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Piovono Rane

Fontana e Moratti, strategia alla Putin

Ieri mattina Fontana, Moratti e Bertolaso hanno tenuto una conferenza stampa per esporre il loro nuovo, ennesimo piano vaccinale.

Radio Popolare è andata, con il nostro collaboratore Luca Parena e un telefonino nel quale era registrato un breve montaggio delle telefonate che abbiamo ricevuto oggi e ieri dai nostri ascoltatori, durante i microfoni aperti.

Dozzine di telefonate che testimoniavano come Fontana, Moratti e Bertolaso avevano detto il falso quando avevano assicurato che tutti gli over 80 prima entro martedì poi entro mercoledì in Lombardia avevano ricevuto l’sms di convocazione per il vaccino.

Non era vero, non è vero: in poco più di due ore di microfono aperto, tra mercoledì sera e giovedì, abbiamo ascoltato le voci vive degli over 80 e spesso anche over 90 che non avevano ricevuto un bel niente.

Avremmo voluto far ascoltare quel file audio a Fontana e Moratti, perché rendessero conto del loro impegno disatteso, ma non ci è stato possibile.

Le conferenze stampa dei vertici della regione Lombardia sono sempre di più spettacolini a beneficio delle telecamere, in cui non sono ammesse le domande, tanto meno quelle scomode: al massimo si da molto brevemente la parola solo a un paio di cronisti di testate che si sanno amiche.

Questo comportamento non è un modello di società aperta e trasparente. Perfino Donald Trump rispondeva alle domande dei giornalisti, ed è buona norma che in tutte le democrazie chi è ha un potere risponda e renda conto. Fontana e Moratti invece nascondono i loro fallimenti evitando le domande.

Si dicono liberali, invece somigliano a Vladimir Putin.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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Mia cara Olympe

Lettera dalla pandemia

Beh, mia cara Olympe, basta dire che scrivo dal bel mezzo di una pandemia. Dunque, saltiamo i convenevoli ché non son questi tempi da troppe cerimonie.
La pandemia, dunque. Picchia su tutti, è una livella come Totò diceva della morte? Assolutamente no. Dipende da chi sei, da dove nasci, e da dove e come vivi. E se sei donna, picchia più duro, ci sono tonnellate di studi nazionali e internazionali a dircelo. C’è persino una parola, Shecession, per indicare la recessione che ora colpisce le donne: il lavoro perso, e già era più discontinuo e meno pagato dei colleghi, quello che non si trova, e poi quell’altro – quello di cura, figli a casa, anziani cui badare, – quello gratuito che non viene pesato nei bilanci pubblici e che invece tiene in piedi adesso più che mai l’architettura delle vite e che è aumentato a dismisura. Più difficile tutto: persino gli stage, peraltro diminuiti, adesso li danno più spesso ai giovani uomini (46,4%, donne, 53,6% uomini). Avrà ragione Eleonora Voltolina di repubblicadeglistagisti.it a dire di stare allerta, che se il lavoro delle donne comincia (ma comincia adesso o continua?) a pesare meno di quello degli uomini non è un bel segnale? Come quando si usciva dalla guerra e le donne che avevano condotto i tram e tenuti aperti gli uffici dovevano tornare a casa? Qui la guerra, se così vogliamo chiamarla e non mi piace, non finisce e le donne sono già a casa: se si deve scegliere, se non si può fare a meno, se ‘conviene’, il lavoro ad essere sacrificato è spesso il loro. Freno a mano tirato sulla propria vita e sulla propria autonomia. Prima della pandemia per arrivare alla parità di genere globale, il World economic Forum calcolava ci volessero 99,5 anni, ora siamo a 135,6. In un anno di Covid ci siamo ‘bevuti’ una generazione insomma. Da queste parti si confessa una certa stanchezza, ma ci si vergogna a dirlo, proprio ad una come te.

