarlo alla polizia inglese per possesso di eroina nella speranza che l’arresto possa salvarlo dal baratro in cui è precipitato. Qualche anno dopo, passata tanto la scimmia quanto l’incazzatura, Shane la ringrazierà pubblicamente.
Disintossicato dall’eroina ma non dall’alcol, eccolo tornare sul palco con i Pogues nel 2001 per una serie di concerti, che si ripeteranno abbastanza fedelmente negli anni fino al 2014, regalando, ai tanti che se l’erano persa, l’esperienza di vedere il gruppo dal vivo.
Anche alla voce “dentatura” le cose sono migliorate. Dopo anni da sdentato – l’ultimo dei suoi denti naturali era caduto nel 2008, stroncato dalla solitudine – nel 2015 Shane si è finalmente fatto rimettere in sesto la bocca, sottoponendosi a una procedura di nove ore, con otto impianti in titanio incastonati nelle mascelle più un dente d’oro, quest’ultimo inserito per puro sfizio. La procedura è stata oggetto di un programma televisivo intitolato Shane MacGowan: A Wreck Reborn.
Ma la notizia più ghiotta, dal mondo del figlio ubriaco d’Irlanda, è arrivata qualche mese dopo, proprio all’inizio della pandemia da Coronavirus, un annuncio che quasi nessuno si aspettava: Shane si sarebbe messo al lavoro su un nuovo disco d’inediti con la band dei Cronin, dei fratelli Mick e Johnny Cronin.
E intanto è uscito Crock of Gold: a Few Rounds with Shane MacGowan, il tanto atteso documentario prodotto da Johnny Depp. Uscito nel dicembre 2020 per la regia di Julian Temple, il film è un commovente quanto esilarante ritratto dove il leader dei Pogues emerge in tutta la sua autentica quanto imperfetta bellezza.
È quasi come se ci fosse qualcosa di profetico nella carriera di MacGowan. All’inizio di “Crock of Gold”, infatti, Shane candidamente racconta di essere assolutamente certo che il Padreterno l’abbia scelto da bambino per salvare il folk irlandese. E quando una voce fuori campo gli chiede perché mai l’avrebbe fatto, eccolo confezionare una risposta che sono certo diventerà una maglietta assai venduta nei tanti shop per turisti da Dublino a Galway: “Perché Dio è irlandese”.
E invece non arriverà più alcun disco, libro o show. Shane è salpato per il paradiso dei poeti, dei figli di Dio nati senza pelle, dei peccatori dal cuore grande.
Caro Shane, ti onoreremo col vino. Con la poesia.
Emozioni crude e vita.
Bicchieri rotti e risa.
Imperfezioni incoronate nella terra dei giusti,
Ciao meraviglioso pazzo scatenato irlandese…

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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L'Ambrosiano

Nemici

Il Sindaco di Firenze ha chiesto ai concittadini di esporre alle finestre la bandiera d’Europa per accogliere domenica Matteo Salvini, Geert Wilders leader dell’estrema destra olandese e Marine Le Pen. Nardella mette le mani avanti e fa una scelta di campo. Anticipa le distanze rispetto a eventuali gesti d’intolleranza che l’iniziativa del leader della Lega può innescare. Il vice Meloni è maestro di provocazioni. È fatto così ed esprime un governo che vive di attacchi a sagome di nemici, frittate rivoltate, social, smemoratezze, afasie. Proiettare le proprie inadeguatezze su altri e predecessori, ordire campagne di distrazione di massa, lotte interne per voti o scranni sono esperienze di premierato Meloni, ultradestra post repubblichina, Carroccio post bossiano, evanescenza post berlusconiana. Comunque conta la politica cui Nardella si ispira: Firenze di La Pira e don Milani, Europa di David Sassoli, il sogno di Altiero Spinelli, dei democratici ch’han lavorato per Bruxelles e Strasburgo e lavorano a “lo Stato Europa” per dirla con l’ultimo Draghi. Alla formazione continua di tale realtà l’Italia che con l’Europa ha sconfitto il nazifascismo contribuisce con la Costituzione, art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Ripudiare la categoria stessa di nemico (questo è il clou del testo) è cardine di umano, convivenza. La guerra tra Stati e popoli, o di gruppi terroristici nasce quando si ritiene l’altro un nemico: migrante, nero, ebreo, musulmano, cristiano, donna (sì, i femminicidi son da collocare qui!). Ma nemici non si nasce. Il nemico lo si costruisce con cultura, interessi, potere. Politici, partiti, governi possono far propaganda, favorire appartenenze e categorie con privilegi e condoni, ignorare poveri ed emarginati, intimidire sindacati, magistrati, giornalisti, occupare i social, impossessarsi dei media, incensarsi con inni tipo «Noi je dimo e n’je catamo / Che più semo e mejo stamo!». Le bandiere d’Europa alle finestre di Firenze sono un gran poster monito di civiltà, fiducia, speranza: «Qui non si costruiscono nemici». Colonna sonora: Beethoven, il coro, l’Inno alla gioia!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Rumore, vita, riscatto

