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Breaking Dad

Assoluto

“Papà, facciamo i compiti?”

Fabrizio si presenta con il suo zainetto in cucina. La richiesta è incontestabile: “facciamo i compiti” è una di quelle frasi che non ammettono repliche. Senso del dovere, scelta dei tempi (sono le tre del pomeriggio), consapevolezza, eccetera, tutte quelle cose lì. “Certo, tesoro, molto bene”.

Tanto più che Fabrizio è in quarta elementare e, di solito, la mia preparazione mi consente di essere un buon assistente. Li so fare, insomma. Storia, ad esempio: gli Etruschi, i Sumeri, le civiltà dell’Indo. Oddio, sulle civiltà dell’Indo, ho bisogno di un rapido ripasso. Ma una sbirciata al libro è più che sufficiente. E poi c’è sempre un fiume, l’agricoltura, i commerci, i sacerdoti, i militari. Qualche nome strano da memorizzare, ma ci siamo.

Già l’aritmetica richiede qualche attenzione in più. Sulle tabelline siamo fortissimi. Le operazioni vanno via lisce, a parte qualche incertezza sulle divisioni. Fare i compiti insieme a un bambino di nove anni, comunque, è cosa per niente banale. Checks and balances. Controlli e bilanciamenti. Autonomia e verifica. Libertà individuale e regole da rispettare. E poi l’ambiente circostante, che deve infondere tranquillità e favorire la concentrazione.

“Papà, chiudi la finestra?” Ma certo, Fabri, come ho fatto a non pensarci. Non è che uno possa indovinare quante mele ha venduto il contadino – se andando al mercato gliene sono cadute quattro dalla cesta – con il dlen dlen del tram che irrompe nel ragionamento, o l’odore di soffritto del piano di sotto (ma alle tre del pomeriggio questi fanno il soffritto?). Finestra chiusa. Silenzio. Tavolo sgombro.

Fabrizio apre lo zaino e ripone ordinatamente, l’uno a fianco all’altro, l’astuccio, il libro, i fogli con i buchi che, in un secondo momento, andranno inseriti nell’apposito raccoglitore. Chissà perché non si usano i quaderni bell’e fatti, ma non mi addentro nella questione.

-Cosa devi fare per domani?

-Italiano.

Evvai! Italiano è la mia materia preferita. La so. Soprattutto le basi della grammatica. Questo lo devo alle mie, di scuole elementari, e alla mia maestra. Era di vecchio stampo: ci fece cominciare con le “aste”, per dire. Sulla letteratura non saprei dire: mi ricordo che era fissata con D’Annunzio, per campanilismo (era abruzzese) più che per simpatia politica (spero). “Settembre andiamo, è tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi….”. Non me la sono più dimenticata.

Ah, e Cipì, anche quello me lo ricordo benissimo, con quel disegno da bambini in copertina dell’uccellino verde. Ecco, però era di certo la grammatica il cavallo di battaglia della maestra Angela. Quanta analisi grammaticale, prima, e logica, poi!

-Ok, Fabri, comincia a leggere le frasi ad alta voce.

Si schiarisce la voce e inizia la lettura. Sono cinque frasi che contengono aggettivi al grado comparativo e superlativo. Bisogna copiarle sul foglio e poi sottolineare in rosso i comparativi, in blu i superlativi relativi e in verde i superlativi assoluti. Una bazzecola, per il Vate.

Il cavallo è velocissimo. Verde. Bravo Fabri, benissimo.

Marco è più alto di Luca. Rosso. Bene, andiamo avanti.

“Papà, posso andare in bagno?” Ecco, lo sapevo. C’è un regola di fisiologia anatomica che andrebbe approfondita. Non solo dopo pochi kilometri dall’ingresso in autostrada, non solo quando si spengono le luci in sala (il cinema, ve lo ricordate?). Anche dopo due frasi di analisi grammaticale ai bambini scappa la pipì. Sarebbe da andarci a fondo, ma vista l’indigestione di informazioni mediche dell’ultimo periodo, lascerei stare. Ce la segniamo per un’altra volta.

Fabrizio è tornato, si è rimesso seduto per bene e sta copiando la prossima frase.

-Papà, ma ci può essere un trabocchetto?

-Cioè?

-Una frase dove non bisogna sottolineare niente

(Oddio, la variabile impazzita, la falla nel sistema).

-Qual è la frase?