Ps. Dici che forse chi legge non sa bene chi sei? Corriamo ai ripari: ti chiamavi, in effetti, Marie Gouze, nata nel 1748 e morta sulla ghigliottina di Robespierre nel 1793, seconda donna, dopo Maria Antonietta, a salirci. Ma la tua storia è stata molto diversa: sei stata femminista e antischiavista, hai scritto a favore delle donne e dei più poveri, tappezzato Parigi con i tuoi manifesti e polemizzato con il tribunale della Rivoluzione, rivendicato eguali diritti per te e le altre. “Uomo, sei capace d’essere giusto? È una donna che ti pone la domanda; tu non la priverai almeno di questo diritto. Dimmi: chi ti ha concesso la suprema autorità di opprimere il mio sesso?” hai messo nero su bianco nella Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina che ti è valsa la condanna ‘per aver dimenticato le virtù che convengono al tuo sesso’. C’è un bel romanzo che parla dei tuoi giorni ultimi e della Parigi delle donne durante il Terrore, ‘La donna che visse per un sogno’ e l’ha scritto con sapienza Maria Rosa Cutrufelli. C’è, qui, una voce dell’Enciclopedia delle donne a te dedicata.
Sotto la parrucca d’ordinanza, nel ritratto a pastello di Alexander Kucharsky, i tuoi occhi scuri appaiono straordinariamente vivi.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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In alto a sinistra

A destra e a manca

L’operazione è chiara e a dire il vero nemmeno tanto nuova: l’autorevole giornale della borghesia tradizionalista (non si offenda nessuno se lo definisco “la voce del padrone”), attraverso un suo autorevole commentatore dà consigli “spassionati” a chi potrebbe essere un soggetto di riferimento per il suo pubblico; il destinatario di questi consigli risponde garbatamente ringraziando ma sottolineando che molte delle cose che gli si chiede di fare de facto le ha già fatte; lettori e lettrici (pur con autonomo spirito critico) fanno due più due e si convincono degli enunciati esposti, sia dal primo sia dal secondo soggetto.

Protagonisti: il Corriere della Sera, col suo editorialista Ernesto Galli della Loggia e Fratelli d’Italia, con la sua presidente Giorgia Meloni.

I fatti: lunedì 29 marzo, prima pagina del Corriere. Ernesto Galli della Loggia firma un articolo dal titolo Quella destra moderna che serve al paese. Svolgimento: FdI è forza politica “accreditata da tempo di una futura avanzata elettorale che potrebbe tradursi in un importante ruolo di governo”. Deve quindi darsi “una veste ben più convincente di quella sommaria e prevedibile, sempre tentata da toni di opposizione a prescindere e talora schiettamente reazionari”. Fratelli d’Italia, è sempre Ernesto Galli della Loggia a parlare, “non si può più considerare un partito neofascista, pur se esso viene da territori della storia che portano quel nome” (sic!). Bene (si fa per dire): vada l’autorevole commentatore a rivedersi parole e fatti di quell’universo neofascista interno o contiguo a FdI, pieno di attività negazioniste, antisemitismo diffuso, parole d’ordine anticostituzionali e eventi di violenza squadrista, da cui FdI (e la sua leader) mai hanno preso le distanze, ma di cui anzi hanno provato a essere collettore elettorale (con alterne fortune). Di più, continua l’autorevole commentatore, “al massimo la sua lontana origine si manifesta oggi in una postura difensiva contro le smargiassate dell’antifascismo di professione” (ri-sic!). Mi si permetta di sottolineare che quelle “smargiassate dell’antifascismo di professione” altro non sono che doverose difese dei nostri valori costituzionali, e che anzi bisognerebbe rinvigorire con una ripresa della pratica dell’antifascismo militante. Che dire sulle prese di posizione riguardanti la nostra Costituzione poi? Come si può disgiungere “il pervasivo afflato progressista” (che FdI non condivide, dice Ernesto Galli della Loggia) della nostra Carta fondativa dal senso generale e profondo che gli appartiene? Sorvoliamo sulle parole d’ordine che questa destra moderna dovrebbe portare avanti, e arriviamo al finale: l’autorevole commentatore dice che per realizzare questa destra serve “un altissimo livello di immaginazione e anche di ottimismo”).

Seconda puntata, martedì 30 marzo, prima pagina del Corriere della Sera. Lettera a firma di Giorgia Meloni che (in estrema sintesi) dice: “la destra moderna che serve e che in parte tratteggia Galli della Loggia non abita i non-luoghi dell’utopia o lo spazio dell’immaginazione. È già una realtà”. E, guarda caso, si chiama Fratelli d’Italia.

