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L'Ambrosiano

Sapessi com’è strano fare l’indiano a Milano, con Covid e inquinamento

Delhi chiama Milano, che fa finta di niente e va avanti. Media, visioni mediche specialistiche, politica accreditano comportamenti individuali scorretti quali cause di diffusione Covid. Hanno ragione. Il torto è non dare informazioni complete, tacere l’incidenza dei fattori ambientali o sminuirla, voltar la faccia per ignoranza, convenienze, interessi di bottega.

Nei Paesi in cui si fa ricerca (anche per questa in Italia si aspetta SuperDraghi) studi scientifici mostrano la correlazione inquinamento atmosferico/patologie; la pandemia moltiplica i nessi, con ricadute su psiche, vissuti, stati emotivi. Un’aria malsana rende fragile l’apparato cardiorespiratorio e indebolisce il sistema immunitario. Gli studiosi spiegano le scene raccapriccianti dell’India che brucia cadaveri per strada col fatto che Delhi è la capitale più inquinata del mondo; già prima del Covid il 18 per cento delle cause di morte era da far risalire ai veleni che minano i polmoni d’una popolazione molto meno anziana di noi. Paradossi d’un capitalismo sregolato: tanta manodopera giovane attrae risorse (ad esempio: in quel Paese le multinazionali producono gran parte dei vaccini che esportano nel resto del mondo); a genti e governi del posto resta la disumanità dei costi.

I mondi lontani riflettono ciò che non vogliamo vedere di noi. La Lombardia è un catino di veleni molto pericoloso. L’han denunciato ambientalisti, Report, medici e igienisti ambientali. Ma guai a parlarne. In Regione, categorie, partiti ci si stizzisce alle inchieste sugli sversamenti dei liquami da allevamenti intensivi e miasmi conseguenti. The Lancet Planetary Health ha indicato Brescia e Bergamo (province da picchi Covid) in testa nella classifica dei morti (evitabili) da polveri sottili a cui i virus si aggrappano e viaggiano. Milano e Lombardia hanno abbozzato: i media affetti da ansia da prestazione e la politica divisa tra ricerca compulsiva dei like e dubbi su “bene comune chi-era-costui?”.

Dehli resti in India, ok; ma ci vorrebbero: adeguato Piano Regionale sulla qualità dell’aria; prevenzione nei processi produttivi (Roma parla di transizione ecologica; e le Regioni? le “eccellenze”?); ambienti di lavoro tutelati, umani. Ci vogliono!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Sbilanciamoci

Perché ci serve il giovane Marx

In questi giorni è in libreria il mio “Il giovane Marx” edito da Jaca Book. Tornare a parlare del giovane Marx -al di là delle riscoperte storiche e degli aggiornamenti filologici ricorrenti di fronte ai grandi pensatori- ha senso se si mette in relazione l’opera e il pensiero di quegli anni ai tempi che stiamo vivendo. Le sue riflessioni sulla alienazione (anticipazione di molte riflessioni della Scuola di Francoforte e degli esistenzialisti, ma addirittura del pensiero di Illich sulla espropriazione dell’umano dal dominio delle merci), sui bisogni indotti dal capitale (analisi precoce del consumismo neocapitalista), sul denaro (come la nuova merce della finanza rapace) sono di grandissima attualità.
Come lo sono le sue riflessioni sulla globalizzazione capitalista di metà ottocento che evoca con forza ed analogie la globalizzazione neoliberista degli ultimi 40anni: la necessità di un mercato mondiale e di consumi senza frontiere. Ristudiare, rileggere il giovane Marx (e tutta la sua opera) significa dotarsi di importanti strumenti di analisi e di comprensione della traiettoria che la società e l’economia capitalista hanno preso negli ultimi decenni, significa capire le distorsioni antropologiche, le perversioni sociali, la disumanizzazione sociale che stanno colpendo le nostre comunità.
Se l’opera del giovane Marx non ha la sistematicità scientifica dei lavori della maturità (in particolare del Capitale), gli scritti giovanili affascinano per la freschezza delle argomentazioni, per la dimensione umana ed etica, per i rimandi alla letteratura e all’arte (che comunque non mancheranno anche nelle opere mature).
Dalle opere giovanili di Marx emerge soprattutto la volontà di andare a fondo delle cose, di evidenziare sempre la centralità della condizione umana come specchio dello sfruttamento della borghesia sul proletariato. Come ebbe a dire ne La critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione: “Essere radicali significa andare alla radice delle cose e per l’uomo la radice delle cose è l’uomo”. A questo va aggiunto che i primi 30 anni della vita di Marx sono quelli della maggiore intensità rivoluzionaria, dell’indignazione (non moralistica, o del sognatore, ma genuinamente politica e teorica), delle persecuzioni, dell’esilio, della rinuncia alla carriera borghese per vivere in povertà dedicandosi alla rivoluzione e al comunismo.
Come ha ricordato il suo biografo più acuto, Franz Mehring, alla rivoluzione Marx ci penserà sempre, non ci rinuncerà mai, dedicando tempo e impegno a riunioni, alla vita delle organizzazioni degli operai e dei comunisti. Marx rimase fino alla fine fedele agli ideali della sua gioventù. Fa sempre bene ricordarlo ai ragazzi e alle ragazze che oggi non accettano la realtà che ci sta davanti, la vogliono cambiare e ribellarsi al potere e al dominio dei pochi. Tutto questo non è -come scrisse Marx nella lettera ricordata a Ruge- solo il sogno di una cosa (che Pasolini riprese per il titolo del suo primo romanzo), ma lo si chiami comunismo o in altro modo (comunque l’impegno per cambiare le cose) ha per conseguenze la lotta e cioè: “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti.

