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L'Ambrosiano

Il virus psichico della vittoria

La carica eversiva del premierato è ormai chiara. L’accordo tecnico di maggioranza viaggia con due mantra: sapere la sera del voto chi ha vinto e governerà; il Capo dello Stato dovrà far quanto diranno i vincitori come si va dal notaio a registrare atti tra privati. Stabilità, anti inciuci, ribaltoni, governi tecnici, come Meloni e corifei ripetono alla noia son retorica che nutre le radici dell’antipolitica impiantata nel Paese da anni di populismo destro-grillino e errori a sinistra. Con 4 articoli (tono minimalista ingrediente per manipolare l’opinione pubblica) si mina l’impianto costituzionale. La Carta antifascista (parola-lisca nella gola di Meloni e La Russa) è inclusiva, prevede equilibri, contrappesi, mediazioni, organi di garanzia, dialoghi, compromessi in vista d’un bene comune di cui condividere i valori e perseguirli col concorso di tutti. Le norme costituzionali, nate dalla lotta di Liberazione, son frutto d’una civiltà del diritto volta a comprensione e convivenza tra culture, interessi, visioni del mondo, assetti e politiche di pace. Il premierato meloniano invece risponde ad una concezione del “diritto al comando” da parte del più forte, di colui (o di colei) che sa individuare singoli, gruppi, idee, situazioni come nemici da combattere; innescare meccanismi vittimistico-proiettivi; riscrivere la storia come frutto d’errori di chi c’era prima e promessa di palingenesi grazie a chi è legittimato dal voto diretto d’un popolo in cui, con condoni e interventi di parte ad efficace persuasione, pancia ed egoismi prevalgano su ideali, incontri, dialoghi, mete condivise. La destra pone al centro la vittoria degli uni contro gli altri; istituzioni e leggi son mezzi dei primi per sopraffare gli sconfitti, ai quali non resta che farsene una ragione (mantra di Meloni) e coltivare frustrazioni, rancori, rivincite: scenari bellici mortificanti l’umano, esiziali per il futuro. Col premierato i post repubblichini scaricano sul Paese una rivalsa covata per non aver accettato la sconfitta della storia. Rimosso il Covid, la vittoria è culto, virus psichico che mina le istituzioni. Campagna d’immunizzazione urge, col vaccino d’una politica che rilanci la Costituzione coltura di pace!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Reggae in lutto: ci ha lasciato Aston “Family Man” Barrett

Mentre il mondo del reggae è in subbuglio e finalmente di nuovo sulla bocca di tutti grazie alle premiere mondiali del biopic su Bob Marley, ieri se n’è andato l’immenso Aston “Family Man” Barrett, che insieme al fratello Carlton è stato l’anima di quell’incredibile sezione ritmica che fece grandi Bob e i suoi Wailers.
Nato a Kingston il 22 novembre del 1946, Aston ha lasciato il corpo ieri a Miami dopo una lunga malattia. È morto nella stessa città di Marley e come Tuff Gong, suppongo, il suo corpo verrà presto trasportato a Kingston e seppellito con tutti gli onori che merita un musicista entrato di diritto nelle leggenda.
Nato nei ghetti, Aston si è arrangiato come meccanico e riparatore di motociclette finché, giovanissimo, non è entrato – insieme al fratello Carlton, batterista di raro pregio – nelle grazie di quel geniale “matto” che risponde al nome di Lee “Scratch” Perry. I Barrett sono stati la spina dorsale degli Upsetters di Perry e, poi, dei Wailers.
“La batteria è il battito del cuore, e il basso la spina dorsale”, ha detto una volta Aston “Se il basso non è a posto, la musica ha il mal di schiena e si paralizza.”
Ed è vero: se il suono di Perry prima e di Bob poi, è riuscito a diventare così denso, potente e preciso, il merito va certamente condiviso con la sezione ritmica che hanno fornito Aston e Carlton. Marley adorava il tocco di quei due, e nutriva una particolare simpatia per Aston. Tutto nacque dal fraintendimento sul suo soprannome, “Family man”. Bob aveva pensato lo chiamassero così perché era un uomo giudizioso e saggio, come un capo famiglia, e magari avesse più anni di quelli che dimostrava. Non era quello il motivo, e quando Scratch gli spiegò il perché di quel soprannome stava per soffocare dal ridere. A ventiquattro anni, pare che Aston avesse già oltre venti figli. E non si è fermato, raggiungendo, si dice, la cifra record di cinquantatré!!!
Dopo la scomparsa di Marley – e di suo fratello Carlton, assassinato dalla moglie in combutta con l’amante il 17 aprile del 1987 – Aston ha continuato a portare in giro per il mondo la musica dei Wailers, senza tralasciare interessanti progetti solisti e collaborazioni con altri grandi del reggae, da Augustus Pablo ad Alpha Blondy, e poi Burning Spear, Peter Tosh, gli Israel Vibration, Jacob Miller, Bunny Wailer, eccetera eccetera eccetera. Praticamente non esiste un disco epocale nell’era d’oro del roots in cui non abbia suonato “Family Man” Barrett, anche detto, e non a caso, “The Man”.
In una vita piena, ricca di successi e riconoscimenti, Aston ha commesso un unico errore, diciamo di “lesa maestà”: si è messo contro la Island Records e la famiglia Marley!
Nel 2006 ha infatti intentato una causa contro la Island, chiedendo 60 milioni di sterline per royalties non pagate sia a lui che al suo defunto fratello Carlton. La tesi difensiva della casa discografica, coadiuvata dalla famiglia Marley, era che Barrett avesse ceduto i suoi diritti su eventuali ulteriori royalties in un accordo siglato nel 1994 in cambio di diverse centinaia di migliaia di dollari. E il giudice gli ha dato ragione. Per pagare i circa 2 milioni di sterline di spese legali, “Family Man” ha dovuto vendersi due case in Giamaica. State tranquilli, non è finito sul lastrico, è sempre stato uno molto attento e previdente nel gestire il proprio denaro.
Keith Richards, notoriamente grande appassionato di reggae, una volta ha detto: “La prima volta che i Wailers andarono in Inghilterra li sentii suonare per caso a Tottenham Court Road. Pensavo che fossero piuttosto deboli rispetto a quello che avevo sentito in giro. Ma poi è entrato nella band “Family Man” e a quel punto Bob aveva tutto quello che gli serviva”.
E noi, ovviamente, concordiamo!
Riposa in pace grande anima del reggae…