Maria è molto simpatica

Molto simpatica. Non è comparativo. Non è superlativo relativo. Ma non può essere assoluto. Non è mica simpaticissima, questa Maria. Sì, è forte, ci si chiacchiera bene. Ma simpaticissima, accidenti, è di più. L’altra, la sua amica sì che è davvero simpaticissima. Maria no, dài, non esageriamo. Molto simpatica, non di più.

-Sì, Fabri, può essere che ci siano delle frasi con l’inganno…

-Come l’inganno della cadrèga! (mi cita già le pietre miliari del cinema, tesoro!)

Insomma, superato lo scoglio, procediamo senza altre difficoltà e gloriosamente chiudiamo l’esercizio in tempo utile per la merenda.

Sembrava finita lì. E invece no. Qualche giorno dopo salta fuori che c’era un errore nel compito di grammatica. “Caro Fabrizio, tutto bene, tranne una frase. Molto simpatica è superlativo assoluto”. Così ha scritto la maestra. Fabri è venuto a chiedere conto. E, naturalmente, ho abbozzato, cosa potevo fare? Certo, è vero, ci siamo sbagliati, Fabri. (“TU ti sei sbagliato, papà…”).

Non me ne capacito. Come può essere che “simpaticissima” e “molto simpatica” siano la stessa cosa? Consulto, indago, verifico. E’ così: sono entrambi classificati come superlativi assoluti. Nonostante l’aggettivo “assoluto” significhi, da vocabolario: “… che esprime il massimo grado di una qualità”.  Molto simpatica NON è il massimo grado di simpatica, accidenti! Boh, non mi torna. Ne parlo con il figlio maggiore, Francesco. Che di anni ne ha 13 e che conclude. “Oh, mi sa che la grammatica è buggata” (da bug, anomalia nel funzionamento di un sistema informatico). E aggiunge: “Lancia una petizione in Rete per cambiarla, questa regola”.

E niente, mi tengo il dubbio. Magari ha ragione Franci. Ma più probabilmente, c’è qualche motivo che mi sfugge. Qualche origine latina che ignoro. Immagino che la mia buona, vecchia maestra me lo avesse spiegato, mi sarò distratto guardando i tigli del cortile dal finestrone sulla mia sinistra. Lascio perdere la petizione.

 

 

 

  • Alessandro Principe

    Mi chiamo Alessandro. E, fin qui, nulla di strano. Già “Principe”, mi ha attirato centinaia di battutine, anche di perfetti sconosciuti. Faccio il giornalista, il chitarrista, il cuoco, lo scrittore, l’alpinista, il maratoneta, il biografo di Paul McCartney, il manager di Vasco Rossi e, mi pare, qualcos’altro. Cioè, in realtà faccio solo il giornalista, per davvero. Il resto più che altro è un’aspirazione. Si, bè, due libri li ho pubblicati sul serio, qualche corsetta la faccio. Ma Paul non mi risponde al telefono, lo devo ammettere. Ah, ci sarebbe anche un’altra cosa, quella sì. Ci sono due bambini che ogni giorno mi fanno dannare e divertire. Ecco, faccio il loro papà.

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DisOrdine internazionale

Il futuro si gioca ora

Com’è inevitabile che sia, la lotta contro il Covid-19 e lo sforzo di realizzare un’efficace campagna di vaccinazione globale dominano le preoccupazioni di tutti gli attori della politica internazionale: a cominciare ovviamente dalle “grandi potenze”. La posta in gioco va però oltre la pandemia: si tratta infatti di determinare non solo chi, ma anche sulla base di quali principi e attraverso quali regole governerà il sistema internazionale, una volta che la fuoriuscita dalla dimensione sanitaria dell’emergenza si sarà consolidata. È questo l’oggetto del contendere molto serrato tra Stati Uniti, da un lato, e Cina e Russia dall’altro. Le accuse di voler cambiare le regole del gioco che entrambe le parti si sono reciprocamente rinfacciate con molta rudezza nelle ultime settimane vertono proprio su questo.
È così si spiega anche l’ostentato interesse che l’America di Biden è tornata a mostrare verso l’Europa. Joe Biden vuole mettere in evidenza che un mondo a guida cinese, con la Russia inevitabilmente relegata a junior partner, funzionerebbe sulla base di principi molto lontani da quelli che, con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni, hanno contrassegnato l’egemonia americana. La violenza con cui si scaglia contro “l’assassino Putin” e le repressioni cinesi a Hong Kong e nello Xian mira a far emergere il deficit normativo delle grandi potenze autoritarie e a riproporre la leadership americana come “il male minore”. Questo stana anche l’Europa, affinché provi ad andare oltre ai tatticismi e agli opportunismi. Biden ha poi chiaro che la sfida che Pechino porta al ruolo degli Usa non può essere vinta solo in termini strategico-militari e normativi. Serve che il modello occidentale torni ad essere attrattivo e vincente. Anche dal punto di vista politico-economico. Per fermare la Cina nell’Indo-Pacifico occorre che l’economia atlantica ricominci a crescere. Nella consapevolezza, però, che il modello occidentale deve innanzitutto essere rilanciato al suo interno, per ritrovare il perduto equilibrio tra le ragioni dei “molti” e quelle dei “pochi”. Deve cioè tornare a essere distinguibile – e preferibile – rispetto a quello cinese per una rinnovata compatibilità tra democrazia e mercato, contrastando le spinte oligarchiche che hanno caratterizzato l’una e l’altro a partire dagli anni ’80.
Biden vuole un’Europa che non sia più la zavorra deflazionistica che è stata da quando è partito l’euro. E presenta il suo piano di recovery da 1900 miliardi di dollari come la più grande manovra “progressista” dai tempi della Great Society di Johnson, quella che mise a tema – concretamente – la questione dei diritti civili, politici, economici e sociali dei neri. Non sappiamo se ci riuscirà, ma sappiamo che è la cosa più “di sinistra” che abbiamo sentito negli ultimi trent’anni e che potrebbe consentire una svolta anche all’agenda europea.

