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Appunti sulla mondialità

La Terza guerra mondiale a pezzi

La più autorevole ONG di aiuti umanitari, l’International Rescue Committee di New York, ha mappato tutte le tensioni nel mondo che quest’anno potrebbero degenerare in conflitti. Riguardano tutte Paesi dove già si stanno verificando episodi di violenza, spesso con bilanci drammatici. Anche se praticamente nessuno ne parla, nel 2023 nei Paesi in cui di recente si sono verificati colpi di Stato le vittime sono state migliaia: 7800 in Burkina Faso, 4100 in Mali, 1000 in Niger. La mappa mondiale tracciata dall’International Rescue Committee non tiene conto delle guerre già in corso, e dunque non si sofferma né sul conflitto russo-ucraino né su quello israelo-palestinese. Guarda piuttosto ai Paesi in cui si sta verificando un conflitto “non convenzionale”, sia pure con diversa intensità, dividendoli in due categorie che comprendono 10 Stati ciascuna. Ne emerge la fotografia di una “Terza guerra mondiale a pezzi”, come ebbe a dire in modo lungimirante papa Francesco nel 2014. Nel complesso, i conflitti quest’anno potrebbero coinvolgere il 10% dell’umanità, cioè una persona ogni dieci. Tra gli uomini, le donne e i bambini colpiti dalle guerre si trovano il 75% delle persone obbligate a lasciare la propria abitazione e il 70% di quelle in grave insicurezza alimentare.

I focolai mappati si concentrano soprattutto nell’Africa subsahariana, nella fascia del Sahel ma anche nella regione nilotica, con il Sudan e il Sud Sudan ad alto rischio, e poi nell’Africa centrale, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, e nel Corno d’Africa, in Etiopia, Eritrea e Somalia. Il Medio Oriente è sempre fonte di preoccupazioni per il rischio di allargamento del conflitto Israele-Hamas a Libano, Siria, Giordania, Iran, Yemen e Iraq, fino al Pakistan. In Asia rimangono drammatiche anche le situazioni dell’Afghanistan, dove ora i talebani si stanno scontrando con forze affiliate all’ISIS, e del Myanmar, dopo il colpo di Stato del 2021. In America Latina spiccano Haiti, Paese di fatto in mano a bande criminali, e l’Ecuador, sconvolto dallo scontro tra narcotrafficanti e Stato. Infine c’è l’Europa orientale, che oltre alla guerra russo-ucraina ospita altri potenziali focolai di conflitti, dai Balcani alla Transnistria. I problemi non si esauriscono qui. In Estremo Oriente sono sempre da monitorare la situazione nel Mar della Cina e attorno a Taiwan e la frontiera tra le due Coree; nel Maghreb la Libia e la Tunisia.

Bisogna tornare indietro fino alla Seconda guerra mondiale per trovare un mondo così a rischio di esplodere in mille conflitti. Le due grandi guerre attualmente in corso, quelle in Ucraina e in Palestina, paiono in grado di innescare una spirale e di trascinare altri Paesi nel caos, avviando così un conflitto su larga scala, come si teme possa accadere fin d’ora in Medio Oriente. Di fronte a questa situazione incendiaria, appare evidente come la politica conti molto poco. Non soltanto quella multilaterale, che vede il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in teoria dispositivo di risoluzione dei conflitti, bloccato dai veti incrociati dei cinque Paesi dotati di seggio permanente, ma anche quella bilaterale e delle singole potenze. Le ripetute visite del segretario di Stato degli USA Antony Blinken in Israele dopo il 7 ottobre non hanno prodotto nessun effetto concreto sulla linea adottata dal Governo Netanyahu nei confronti di Gaza. Così come l’incontro del 2019 tra Donald Trump e Kim Jong-un non portò certo alla fine del programma nuclear-missilistico della Corea del Nord. Il paradosso è che oggi i principali attori globali condividono un’unica visione del mercato, come mai era accaduto in passato, ma i nazionalismi, i sovranismi, gli espansionismi si sono liberati dai lacci imposti dalla Guerra Fredda. A differenza di quanto accadeva in un passato ancora vicino, non c’è più nessuno in grado di fermare davvero le aspirazioni di chi punta le sue armi contro qualcun altro. Che si tratti del premier israeliano, del capo di Hezbollah, del presidente della Federazione Russa oppure di quello degli Stati Uniti.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Memoria