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Appunti sulla mondialità

#Lulanomics, un anno di governo Lula.

Dopo il grande rumore mediatico scatenato nel gennaio 2023 dall’assalto dei bolsonaristi ai palazzi del potere di Brasilia, di Brasile si è parlato relativamente poco, e soltanto per il rinnovato protagonismo internazionale sotto la guida di Lula da Silva, in particolare insieme agli altri Paesi BRICS. Ma per Lula la vera sfida è stata restituire la fiducia nello Stato ai brasiliani, provati dalla disastrosa gestione della pandemia, e insieme rilanciare un’economia ristagnante. A distanza di un anno, i numeri confermano la capacità del “presidente operaio” di gestire un’economia complessa, che per quasi sei anni era stata trascurata dalla politica. L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha appena alzato il rating del Paese sudamericano da BB- a BB, il tasso di sconto è stato ridotto all’11,75%, il dato più basso dal marzo 2022, ed è scesa anche l’inflazione annua, prevista dalla Banca Centrale al 3,25% per il 2024. Una riforma sostanziale è stata quella tributaria, rimandata da decenni, che offrirà agli investitori internazionali un quadro certo. Riprendendo la tradizione industrialista del suo partito, Lula ha appena annunciato un maxi-piano di investimenti di quasi 60 miliardi di dollari USA per le imprese dell’agroindustria e della sanità, ma anche per quelle attive nella trasformazione digitale e nella decarbonizzazione.

Resta sempre delicato il dossier Amazzonia, dopo il calo dei minatori illegali, dimezzati dalle espulsioni operate in questi mesi dall’esercito, e il ripristino dei sistemi di sorveglianza satellitare per la prevenzione degli incendi. La foresta soffre però le conseguenze di una grave siccità prodotta dai cambiamenti climatici e ripristinare l’equilibrio naturale è sempre più difficile. Gli ambientalisti hanno criticato la richiesta di adesione all’OPEC avanzata del governo brasiliano, che l’ha giustificata come misura di accompagnamento verso l’abbandono dell’energia fossile: è da vedere se la promessa sarà mantenuta. Sul piano sociale, i programmi di sostegno alimentare e alle famiglie sono stati riportati ai livelli di otto anni fa, dopo i tagli della presidenza Bolsonaro.