Benissimo, due brevi considerazioni: si sente davvero il bisogno di questa destra? Personalmente non sento il bisogno (e neppure la mancanza) di una destra (moderna o antica che sia) che davvero non abbia troncato nettamente i suoi legami con un passato fatto di violenza e sopraffazione. Così come da tempo non sento il bisogno dei consigli di Galli della Loggia e del Corriere della Sera (che giustamente non si rivolgono a me ma a chi può essere strumentale a un disegno conservatore che porti avanti le idee del padrone). Piuttosto sì sento la mancanza (e il bisogno) di una sinistra moderna, ma che sappia mantenere radici ben salde nel passato. Un progetto con uno sguardo al futuro (ma che guardi anche al presente) rivolto “in alto, a sinistra”.

  • Alessandro Braga

    Classe 1975. Giornalista professionista, prima di approdare a Radio Popolare ha collaborato per anni col Manifesto. Appassionato di politica, prova anche (compatibilmente col tempo a disposizione) a farla

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Il puntaspilli

La dura legge delle multinazionali del farmaco

Il dato più significativo della vicenda Covid in Europa è il riproporsi di un braccio di ferro tra l’Ue e l’Uk, a Brexit avvenuta. Quando l’Uk risponde a Ursula von der Leyen che nessun contratto di Bruxelles con la sua big Pharma Astrazeneca ha più valore della domanda inglese di salute, non sta mentendo: sta semplicemente ribadendo che a prevalere su tutto è la dura legge di mercato.

Del resto, come ha ricordato la stessa von der Leyen, gli accordi tra Ue e Uk sono ‘liberisti’ fino all’ennesima potenza: nessuna restrizione all’export da e verso le due unioni politiche. In altri termini, nessuna regola se non quella dei contratti, che vengono onorati secondo la legge del più forte. Il punto allora è questo: chi è il più forte? Chi lo fa il mercato? I governi dei paesi esportatori o di quelli importatori? Chi definisce i tempi, i modi, i costi di un prodotto di necessità vitale per tutta l’umanità? Le case farmaceutiche, ovvio, secondo la loro insondabile, oscura volontà.

Ad oggi i blocchi ed i ricorsi dei governi europei (più minacciati che messi in atto) sono stati cosa ridicola rispetto alle imponderabili decisioni delle multinazionali del farmaco (su tutte Astrazeneca). La linearità di comportamento non alligna presso i vertici di questi giganti che contano, ormai, più dei governi. L’Ue, dal canto suo, invece di approfittare di questo momento storico per imporre, nell’eterno contenzioso tra Stato e Mercato, la supremazia dello Stato, si è inchinata davanti ai titani del farmaco. Draghi, per esempio, ha fatto intendere di non aver impugnato le decisioni di Astrazeneca per non stare ai tempi della magistratura: cioè per non sottostare ai tempi dello Stato. In parole povere, i governi sono soggiogati dall’astratta volontà del mercato. Un’astrazione che ha effetti tragici, concreti e reali, sulla vita di centinaia di milioni di europei. Aggravata, questa sottomissione degli Stati, dalla vecchiaia della popolazione europea. E quindi il dato vero sta nella sostanziale nullità delle politiche sanitarie comunitarie di fronte alla terrificante robustezza politica delle multinazionali del farmaco.

Per ribaltare questa condizione di fatto è necessario rendere pubblici i brevetti e favorire la produzione statale. Questo per almeno un paio di motivi: 1) ovunque, anche in Uk e Usa, i vaccini sono esito di un lavoro di ricerca finanziato prevalentemente dai governi con fondi direttamente od indirettamente (vista la bassa tassazione sulle fondazioni sanitarie e farmacologiche) pubblici; 2) rischiamo di uscire dal Covid con gli Stati indebitati fino all’osso e le multinazionali ingrossate fino al collo. Sono due validi motivi per cominciare a riequilibrare il rapporto tra pubblico e privato, tra politica ed economia. A vantaggio dello Stato.

  • Leonardo Palmisano

    Bari 1974, autore e presidente della cooperativa di LegaCoop Radici Future Produzioni. Colomba d'oro per la Pace e premio Livatino contro le mafie. Per Fandango Libri ha pubblicato la trilogia dello sfruttamento (Ghetto Italia, Mafia caporale e Ascia nera), e ha iniziato la serie di gialli dedicata al bandito Mazzacani (Tutto torna, Nessuno uccide la morte, Chi troppo vuole). Dirige il festival antimafia LegalItria. Editorialista per il Corriere del Mezzogiorno e altre testate.