 

 

  • Vittorio Emanuele Parsi

    Insegna Relazioni Internazionali e Studi Strategici all’Università Cattolica a Milano, dove dirige l’ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali – e all’USI di Lugano. Si occupa da molti anni dello studio delle trasformazioni del sistema globale, al crocevia tra politica ed economia e tra ambito domestico e internazionale. Ultimi volumi: Vulnerabili: come la pandemia sta cambiando la politica e il mondo (2021), The Wrecking of the Liberal World Order (2021).

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Politica leggera

Centrodestra milanese ovvero la faccia come il covid

Ci si arrabbia per cose molto diverse, nella vita. Io ad esempio mi sono arrabbiato perché ho saputo che mio papà, 80 anni, riceverà la prima dose di vaccino anti covid solo il 5 aprile. Eppure a ben pensarci non dovrei prendermela, in famiglia dovremmo sentirci perfino fortunati, considerato che viviamo in Lombardia. Ieri, in Lombardia, solo il 25% degli over 80 aveva ricevuto le due dosi di vaccino.

Poi c’è il centrodestra milanese che si arrabbia perché il sindaco di Milano, Sala, si è fatto fare un tampone dai volontari della Brigata Sanitaria. Di fronte al disastro della gestione della pandemia in Lombardia, i governanti della ex regione più all’avanguardia d’Italia avrebbero potuto chiede scusa. Oppure ritirarsi per sempre dalla vita politica e sociale.

Invece No. Invece hanno fatto la polemica perché il sindaco si è fatto fare un tampone da Orlando, infermiere del Salvador che rischia l’espulsione perché non riesce a vedere riconosciuto il proprio titolo di studio in Italia.Un tampone gratuito, non come quelli erogati dalla cliniche private di Milano alla modica cifra di 120 Euro l’uno. Ma come, una cosa su cui potresti lucrare ingenti profitti, la dai gratis?

Intendevano questo, gli esponenti del centrodestra che hanno usato l’espressione “legittimazione” in senso negativo? Già. Hai visto mai che a qualcuno venisse in mente di proporre vaccini a pagamento in qualche clinica privata. Disponibili subito. Non accadrà, nessuno lo dirà ad alta voce. Almeno lo vogliamo sperare, anche se a ben pensarci abbiamo visto di tutto e una più, una meno.

Del resto, il coraggio non manca. Ricordate Gallera, quello che quando l’indice Rt scese a 0,5 spiegò che per infettarsi bisognava incontrare due positivi contemporaneamente? Pare che in cuor suo speri ancora di candidarsi a sindaco di Milano. Contro Sala, il sovversivo che si è fatto il tampone gratuito. In alternativa, il centrodestra potrebbe schierare Giorgetti, quello che diceva che i medici di base non servivano più a nulla. Chi ci va più dai medici di base, diceva.