Il Giorno della Memoria è patrimonio irrinunciabile. Le tragedie di oggi ne rilanciano attualità e funzione. Memoria non è ricordo: è vita, progetto, futuro. Ri-cordare, riportare al cuore, è inizio, ma emozioni e stati affettivi non bastano. Memoria è intenzione, pensiero, spirito, anima; non è una volta per tutte; di essa occorre aver cura, nutrirla, proteggerla, tramandarla arricchita di condivisione e studio. I riti non son formule, adempimenti, ma modi della psiche per meglio strutturare l’innervazione della memoria nel tempo, nel succedersi delle generazioni, al di là della vita di singoli, gruppi, comunità; è garantirsi radici solide e sane oltre tempeste, bonacce, rigurgiti, rimossi, ombre. Il Giorno della Memoria è imprescindibile nella storia della modernità. È un ponte di ieri da cui una campata è protesa verso ciò che ha da venire. L’istituzione trae origine dalla faticosa presa di coscienza collettiva dell’unicità del male della Shoah, ma la memoria e il mai più di Auschwitz sono carne dell’umanità intera ferita per sempre. Vittime designate dello sterminio son stati gli Ebrei; obiettivo colpito l’uomo tout court. Se uno è posseduto dal demone dell’annientamento dell’altro distrugge l’umanità. Hannah Arendt riferì d’un discorso di Himmler ai comandanti delle SS. Il sodale di Hitler nella “soluzione finale” disse ai suoi boia che ciò che si attendeva da loro «è sovrumano», è di «essere sovrumanamente inumani». Frasi da brivido eterno! Una linea di demarcazione tra umano e non umano oggi passa anche attraverso la considerazione del Giorno della Memoria. È un errore legare la celebrazione della ricorrenza al giudizio politico di condanna dell’operato di Netanyahu. Non si rende nemmeno un buon servizio alla causa palestinese con accostamenti di nomi e vicende a
forte tonalità affettiva ma dimentichi che la storia non si ripete: siamo noi a scriverla con il bene e il male che siam capaci di scegliere e di generare. Forse l’oggi del Giorno della Memoria conquisterebbe coscienze e passioni riprendendo il titolo del messaggio per la Giornata della Pace del 2002 di Wojtyla: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono».

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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L'Ambrosiano