  • Giulio Marcon

    Portavoce della campagna Sbilanciamoci!, è stato negli anni '90 portavoce dell'Associazione per la pace e Presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà. È stato deputato indipendente di SEL nella XVII legislatura, facendo parte della Commissione Bilancio. Tra i suoi libri: (con Giuliano Battiston), La sinistra che verrà (minimum fax 2018) e (con Mario Pianta), Sbilanciamo l'economia (Laterza 2013)

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Urlando furiosa

“il cinque maggio!”

Ei FuS. Siccome immobile,
Dato il normal sospiro,
Stette il Ministro immemore
Orbo di tanto spiro,
Così percosso, attonito
il teatro al nunzio sta,

Muto pensando all’ultima
Ora della legge delega fatale;
nè sa quando una simile
Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.

Lui desolante in zoom
Vide i nostri volti e tacque;
Quando, con inerzia assidua,
poco rispose e giacque,
Di mille voci al seguito
Mista la nostra non ha:

Dal Mercadante al Piccolo,
La nostra voce sorge,
Dal palco alla graticcia
Una riforma porge
Che fu la nostra fatica
Che partì da tanta urgenza

ce la faremo noi?
Ai posteri
L’ardua sentenza.

  • Rita Pelusio

    Attrice e regista, nei suoi lavori con la drammaturgia di Domenico Ferrari utilizzano il linguaggio dell’arte comica per affrontare tematiche sociali e civili. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche. E’ amica di Radiopopolare con la quale si sveglia ogni mattina.

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Palazzeide

In memoria di Luana e di tanti altri. Due ogni giorno

Il Senato ha osservato un minuto di silenzio per ricordare Luana D’Orazio, la ragazza di 22 anni morta sul lavoro, schiacciata da una macchina tessile. Ma anche il giorno dopo c’è stato un altro morto sul lavoro ma nessun minuto di silenzio per lui. Ogni giorno ci sono due persone che muoiono sul lavoro, una strage quotidiana, e quest’anno nei primi tre mesi, nonostante lo smart working, la percentuale è stata più dell’alta dell’anno scorso, l’11 per cento in più secondo l’Inail. Non si può scoprire con la morte di una ragazza di 22 anni, madre di un bambino piccolo, il drammatico problema della sicurezza sul posto di lavoro. Perché fare il minuto di silenzio per una sola vittima, che ha colpito tutti perché giovane e madre, perché bella e con i sogni del cinema, che aveva fatto la comparsa per un film di Pieraccioni, vuol dire non aver capito la drammaticità di questo fenomeno e farlo diventare un evento solo emozionale, ma non politico, quando invece è profondamente un problema politico e sociale. Allora che si faccia un minuto di silenzio per ogni vittima sul lavoro, forse solo così il Parlamento e le istituzioni si renderanno conto di quello che accade lì fuori, nelle fabbriche.

Foto | Un giovane di 18 anni originario del Senegal, Alaenj Camara, è morto in un’autofficina a Palermo, 19 novembre 2019. Il giovane stava smontando la ruota da un grosso camion quando lo pneumatico è esploso e lo ha investito

  • Anna Bredice

    A Roma con il cuore, una figlia e la testa, a due passi dai tetti belli di Garbatella e dal Gazometro di Ostiense, atmosfere tra Ozpetek e il caffè sospeso di Casetta Rossa. A Milano con gli affetti, la famiglia e la radio della vita. Seguo la politica per Radio Popolare da tanti anni, con impegno, partecipazione, a volte rabbia e passione.