Poi è arrivata la pandemia. Vedi a volte la sfiga. Oppure, potrebbero candidare Bertolaso. A proposito, ma l’ospedale in Fiera? Oppure, direttamente Fontana. Ok, scusa Milano, certe cose non si dicono nemmeno per scherzo

  • Luigi Ambrosio

    Vorrei scrivere di mille cose e un giorno lo farò. Per ora scrivo di politica. Cercare di renderla una cosa umana è difficile, ma ci provo. Caposervizio a Radio Popolare, la frequento da un po' ma la passione non diminuisce mai

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Piovono Rane

Matteo, buon Dio, perché lo fai

Questa cosa del Bahrain farebbe pensare che è un pazzo.

Renzi, dico: e quasi mi scuso di doverne parlare ma è un caso interessante perché sta a cavallo tra psicologia e politica – più nella prima che nella seconda in verità.

Solo un pazzo può pensare che farsi vedere ai paddock di un Gran Premio di Formula 1 nel lusso di un paese esotico – mentre l’Italia è metà in clausura e metà impoverita, ma tutta quanta incazzata nera – sia una buona idea. 

Viene da dire: ma no, santo Dio, perché lo fai? Ma non hai qualcuno che ti vuol bene accanto a te a spiegarti che non è il caso, che è una cazzata?

Di certo, se ce l’ha, lui non gli dà ascolto.

E si sforza di dimezzare il suo due per cento facendosi vedere in un contesto lunare per chi è rinchiuso in casa, nel suo comune, nella sua serranda abbassata. 

Follia allo stato puro, tendenza al suicidio politico.

Che appunto si può spiegare solo abbandonando le categorie della politica e inabissandosi in quelle della psiche umana, dei suoi misteri.

Provando a immaginare la gioia del provinciale, nato borghese piccolo piccolo, nell’esibire finalmente dove è arrivato, quale status ha raggiunto, e quanto tutto questo fa rosicare gli amici di una volta, voi al paese manco la gita di Pasquetta al lago di Bilancino vi potete fare, io tra i paddock del Gran Premio, i principi, i piloti, le ragazze e l’hotel a sette stelle.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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Bad Input

In Lombardia tira una brutta ARIA

Per il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana sono tutte fake news, ma l’incapacità dell’amministrazione lombarda nel gestire la campagna vaccinale è sotto gli occhi di tutti. Le maggiori responsabilità le avrebbe ARIA, quella Agenzia Regionale per l’Innovazione e gli Acquisti a cui la giunta ha affidato la gestione delle procedure per la “modica” somma di 22 milioni di euro.

Che quello di ARIA sia stato un fallimento, è evidente a tutti. La parte davvero interessante, però, si legge nei dettagli. Dettagli che emergono dalle dichiarazioni dell’ex membro del Consiglio di Amministrazione di ARIA Mario Mazzoleni, che ai microfoni di Radio Popolare parla di una piattaforma in cui alcuni dati sono affidati a “inserti manuali”. Dettagli che emergono dalle inchieste di altre testate giornalistiche, che parlano di una gestione delle prenotazioni che usa “file Excel non integrati nella piattaforma”.

Nessun dubbio che la piattaforma di ARIA abbia dimostrato di essere un disastro. Ma da dove arriva la tanto vituperata piattaforma? Il sistema utilizzato dall’agenzia lombarda si chiama SIAVr (Sistema Informativo Anagrafe Vaccinale regionale) ed è stato sviluppato da Regione Veneto, che lo ha “ceduto” (tra gli altri) alla Lombardia.

In teoria, leggendo la documentazione della piattaforma (online si trova addirittura il manuale di istruzioni per usarla) a SIAVr non mancherebbe nulla per consentire di gestire in maniera adeguata una campagna vaccinale, anche per il Covid 19.

Che cosa è andato storto, allora? Un’ipotesi è che dalle parti di ARIA abbiano dovuto modificare il software per adattarlo al sistema sanitario regionale, che lo stesso Mazzoleni ha definito “estremamente frammentato”. D’altra parte, se si usa un programma pensato per funzionare in un altro contesto, qualche problemino bisogna metterlo in conto.

Visto però quello che stanno combinando in Veneto, in cui le prenotazioni non sono andate molto meglio che in Lombardia, il vero problema (per dirlo in maniera professionale) può essere che il software non abbia quelle caratteristiche di versatilità e scalabilità (la caratteristica di un sistema software o hardware facilmente modificabile nel caso di variazioni notevoli della mole o della tipologia dei dati trattati – ndr) che gli avrebbero permesso di gestire anche le prenotazioni per il vaccino Covid. Per dirlo in maniera più semplice: è possibile che sia una ciofeca.