Il minuto di silenzio per Giulia convertito in rumore rivela l’ineludibile necessità di disporsi a un cambiamento: individui e comunità-Paese. Forse da adulti stiamo sbagliando nel sorprenderci e disquisire sull’iniziativa di Elena sorella di Giulia che ragazze e ragazzi han fatto invece propria. Il silenzio è sconfitta, capitolazione all’ineluttabilità del male, rassegnazione come non potessimo far niente tanto accadrà ancora; è resa a una visione dell’umanità senza riscatto, riabilitazione, redenzione; il silenzio è Ombra che risucchia, non ha futuro. Il rumore è rivoluzionario: sembra caos, indifferenziazione, babele; ma dissonanze e acuti son premesse d’un possibile concerto. Lo intuì Fellini in Prova d’orchestra (1979) film profetico: non capito a sinistra. È l’apologo d’una società in cui se da egoisti ci limitiamo a trarre il suono dal nostro strumento, se puntiamo tutto su di noi (la prestazione per consensi, plauso, vantaggi) non c’accorgiamo del nuovo che travolge autoriferimenti personali, appartenenze, interessi. Se invece affiniamo suoni, maestria di ciascuno, ci accordiamo siamo sinfonia. Dopo Giulia educare all’affettività come risposta all’intollerabile violenza alle donne conta se è rispetto di tutti: assoli, suoni acuti, stridii; se è ascolto, accoglienza di valori insiti in ogni voce flebile o possente; se rinuncia a precomprensioni, presunzioni, ovvietà, ideologie, conformismi. Educare è “tirar fuori” il tesoro che l’altro ha dentro per il solo fatto d’esser qui oggi, individuo e parte d’una comunità: luci e ombre, valori e pregiudizi, slanci e ossessioni. Educare è crear le condizioni perché ragazze e ragazzi si sentano liberi e protetti, s’esprimano; è costruire spazi per silenzi, incertezze: riconoscersi in impotenze, incompetenze, crederci e cercare ancora. Educare è esser testimoni coerenti, porre basi per una fiducia in chi ci sta davanti, occhi negli occhi. Rumore di giovani, piazze, sindacati, del Paese reale: persone non riconosciute (donne in testa!), emarginati, poveri, migliaia di ragazze e ragazzi che aspettano ius soli e ius culturae (ah, sinistra distratta!), assetati di giustizia. Evitiamo provocazioni da destra. Il rumore copre slogan, ideologie, soliloqui social, cliché identitari.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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    Metroregione è il notiziario regionale di Radio Popolare. Racconta le notizie che arrivano dal territorio della Lombardia, con particolare attenzione ai fatti che riguardano la politica locale, le lotte sindacali e le questioni che riguardano i nuovi cittadini. Da Milano agli altri capoluoghi di provincia lombardi, senza dimenticare i comuni più piccoli, da dove possono arrivare storie esemplificative dei cambiamenti della nostra società.