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La nave di Penelope

Apologia dei banchi a rotelle

Dei banchi a rotelle si è detto di tutto. Derubricati come “uno spreco di fondi pubblici”, periodicamente vengono tirati in ballo dai media. Spesso e volentieri per attaccare l’ex ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, che non si stanca di ribadire che nessuna scuola era obbligata a comprarli, che era un’opportunità data agli istituti di scegliere dei banchi monoposto diversi da quelli classici, nel caso avessero voluto sperimentare un tipo di didattica alternativa alle classiche lezioni frontali.

Ora, qui, non voglio entrare nella polemica. Voglio vestire per un giorno i panni dell’avvocato del diavolo e tentare di scrivere un’ “Apologia dei banchi a rotelle”. E come ogni buon avvocato, ho cercato dei testimoni che possano darmi una mano nella linea difensiva. Anche se più che un’ “Apologia dei banchi a rotelle”, quello che ne viene fuori è più un “Cinquanta sfumature di banchi a rotelle”. Ma tant’è.

La ricerca non è stata facile, in tanti hanno risposto: “No, noi non abbiamo banchi con le rotelle, niente arredi nuovi, eravamo già a posto”. Poi ci sono quelli che ammettono che gli studenti li usano in stile “go-kart”. Ma del resto, siamo onesti, anche noi da ragazzini avremmo resistito alla tentazione di lanciarci da un punto all’altro della classe scivolando sulle ruote?

Lo ammette anche Anna, che insegna in un liceo scientifico in Veneto. Ha fatto una supplenza in un’aula con i banchi a rotelle. “Facevano l’autoscontro?”, le chiedo, ricordando come nelle “ore buche”, quando ero al liceo, c’erano momenti ludici o in cui in tanti si rilassavano chiacchierando, anche alzandosi e sgranchendosi le gambe. “Macché erano tutti zitti e immobili e con la testa sui libri, ripassavano per l’ora dopo. A volte mi fanno paura per quanto sono seri”, scherza, anche lei sorpresa. Mi spiega che in queste aule con i banchi a rotelle, oltre alle supplenze, gli studenti vengono portati anche per svolgere tornei, come i giochi di Anacleto (competizioni di fisica).

Perché questi banchi è difficile che vengano usati in tutte le classi. All’istituto professionale alberghiero Carlo Porta di Milano ne hanno un centinaio. Li hanno scelti, al momento di ordinare gli arredi, per metterli nelle aule più piccole e creare così una condizione di maggiore distanziamento tra le sedute, anche in spazi ristretti. “Ci abbiamo provato all’inizio dell’anno ma gli studenti ci hanno chiesto di riavere i loro banchi normali”, spiega la preside Rossana Di Gennaro. Qual è il problema? Soprattutto la qualità. Spiega che sono molto leggeri. “Basta un pavimento leggermente in pendenza e questi partono, bisogna stare con i piedi puntati per tenerli fermi”. Poi si smontano troppo facilmente e la ribaltina è troppo piccola per mettere quello di cui uno studente ha bisogno durante la lezione.

Ma a scuola non si butta via niente quindi, anche se non si è riusciti a utilizzarli per il motivo per cui sono stati ordinati, i banchi non sono stati messi da parte. A scuola, sottolinea Di Gennaro, “bisogna essere creativi”. E così i banchi li usano gli insegnanti di sostegno. Al Carlo Porta sono tanti, nella scuola c’è un’alta presenza di studenti con disabilità. Questi banchi consentono ai professori di muoversi secondo le loro esigenze e rimanere alla giusta distanza dagli studenti per fare il proprio lavoro rispettando le normative anti-covid.

Tra gli utilizzi creativi anche quello della scuola media Nazario Sauro di Milano in occasione della Festa della Liberazione. Un uso coreografico: hanno disposto i banchi a rotelle in cortile per creare un enorme simbolo dalla pace e lo hanno ripreso da un drone. Al di là dell’evento specifico, in questo istituto, le sedute sono utilizzate in aula magna.

In ogni caso, la scelta di diversi istituti, come abbiamo visto, è di usarli solo in alcuni spazi. Non in tutta la scuola. Come mai? Ancora una volta la spiegazione sta nella ribaltina troppo piccola e che non consentirebbe di aprire più libri per volta, come a volte risulta necessario. Me lo spiega il preside del liceo scientifico Volta di Milano, Domenico Squillace, che ha comprato una cinquantina di banchi a rotelle per i laboratori.