Il condizionale è d’obbligo, visto che il codice del software è proprietario e, di conseguenza, non ci si può mettere il naso. Se fosse stato sviluppato con strumenti open source, le cose sarebbero ben diverse e, probabilmente, sarebbe stato più facile anche modificarlo per far fronte all’emergenza.

Insomma: il pasticcio di ARIA non è dovuto solo all’incompetenza di chi la gestisce o chi la dirige, ma affonda le sue radici in quella “autonomia” che in una certa fase della vita politica del nostro paese (no, non è colpa solo della Lega) si è imposta come dogma di efficienza e modernità.

E il vero problema, forse, è proprio questo. Nell’informatica le “autonomie” sono il modo migliore per produrre inefficienze. Creare un prodotto “autonomo” significa creare qualcosa che non rispetta gli standard, che è più difficile da capire e modificare, sul quale diventa problematico mettere le mani, innestare nuovi moduli e che, di conseguenza, risulta difficile da adattare alle nuove esigenze. In altre parole, è il modo migliore per produrre una schifezza.

Nel mondo delle nuove tecnologie, chi va da solo è destinato a fallire. È su questo che oggi dovrebbero riflettere sovranisti, secessionisti e autonomisti di casa nostra.

Aggiornamento: rispondendo alle dichiarazioni di Mario Mazzoleni, Regione Lombardia ha specificato che i problemi in fase di prenotazione non sono stati causati da SIAVr ma da altre piattaforme fornite da aziende private, create appositamente per la campagna di prenotazione sul territorio lombardo. Fatta la doverosa precisazione, il succo non cambia.

  • Marco Schiaffino

    Dopo una (breve) esperienza come avvocato, nel lontano 2000 mi sono trovato quasi per caso a scrivere di Internet e nuove tecnologie, quando il Web e il digitale erano una specie di hobby per smanettoni e appassionati di fantascienza. Mentre continuavo a scrivere per la mia banda di nerd, mi dannavo per trovare il modo di passare a quello che pensavo fosse un giornalismo “più serio”. Qualche volta ce l’ho anche fatta. Poi è successa una cosa strana: quello di cui mi occupavo da anni, ha cominciato a interessare tutti. Ho smesso di dannarmi.

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    Il populismo d’Argentina. E’ quello che ha caratterizzato Jorge Maria Bergoglio durante i suoi dodici anni di pontificato. Scrive oggi sul quotidiano Domani, Nadia Urbinati, teorica della politica alla Columbia University di New York. «Figlio d’Argentina, culla del populismo, la retorica che taglia in due fatti e concetti, che arriva diritta alle emozioni, che non fa sconti perché il giusto e lo sbagliato devono stare o di qua o di là. Il populismo argentino fu social-nazionale in politica e conservatore nei valori. Così papa Francesco, che non ha avuto difficoltà a essere populista progressista nelle questioni sociali e conservatore in quelle morali, del resto coerenti ai principi della Chiesa di Roma». Bergoglio ha saputo tenere insieme lingue diverse. E non è detto che sia stata sempre una virtù. Papa Francesco ha tenuto insieme la lingua della Laudato Si’, che denuncia le ingiustizie contro l’ambiente, gli umani, che tiene insieme la crisi sociale e ambientale. Bergoglio ha tenuto insieme questa lingua con una lingua violentemente anti-abortista. Diceva nel settembre 2024: «un aborto è un omicidio, si uccide un essere umano», e «i medici che si prestano a questo sono, permettetemi la parola, sicari». Pubblica ha ospitato Rosa Fioravante, ricercatrice e docente di etica aziendale e delle organizzazioni; e Enrica Morlicchio, sociologa del lavoro, docente all’università Federico II di Napoli.

    Pubblica - 22-04-2025

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    Nella puntata di A come Aprile del 22 aprile, a cura di Alessandro Braga, abbiamo ospitato Lorenza Ghidini, che ci ha parlato delle iniziative di Radio Popolare in vista dell’80esimo anniversario della Liberazione. Abbiamo proposto l’intervista a Giorgio Ferrari Bravo, che aveva dieci anni nel 1945 ed era a Milano il giorno della Liberazione. Infine Marcello Lorrai ci ha raccontato la storia del musicista Alberto Rabagliati.

    A come Aprile - 22-04-2025

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    FABIO POLETTI E CRISTINA GIUDICI - VITA E LIBERTA' CONTRO IL FONDAMENTALISMO

    FABIO POLETTI E CRISTINA GIUDICI - VITA E LIBERTA' CONTRO IL FONDAMENTALISMO - presentato da Michele Migone

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