In un lasso di tempo molto breve, appena un anno, la situazione del Brasile appare indubbiamente migliorata: la stabilità macroeconomica del Paese è stata riconquistata, il suo profilo industriale rilanciato, gli aspetti sociali più emergenziali tamponati. In realtà, non erano questi i temi centrali quando i brasiliani scelsero Lula. Si trattava di salvare la democrazia ipotecata da un presidente fortemente ideologizzato e sostanzialmente incapace di governare un grande Paese. Lula ci ha aggiunto del suo, ben sapendo che Bolsonaro era figlio degli anni di instabilità che lo avevano preceduto, dopo l’impeachment contro Dilma Rousseff. Ora il punto è capire se basterà un Paese stabile, che difende l’ambiente, dà speranza ai poveri e fa crescere l’economia per neutralizzare i tribuni alla Bolsonaro o alla Milei. Questo è il principale interrogativo che in molti si pongono in questi tempi dominati dai social network, attraverso i quali si costruiscono realtà parallele, si diffondono fake news, si alimenta l’odio e si costruiscono leadership. Con Lula, in Brasile è tornata la politica dei fatti, a dimostrazione che le promesse elettorali possono essere rispettate e che, per governare, non occorre gridare o insultare. Ma il mondo è ancora capace di apprezzare una classe politica che fa seriamente il suo lavoro e non passa il giorno a twittare? La domanda rimane senza risposte, almeno per ora. Al di là di queste riflessioni, valide a livello globale, l’esperienza appena iniziata del terzo mandato di Lula sarà il banco di prova per tutta la vecchia sinistra latinoamericana, schiacciata tra populismi fallimentari e utopie irrisolte: il pragmatismo e i conti in ordine possono convivere con politiche progressiste e con una giustizia sociale e ambientale? Parrebbe di sì, ma bisogna vedere se gli elettori sono d’accordo.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Mia cara Olympe

Il caso Salis e il pensiero della destra sul carcere

“In Italia è più o meno eguale”.

Delle molte cose che colpiscono e indignano della vicenda di Ilaria Salis, accusata di aver aggredito due militanti di estrema destra a Budapest – molte cose, sia in Ungheria dov’è detenuta da 11 mesi in condizioni aberranti e portata in catene davanti ai suoi giudici, sia in Italia – ce n’è una che dovrebbe suonarci particolarmente indecente ancorché assai rivelatoria.

Mentre il ministro Lollobrigida si trovava evidentemente in un totale black out mediatico e dunque nulla poteva dire delle immagini di Salis incatenata mani e piedi e tenuta con una sorta di guinzaglio, mentre Salvini diceva che però una ‘così’ non può fare la maestra e i suoi tiravano fuori altri procedimenti dai quali invece è stata prosciolta, mentre qualcuno arrivava alle vette di comicità – non fosse la questione serissima – di sostenere che Orban, l’amico della nostra premier, nulla c’entri,  l’altra reazione del centrodestra di governo, accusato di sottovalutazione e immobilismo dettati da contiguità politica, è stata di affermare che in fondo anche da noi funziona così. Sottinteso: dunque, dov’è mai lo scandalo?

Due questioni: la prima, già per fortuna chiarita dal garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto, è che in Italia, dai tempi di Tangentopoli e del clamore suscitato dalle immagini dell’esponente dc Enzo Carra con i polsi stretti dagli schiavettoni, i detenuti non vengono tradotti in catene nelle aule di tribunale. “Decisiva per il cambiamento fu la legge 492 del 1992, nel momento in cui cambiò il regolamento e il compito di accompagnare i detenuti passò dai carabinieri agli agenti della polizia penitenziaria” ha ricordato Maisto. C’è insomma un prima: chi scrive ben ricorda le proteste degli imputati per reati di terrorismo che venivano condotti in lunghe file, l’uno incatenato all’altro, dal carcere di San Vittore all’aula bunker e sottoposti a pesanti perquisizioni corporali, e così accadeva nei maxiprocessi di criminalità organizzata. Capitò ad Enzo Tortora, poi completamente assolto, capitò a tanti: erano però anni in cui il pensiero sul carcere faceva passi avanti  in virtù di molte differenti spinte e la legge del 1992 ne è appunto un esempio. Dire che in Italia non è più così e che non è mai stato per quanto riguarda l’uso delle catene ai piedi più volte inflitte a Ilaria Salis significa dunque ristabilire un elemento di verità: benvenuto ma parziale, perché dello stato delle nostre carceri, delle condizioni di detenzione non possiamo certo menare vanto o farci esempio. Ed è qui il punto rivelatorio di questa autodifesa dell’inerzia con cui il governo ha affrontato il caso Salis: affermare che in Italia è più o meno eguale serve certamente a non urtare l’alleato ungherese in vista delle elezioni europee. Ma svela anche il retropensiero che nelle carceri – lì e soprattutto qui – non ci sia nulla da cambiare, da migliorare, da rendere più civile e più rispettoso dei diritti dei e delle detenute, nonostante le svariate pronunce internazionali contro l’Italia, i casi di cronaca, i suicidi di reclusi, le inchieste della magistratura su diversi istituti di pena. Ci si aspettava qualcosa di diverso da una destra securitaria, appassionata dalla creazione di nuovi reati e per la quale l’aumento delle pene e  la detenzione sono la risposta d’elezione a  molti problemi? No di certo, ma visto quanto poco ci si occupa di carcere mentre  il discorso pubblico è pesantemente inquinato da questa deriva, forse è opportuno  ancora una volta sottolinearlo.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