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    Speciale Podcast Ho detto R1PUD1A - secondo episodio

    “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Secondo episodio: La guerra non è popolare. L’Europa si riarma con 800 miliardi. In questi anni aveva già raddoppiato la propria quota di spese militarti, soprattutto comprando dagli Stati Uniti. Lo faremo di più, visto che Trump disinvestirà dalla Nato e dall’Europa. E’ la “fine delle illusioni”, come dice Von der Leyen, di essere garantiti dalla pace, perché d’ora in poi bisognerà usare la forza. E intanto si educa la popolazione con manuali che dicono: “In caso di guerra…”. La propaganda è altissima perché non c’è nulla di più antipopolare e antidemocratico della guerra e la militarizzazione d’Europa è tutta sulle spalle dei suoi cittadini. Con Michele Paschetto di EMERGENCY vi racconteremo come in Afghanistan in più di venti anni di guerre le cure abbiamo svolto un ruolo straordinario di mediatore. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

    Gli speciali - 20-04-2025

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    Speciale Podcast Ho detto R1PUD1A - primo episodio

    Ho detto R1PUD1A di Claudio Jampaglia e Giuseppe Mazza per EMERGENCY “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Primo episodio: Le parole sono importanti. In questa prima puntata di “Ho detto R1PUD1A” Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia spiegano cosa significa la parola “ripudia” nella Costituzione italiana e perché è stata scelta per rappresentare il “mai più” alla guerra del popolo italiano dopo la Liberazione. Non siamo i soli ad avere fissato questo principio nelle nostre leggi. La guerra però sta tornando una prospettiva concreta, almeno secondo la maggior parte dei governi, che si riarmano, Italia compresa. Con Rossella Miccio, presidente di EMERGENCY, vi racconteremo poi l’esempio del Sudan, il Paese dove la guerra ha già causato in questi due anni oltre tre milioni di profughi. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

    Gli speciali - 20-04-2025

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    Snippet di sabato 19/04/2025

    Un viaggio musicale, a cura di missinred, attraverso remix, campioni, sample, cover, edit, mash up. Sabato dalle 22:45 alle 23.45 (tranne il primo sabato di ogni mese)

    Snippet - 19-04-2025

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    News della notte di sabato 19/04/2025

    L’ultimo approfondimento dei temi d’attualità in chiusura di giornata

    News della notte - 19-04-2025

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    Blue Lines di sabato 19/04/2025

    Conduzione musicale a cura di Chawki Senouci

    Blue Lines - 19-04-2025

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    Stay human di sabato 19/04/2025

    Ogni sabato, dalle 17.35 alle 18.30, musica, libri e spettacoli che ci aiutano a 'restare umani'. Guida spirituale della trasmissione: Fela.

    Stay human - 19-04-2025

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    Soulshine di sabato 19/04/2025

    Soulshine è un mix eclettico di ultime uscite e classici immortali fra soul, world music, jazz, funk, hip hop, afro beat, latin, r&b, ma anche, perchè no?, un po’ di sano rock’n’roll. L’obiettivo di Soulshine è ispirarvi ad ascoltare nuova musica, di qualsiasi decennio: scrivetemi i vostri suggerimenti e le vostre scoperte all’indirizzo e-mail cecilia.paesante@gmail.com oppure su Instagram (cecilia_paesante) o Facebook (Cecilia Paesante).

    Soulshine - 19-04-2025

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    Highlights di sabato 19/04/2025

    L'atleta più raccontata della settimana è stata la nuotatrice 18enne Sara Curtis, capace di segnare il record italiano dei 50 e dei 100 metri stile libero ai Campionati assoluti. Come mai attorno a lei si sono concentrate improvvisamente tutte queste attenzioni? Ci abbiamo riflettuto insieme a Francesco Caligaris, collaboratore della Gazzetta dello sport. Calcio, politica e società: tre argomenti che s'intrecciano spesso e che il progetto Pallonate in faccia indaga quotidianamente sulla sua pagina social. Ne abbiamo parlato con l'autore Valerio Moggia, in vista dell'uscita del suo nuovo libro "Il calcio è politica".

    Highlights - 19-04-2025

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    Chassis di sabato 19/04/2025

    Chassis 19 aprile 2025, con Ivano De Matteo regista di "Una figlia"; Niccolò Massazza dei Masbedo su "Arsa"; Guido Chiesa parla di "30 notti con il mio ex". Tra le uscite: La Gazza Ladra di Robert Guediguian; Queer di Luca Guadagnino; Drop – Accetta o rifiuta di Christopher Landon; Generazione Romantica di Jia Zhangke; Guida pratica per insegnanti di Thomas Lilti; I Peccatori di Ryan Coogler; Cloud di Kiyoshi Kurosawa; Love di Johan Haugerud.

    Chassis - 19-04-2025

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