Dio s’è pentito d’aver fatto l’uomo

Dal 24 febbraio 2022 ci chiediamo come mai in Europa dopo 80 anni è scoppiata la guerra. Milioni di morti, Shoah, atomica sembravano aver vaccinato dal virus psichico dell’uomo che annienta l’altro. Negli Anni ’90 su Mladic e Karadžić ce la siam raccontata tra genocidi coda d’un conflitto nell’ex Urss, bombe intelligenti, Nato, caschi blu. Il 7 ottobre, la tragedia dell’irrisolto: stupri, carneficina, orrori di Hamas, risposta d’Israele che s’è difeso come suo diritto ma ha portato il conto dei morti a Gaza 20 a 1. Alle domande sommo un pensiero autocritico: la mia generazione ha creduto bastassero idee, dialogo, fedi religiose, diritti maturati col sangue dei morti in Guerra e lotta di Liberazione; se vita, cultura, umanità avevan sconfitto nazifascisti, riscattato persone, popoli, Stati avrebbero continuato a rilasciare libertà, positività, rispetto per l’altro come una pietra radioattiva non perde le sue proprietà nel tempo. Abbiamo avuto Maestri ma non ne abbiam tradotto il grande lavoro intellettuale in vita, politica, psicologia, scienze, economia, arte. Punto di riferimento della generazione nata con la guerra Martin Buber (1878-1965) in Il principio Dialogico scrive: «L’atteggiamento dell’uomo è duplice per la duplicità delle parole fondamentali che egli dice. Le parole fondamentali non sono singole, ma coppie di parole. Una di queste parole fondamentali è la coppia io-tu […] Anche l’io dell’uomo è duplice». Io-tu è del 1923! In Immagini del bene del male aveva scritto: «L’uomo è diventato “simile a Dio” in quanto come lui “conosce” l’antiteticità; ma non può come Dio esserle superiore, si immerge in essa, ne è assorbito». Preso dentro l’uomo è «in balia della conoscenza del bene e del male» ma non ne supera l’antitecità, anzi porta nel creato arbitrio e caoticità; è «la ragione per cui Dio si pente di aver fatto l’uomo». Se a Mosca, Washington, Gerusalemme (lì Buber insegnò), Kiev, Doha Bruxelles, Teheran si realizzasse che Dio cui va stretto l’elmetto potrebbe pentirsi d’aver prestato somiglianza e immagine a un uomo che vuole annientare l’altro, forse s’affaccerebbe un tarlo, il dubbio. Fermarsi, interrogarsi, prender l’iniziativa, parlare: io-tu, uomo-uomo, Pace!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Mia cara Olympe

Maternità a ostacoli: due storie italiane

Il fronte è quello della maternità ed è sempre aperto. Il fronte? direte… Non saprei come altro chiamarlo in un paese che si straccia le vesti per una demografia implacabile che ci fa con il Giappone i più vecchi del mondo e, con l’altra mano, conduce una sotterranea ma minuziosa e capillare lotta a chi, le donne, quei figli li fa e intende crescerli senza rinunciare al lavoro, alle proprie aspirazioni, alle proprie competenze. Ed ecco due ‘piccole’ storie a loro modo esemplari e con opposti esiti. La prima è quella di Francesca Dell’Aquila, consigliera comunale – anzi dobbiamo dire ex e suo malgrado –  che ha lasciato la politica (nel Pd) perché – mentre tutto il mondo lavora da remoto – a Monza  non è stato possibile garantirle di seguire da casa i lavori consiliari. Sapete com’è? I tempi lunghi, le modifiche necessarie, lo statuto, i regolamenti: le giustificazioni per non rimuovere gli ostacoli che si pongono ad una neomamma per continuare la propria vita e nel contempo allevare la propria figlioletta  formano una montagna di cui, alla fine, nessuno porta responsabilità. E Francesca oggi è una di meno: una più delusa –  “Da una forza politica che ha una segreteria donna mi sarei aspettata una sensibilità diversa”, ha detto – una che, lasciando, abbassa ancor di più il tasso di partecipazione politica delle donne in Italia che già non brilla. Una che chissà come riuscirà a spiegare alla propria bimba che, nel 2024 in un ricco comune dell’Italia del nord, non si è riusciti  a mettere in piedi una connessione da remoto per far sì che lei esercitasse il proprio diritto di eletta e il proprio ruolo di rappresentante della comunità. Non è successo niente a Monza: qualche articolo qua e là e ciao Francesca…

È andata meglio a Lara Ricci: demansionata dal Sole24ore al ritorno dalla maternità a maggio del 2021 – vicecaposervizio al supplemento culturale, prima gestiva decine di collaboratori e teneva una rubrica,  poi si era ritrovata, secondo le sue stesse parole, ad avere meno responsabilità di quando era stagista – la giornalista, dopo mille e inutili sollecitazioni interne e sostenuta dal suo comitato di redazione, si è rivolta alla magistratura e ha vinto i due gradi di giudizio. A luglio 2023 la prima pronuncia, non certo lusinghiera per quel Sole 24 ore che ha ottenuto, primo gruppo editoriale italiano, la certificazione sulla parità di genere e che ora si è visto rigettare anche il proprio ricorso contro la prima sentenza: le motivazioni della giudice milanese Maria Beatrice Gigli si leggeranno tra un mese e il giornale dovrà pubblicarle, il succo però è chiaro. La discriminazione c’è stata, Lara Ricci ne è stata vittima: in nome di una ‘nuova organizzazione del lavoro’ che, guarda caso, ha tirato una riga solo sul suo di lavoro, relegandola a ben più anguste mansioni. Lara ha vinto, ma ci sono voluti anni, molta costanza e un prezzo intuibile da pagare.