La soglia borderline

La soglia è spazio di confine naturale o convenzionale. Lo si considera e lo si valica nel rispetto delle aree che delimita, delle persone coinvolte in quei luoghi fisici o psichici, in base a regole volte al bene comune. La cultura della soglia è base di convivenza. Coltivarla serve a costruire relazioni buone, pensare a sé, all’altro, al futuro con fiducia. Se stravolta allarma: rivela una visione politica cui conviene spostare la soglia definita, far passare lo sconvolgimento per evoluzione naturale, mentalità collettiva, magari un progresso in nome d’una non meglio identificata istanza popolare. Ti accorgi e può esser tardi. Un carabiniere in servizio che dice di Mattarella: «Non è il mio presidente. Io non l’ho votato, non l’ho scelto io, non lo riconosco» va contro la Costituzione. Trasferendolo a incarico non operativo s’accredita una doppia morale: pensieri eversivi si possono avere ma in caserma. L’elezione diretta sognata a destra fa breccia, va sui media, ci s’indigna forse ma l’opinione pubblica intanto è avvertita. La soglia è alterata nel campo dei diritti con Ilaria Salis a Budapest in ceppi, manette, catene. Dopo un anno ecco Governo, diplomazia, Europa. Alla giovane maestra vengono restituite dignità? Giustizia? Si spera. È passato però il monito: attenti a contrastare i neonazi, si può esser costretti a difendersi mentre si credeva di rivendicare l’Europa della Liberazione e si rischia il posto con la Lega garantista solo per sé. Già la Cassazione ha sentenziato che dipende da come alzi la mano e gridi presente se sei reo o patriota. E La Russa ha ricordato che anche l’Italia ha catene alla Ilaria. Di soglia in soglia spostata per sdoganare i limiti del sentire diffuso la moralità pubblica ha un vasto range: dalla Commedia dell’Arte (Conte che teme Trump non lo chiami più “il mio Giuseppi” e glissa su Capitol Hill) alla Meloni del concordato preventivo dopo aver definito “pizzo di Stato” pagare le tasse. Il confine fascismo-sì-o-no è soglia borderline tra privilegi e vantaggi per pochi, ingiustizie e disconoscimenti per molti, libertà vaga per tutti. La Costituzione antifascista ci tiene Sulla soglia «a segnalare instancabile / un oltre / più oltre del cielo» per dirla col poeta Angelo Casati.

  • Marco Garzonio

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    Le notizie. I protagonisti. Le opinioni. Le analisi. Tutto questo nelle 16 edizioni quotidiane del Gr. Un appuntamento con la redazione che vi accompagna per tutta la giornata. Annunciati dalla “storica” sigla, i nostri conduttori vi racconteranno tutto quello che fa notizia, insieme alla redazione, ai corrispondenti, agli ospiti. La finestra di Radio Popolare che si apre sul mondo, a cominciare dalle 6.30 del mattino. Da non perdere per essere sempre informati.

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    La rassegna stampa di Popolare Network non si limita ad una carrellata sulle prime pagine dei principali quotidiani italiani: entra in profondità, scova notizie curiose, evidenzia punti di vista differenti e scopre strane analogie tra giornali che dovrebbero pensarla diversamente.

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    Metroregione è il notiziario regionale di Radio Popolare. Racconta le notizie che arrivano dal territorio della Lombardia, con particolare attenzione ai fatti che riguardano la politica locale, le lotte sindacali e le questioni che riguardano i nuovi cittadini. Da Milano agli altri capoluoghi di provincia lombardi, senza dimenticare i comuni più piccoli, da dove possono arrivare storie esemplificative dei cambiamenti della nostra società.