Squillace è un ottimo testimone, mi fa notare come si siano costruite troppe polemiche sterili su questi banchi azzoliniani e troppe strumentalizzazioni. È vero, sono leggeri, ma in realtà la qualità non è alta neanche dei nuovi banchi monoposto classici, privi di rotelle, che sono arrivati e si capisce che “non sono destinati a durare a lungo”, mi dice. Non sono più solidi come quelli che eravamo abituati a vedere. Ma poi a ben vedere, anche quelli, sono mai stati adatti alle nostre esigenze?

Mi ricorda anche com’erano i banchi fino a pochi anni fa. Da quelli con il calamaio, sopravvissuti dai tempi dei nostri nonni e che abbiamo fatto in tempo a usare noi, come prima di noi i nostri genitori, senza mai aver visto una penna che necessitasse una boccetta d’inchiostro in cui intingerla. E dal buco nell’angolo del banco, regolarmente cadeva qualche penna, più moderna di quella in piuma d’oca, che poi rotolava da qualche parte e spariva inesorabilmente.

E poi c’è il “sediagate“. Non parlo di quella poltrona che il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha negato alla presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen. Ma di quelle di legno che erano tutte scheggiate e hanno attraversato i decenni e le riforme scolastiche. Quelle che solo guardandole smagliavano le calze, bucando i collant di intere generazioni di studentesse.

E le sedie, come i banchi – con foro per il calamaio o no -, erano tutte di dimensioni diverse. Ed era un continuo incastro e scambio di sedie con i propri compagni per trovare la combinazione che consentisse di sedersi senza che il banco si sollevasse sulle proprie gambe.

Le sedute di questi banchi a rotelle, invece, “sono comode”, assicura il preside che ne ha uno in presidenza. Lui lo utilizza per pranzare, stendendo la sua tovaglietta sulla ribaltina all’ora di pranzo e ha così avuto modo di provarlo. Ma gli altri banchi sono tutti nei laboratori, come da piani.

E li trova molto utili. Consentono di non intasare le aule, creando spazi per muoversi, “e di modificare l’assetto della classe molto rapidamente”. Perfetti quindi per i lavori di gruppo, le attività laboratoriali e tipi di didattica diversi dalle classiche lezioni centrali.

Molto apprezzati, per questo, dai docenti che vogliono sperimentare altri metodi. Mi viene ribadito anche da una docente di lettere del liceo classico Beccaria di Milano, in cui questi banchi non sono presenti perché il parco arredi era già stato rinnovato prima della pandemia. Ma mi ricorda come i banchi a rotelle, presenti da tanto tempo nelle scuole del Nord Europa, prima di diventare il simbolo della ministra Azzolina, sono sempre stati ammirati. Strumenti, ricorda, presentati anche alla fiera italiana dell’innovazione scolastica per eccellenza, Didacta, e che consentono di modificare la disposizione delle sedute nell’aula per le esigenze di metodi didattici innovativi.

Veniamo ora all’arringa finale. Partiamo dal dato di fatto. Ora i banchi a rotelle ci sono. Possono essere utilizzati in diversi modi. Abbiamo visto qualche esempio creativo e quello, invece, per cui sono stati pensati. Come ad esempio l’utilizzo didattico per i laboratori. Sono versatili. Non saranno perfetti ma lo erano quelli con i calamai, le sedie scomode e gli altri arredi scombinati di qualche decennio fa? Ci siamo forse messi a demonizzarli all’epoca? E allora diamo una chance ai banchi a rotelle, proviamo a guardarne le potenzialità e a sfruttarle con la creatività di cui solo la scuola è capace.

  • Claudia Zanella

    Sono nata a Milano nel 1987. Ma è più il tempo che ho passato in viaggio, che all’ombra della Madonnina. Sono laureata in Filosofia e ho sempre una citazione di Nietzsche nel taschino. Mi piacciono tante cose ma, se devo scegliere tra le mie passioni quali sono quelle che più parlano di me, direi: la Spagna, il rock e il giornalismo. Dopo averci vissuto, Madrid è la mia città d’elezione; il rock scandisce il mio ritmo di vita e venero le mie chitarre come oggetti magici; infine, fare la giornalista soddisfa il mio impulso alla Jessica Fletcher di voler sempre vedere chiaro e poi raccontare. Ho lavorato per cinque anni per La Repubblica, come cronista e responsabile del settore “Educazione e scuola” a Milano. Cofondatrice del progetto di storytelling su Milano ai tempi del coronavirus: “Orange is the new Milano”. Sono approdata a Radio Popolare nel 2019, occupandomi di un po’ di tutto, ma mantenendo sempre un occhio vigile sul mondo della scuola.

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