Italia 2024 e sembra che nulla sia cambiato da quando – colloquio di assunzione in una grande casa editrice, correva l’anno 1987  – il capo delle risorse umane chiedeva senza vergogna alle giovani giornaliste se avevano intenzione di fare figli, modo neanche troppo velato per significare che era meglio accantonare l’idea. E non sembra soltanto: poco è cambiato, i numeri di quelle che mollano perché non riescono a tenere insieme tutto, perché economicamente non conviene, perché il nido non c’è e quello privato costa troppo, perché si è troppo sole, perché al lavoro non te ne fanno passare mezza, rappresentano un esercito in ritirata. Di questa ritirata  (una su 5, avuto il primo figlio, non lavora più) prima ancora che della natalità  bisognerebbe occuparsi: garantire alle donne il loro lavoro, un lavoro, una carriera è il primo tassello di una società equa che non spreca competenze ed energie e che consente di coltivare un progetto di maternità a chi lo desidera.

Siamo lontane e lontani da tutto ciò. Pensate: in Italia, ci dice Openpolis, siamo al 28% di copertura per gli asili nido su un obiettivo fissato al 33 prima e ora, a livello comunitario, addirittura al 45%. Peccato che ciò avvenga non perché aprono nuove strutture ma perché nascono meno bambini, peccato che in quel Sud in cui il tasso delle donne al lavoro non tocca neanche il 30% i nidi siano pochissimi: 14,6% in Calabria, 13 in  Sicilia, 11,7 in Campania… Tutto si tiene e si tiene male.

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Appunti sulla mondialità

A tre anni dal golpe, il triste primato birmano

Il primo febbraio del 2021, senza fare clamore in un mondo ancora scosso dalla pandemia, in Myanmar i militari rovesciarono il governo e tornarono al potere. Un potere che avevano ufficialmente lasciato nel 2010, ma senza mai allontanarsene molto: per una decina d’anni avevano continuato a condizionare la fragile democrazia birmana, rimasta sempre sotto la “tutela” delle forze armate. I motivi per i quali, all’inizio del 2021, i militari decisero di tornare alla gestione diretta del potere sono diversi, ma quasi tutti riconducibili ad affari illeciti: ora nel campo dell’estrazione mineraria e delle pietre preziose, ora delle cyber-frodi e del traffico di stupefacenti. Un mix di modernità e di ritorno al passato, quando i militari riciclavano i proventi nel settore turistico per coltivare e commercializzare il papavero da oppio.

Il golpe del 2021 fu favorito in modo nemmeno tanto occulto dal più ingombrante tra i vicini del Myanmar, la Cina, all’epoca in procinto di diventare la monopolista di fatto nell’estrazione delle cosiddette “terre rare”. Si tratta di 17 elementi chimici alla base della rivoluzione tecnologica attualmente in corso ma particolarmente rari, cioè difficili da individuare, estrarre e lavorare. Non tutti i Paesi li hanno a disposizione: la produzione mondiale, infatti, è concentrata in Cina (che da sola controlla circa il 62% del mercato), USA (12%), Myanmar e Australia (10% ciascuno). Poi restano le briciole. È evidente che per Pechino arrivare a controllare tre quarti del mercato di questi minerali strategici significa instaurare quasi un monopolio globale e, insieme, raggiungere la perfetta quadratura del cerchio, essendo la Cina anche il primo produttore mondiale di alta elettronica. Ed è esattamente quello che è accaduto dopo il colpo di Stato in Myanmar. Il “debito” che i militari birmani hanno contratto nei confronti di Pechino, infatti, si è tradotto nella concessione del controllo dell’estrazione delle terre rare alla Cina, che non solo iper-sfrutta i giacimenti del Myanmar, ma scarica anche sul Paese vicino il grande impatto ambientale associato all’estrazione.