    Metroregione - 22-11-2024

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    Il Riverbero è un effetto sonoro che è creato dalla riflessione/interazione tra un suono e ambiente. Nello stesso modo si generano pratiche musicali quando persone di seconda generazione interagiscono con il loro ambiente. Riverberi è uno sguardo sui dj che stanno plasmando la scena notturna italiana portando con se suoni lontani che riverberano nella loro musica.

    Riverberi - 23-11-2024

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    Snippet di sabato 23/11/2024

    Un viaggio musicale, a cura di missinred, attraverso remix, campioni, sample, cover, edit, mash up. Sabato dalle 22:45 alle 23.45 (tranne il primo sabato di ogni mese)

    Snippet - 23-11-2024

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    L’ultimo approfondimento dei temi d’attualità in chiusura di giornata

    News della notte - 23-11-2024

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    Canzoni d'amore, di desiderio, di malinconia, di emozioni, di batticuore. Il sabato dalle 21.30 con Elisa Graci

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    Senti un po’ è un programma della redazione musicale di Radio Popolare, curata e condotta da Niccolò Vecchia, che da vent’anni si occupa di novità musicali su queste frequenze. Ospiti, interviste, minilive, ma anche tanta tanta musica nuova. 50 minuti (circa…) con cui orientarsi tra le ultime uscite italiane e internazionali. Da ascoltare anche in Podcast (e su Spotify con le playlist della settimana). Senti un po’. Una trasmissione di Niccolò Vecchia In onda il sabato dalle 18.30 alle 19.30.

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    Soulshine - 23-11-2024

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    Sapore Indie di sabato 23/11/2024

    Sapore Indie è la trasmissione per connettersi al presente e scoprire le novità più rilevanti della musica alternative internazionale. Tutti i sabati alle 15.35, con Dario Grande, un'ora di esplorazione tra le ultime uscite di artisti grandi e piccoli, storie di musica e vite underground. Per uscire dalla bolla dei soliti ascolti e sfuggire l’algoritmo, per orientarsi nel presente e scoprire il suono più rigenerante di oggi. ig: https://www.instagram.com/dar.grande/

    Sapore Indie - 23-11-2024

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    Il raid israeliano su Beiru

    Aveva come obiettivo un alto comandante di Hezbollah il raid che l’esercito israeliano ha compiuto stanotte sulla capitale Beirut. Un palazzo di 8 piani è stato centrato con diversi razzi ed è collassato. Si scava ancora sotto le macerie, si contano per ora 11 morti e decine di feriti. Secondo l’emittente televisiva Al Arabya, il comandante di Hezbollah, si chiama, o si chiamava (non si sa se sia stato ucciso ancora) Muhammad Haidar: stretto collaboratore di Nasrallah, era stato nominato capo di stato maggiore ad interim di Hezbollah negli ultimi due mesi. Nella mattinata Israele ha poi riferito di avere compiuto una seconda ondata di attacchi sulla capitale libanese. A Beirut abbiamo raggiunto mauro Pompili, giornalista freelance.

    Clip - 23-11-2024

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    Chassis di sabato 23/11/2024

    "Chassis - Il contenitore di pellicole di Radio Popolare" è un programma radiofonico in onda dal 2002, dedicato al cinema. Ogni domenica mattina, offre un'ora di interviste con registi, attori, autori, e critici, alternando parole e musica per evocare emozioni e riflessioni cinematografiche. Include notizie sulle uscite settimanali, cronache dai festival e novità editoriali. La puntata si conclude con una canzone tratta da colonne sonore. In onda ogni sabato dalle 14:00 alle 15:00.

    Chassis - 23-11-2024

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    Disabilità e lavoro

    Nella scorsa puntata abbiamo parlato degli inserimenti lavorativi per le persone disabili, un percorso tutt'altro che semplice. Con noi Valentina Altamura, un'ascoltatrice che ci ha raccontato il suo iter lavorativo, e Elena Garbelli, dell'Agenzia per la Formazione, l'Orientamento e il Lavoro AFOL Metropolitana.

    37 e 2 - 23-11-2024

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    Invalidità civile e previdenziale: terza puntata

    Nella terza puntata della nostra rubrica affrontiamo il tema dell'invalidità per le persone in età lavorativa, dai 18 ai 67 anni.

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    Gli speciali di sabato 23/11/2024 - ore 13:20

    I reportage e le inchieste di Radio Popolare Il lavoro degli inviati, corrispondenti e redattori di Radio Popolare e Popolare Network sulla società, la politica, gli avvenimenti internazionali, la cultura, la musica.

    Gli speciali - 23-11-2024

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