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Bad Input

La proprietà è un concetto superato e non me n’ero accorto

Forse il titolo è un po’ sopra le righe, ma rispecchia esattamente il contenuto. Quindi ci sta. Da dove arriva questa coraggiosa affermazione? Come spesso accade, da un incidente. Qualche giorno fa mi sono trovato nella condizione di dover dire addio al contenuto del mio iPhone (colpa di un inciampo in un aggiornamento) senza poter contare su alcun backup. Una sorta di “tempesta perfetta” che non sto a spiegare per non sprecare preziosi byte sul server di Radio Popolare.

In sintesi: a un certo punto mi sono trovato di fronte alla situazione di dover fare il fatidico “click” che avrebbe cancellato sette anni di fotografie e video dal mio smartphone. Il resto (contatti, email, messaggi) erano recuperabili. Le foto e i video, no.

È uno di quei momenti in cui il tempo subisce buffe deformazioni (l’unico paragone che mi viene in mente per quando si perde il controllo della moto, i motociclisti mi capiranno) e ci si ritrova in una sorta di slow motion in cui i secondi sembrano durare minuti.

In quei lunghissimi istanti, ho realizzato due cose:

Primo: una buona parte dei contenuti memorizzati sul mio iPhone erano assolutamente inutili o, per lo meno, il loro valore era tale da rendere la loro perdita quasi indolore. L’unica cosa di cui mi interessava davvero, erano le foto e i video della mia coinquilina a quattro zampe che mi ha abbandonato (alla tenera età di 20 anni) lo scorso 18 dicembre.

Secondo: quando ho cercato di recuperare le immagini e i video del mio felino preferito, mi sono reso conto che sarebbe stato più facile di quanto avrei mai potuto pensare. Li avevo spammati ovunque: alla mia compagna, agli amici, sui social. Insomma, nel giro di una manciata di minuti avevo tutto (o quasi) di nuovo a portata di polpastrello.

È a questo punto che ho realizzato. Di fronte alla mancanza di disperazione e alla facilità con cui ho recuperato le fotografie del felino che ho servito per gli ultimi 20 anni, mi è venuto da pensare che cosa sarebbe successo se avessi chiesto a tutti i miei contatti (non l’ho fatto) di trasmettermi le fotografie che gli ho inviato negli ultimi sette anni. Probabilmente avrei ricostruito completamente il mio rullino foto.

Ok: assodato questo, rimaneva da capire perché questo fosse possibile. Sono un irriducibile esibizionista vanesio che compulsivamente condivide con il mondo tutto quello che fotografa e riprende? Sono vittima della deformazione da social che cancella il perimetro del “privato” trasformandolo in “pubblico”?

Tutto sommato (la dichiarazione non vuole essere autoassolutoria) ho deciso che no, non lo sono. Semplicemente ho realizzato che ogni singola volta in cui ho impugnato il mio telefono per scattare una foto o registrare un video, non l’ho fatto per catturare l’istante, fissare un ricordo o rubare l’anima della persona ritratta (anche se l’idea ha un suo fascino). L’ho fatto perché volevo condividere quel momento con qualcuno.

Il motivo per cui non ho trovato così doloroso dire addio a tutti quei GB di dati era che quelle immagini, quei video, avevano già assolto al loro scopo: comunicare (l’etimo è “mettere in comune”, grazie Giuseppe Mazza) un momento, un’emozione, un’idea.

Di “possedere” quelle fotografie, in fondo, non mi è mai interessato nulla. E questo è un pensiero che mi piace un casino.

P.S: ciao Pepe, mi manchi un po’.

  • Marco Schiaffino

    Dopo una (breve) esperienza come avvocato, nel lontano 2000 mi sono trovato quasi per caso a scrivere di Internet e nuove tecnologie, quando il Web e il digitale erano una specie di hobby per smanettoni e appassionati di fantascienza. Mentre continuavo a scrivere per la mia banda di nerd, mi dannavo per trovare il modo di passare a quello che pensavo fosse un giornalismo “più serio”. Qualche volta ce l’ho anche fatta. Poi è successa una cosa strana: quello di cui mi occupavo da anni, ha cominciato a interessare tutti. Ho smesso di dannarmi.

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