Oggi, però, non tutto fila liscio tra i militari e la Cina. Nel Nord del Myanmar si è formata un’alleanza tra l’esercito delle forze di opposizione e quello della minoranza cinese, e i “ribelli” stanno conquistando una fetta importante di territorio. Già controllano Chinshwehaw, una città di confine con la Cina vitale per gli scambi commerciali tra i due Paesi. Il silenzio di Pechino sui combattimenti in corso lascia presagire una presa di distanza dal regime birmano , che si può spiegare con due ordini di motivi. Il primo riguarda il fiorire, proprio nel Nord del Paese, di attività di cyber-frodi che hanno colpito soprattutto la Cina; il secondo è il ruolo decisivo che la minoranza di etnia cinese sta assumendo nella resistenza. Per i militari, che hanno represso l’opposizione democratica uccidendo migliaia di persone, la sfida armata si sta facendo insidiosa, e lo sarà ancor più se verrà meno la copertura politica di Pechino. Ciliegina sulla torta è il Rapporto annuale 2023 dell’Office on Drugs and Crime – l’ente “antidroga” – delle Nazioni Unite, nel quale si legge che la produzione di oppio in Myanmar è aumentata del 36%, che le aree di coltivazione si sono ulteriormente estese e che i proventi del traffico ormai equivalgono al 2-4% del PIL nazionale: il Myanmar ha superato l’Afghanistan e detiene il triste primato di essere il primo produttore mondiale di oppio.

I militari birmani hanno quindi confermato tutte le loro peggiori caratteristiche, dal fomentare un nazionalismo farlocco, che ha portato alla tragica espulsione della minoranza rohingya verso il Bangladesh, alla pratica della repressione di massa; dal favorire le truffe informatiche alla vecchia tradizione della produzione di oppio. Il tutto finora è avvenuto nel silenzio grazie alla sponsorizzazione interessata della Cina, che però adesso sta prendendo le distanze. I “Machiavelli” che governano a Pechino hanno fatto i loro conti: se, alla fine, i militari resteranno in piedi, saranno sempre uomini a loro disposizione; se invece prevarrà l’opposizione, nella quale la minoranza cinese ha un ruolo centrale anche dal punto di vista militare, i rapporti con il Myanmar resterebbero comunque buoni. È una politica losca, ma è pur sempre una politica. Il resto del mondo rimane a guardare, anche se qui sono in gioco diversi punti chiave dell’agenda globale.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Mitologia Popular esplora e racconta il folclore e la cultura popolare brasiliana: da miti e leggende come Saci Pererê, Mula sem cabeça, Cuca alla storia di piatti tipici come la feijoada o la moqueca, passando per la letteratura, il carnevale, la storia delle città più famose e la musica, ovviamente. Conduce Loretta da Costa Perrone, brasiliana nata a Santos che, pur vivendo a Milano da anni, è rimasta molto connessa con le sue origini. È autrice del podcast Lendas con il quale ha vinto gli Italian Podcast Award per il secondo anno consecutivo.

    Mitologia Popular - 16-04-2025

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    The Box di mercoledì 16/04/2025

    la sigla del programma è opera di FIMIANI & STUMP VALLEY La sigla è un vero e proprio viaggio nel cuore pulsante della notte. Ispirata ai primordi del suono Italo, Stump Valley e Fimiani della scuderia Toy Tonics, label berlinese di riferimento per il suono italo, disco e house, ci riportano a un'epoca di neon e inseguimenti in puro stile Miami Vice, un viaggio nella notte americana alla guida di una Ferrari bianca. INSTAGRAM @tommasotoma

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    L’ultimo approfondimento dei temi d’attualità in chiusura di giornata

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