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La scuola non serve a nulla

La “Giornata Internazionale degli Insegnanti” e alcune attività di inizio anno…

Cose che faccio in classe mentre dal Ministero arrivano deliri

Cari colleghi martiri dell’Istruzione, bentornati: anche quest’anno, dopo quel dolce mese e mezzo in cui noi insegnanti riscopriamo il piacere della vita per poi vederlo dissolversi al suono della prima campanella, ecco che, freschi come una mozzarella scordata al sole, tempo un altro mesetto e puntuale vediamo arrivare pure il 5 ottobre, “La Giornata Internazionale degli Insegnanti”. Un appuntamento immancabile come le zanzare a Ferragosto o l’herpes labiale prima di un appuntamento galante, ma anche un’occasione per riflettere seriamente in che stato siamo, come categoria, e dove sta andando la nostra professione.

Quest’anno, tra le meraviglie della scuola italiana, spiccano varie perle. Innanzitutto, l’algoritmo criminale che scippa cattedre ai precari storici: un capolavoro di sadismo digitale, un incomprensibile Tetris giocato sulle vite degli insegnanti contro cui giustamente veementi sono le proteste per una situazione non ancora risolta. Poi la proposta di legge di eliminare dalle scuole una roba che non esiste, cioè la fantomatica “Teoria Gender”, di modo che, a furia di richiami, qualcuno mosso a compassione possa prendersi la briga di inventarla davvero, finalmente. Segue la circolare col divieto di usare il cellulare in classe, un’insulsa condanna alla vita preistorica degli studenti; che fa pendant, nel Festival dell’Irrazionale che è ormai il nostro Ministero, con l’avvio in alcune scuole italiane della sperimentazione per l’uso didattico dell’Intelligenza Artificiale. E ancora, il nuovo voto in condotta, che, sommato al ritorno ai giudizi sintetici nella Primaria, è il nostro personalissimo biglietto di sola andata per la scuola degli anni ’50, ma senza l’unica cosa buona che quella scuola aveva: il suo essere davvero “ascensore sociale”. Insomma, perché costringere gli studenti a vivere nel XXI secolo, quando possiamo catapultarli direttamente nel Medioevo? Magari prossimamente si proverà a reintrodurre la scrittura cuneiforme su tavolette d’argilla… ma se tutto ciò fosse nient’altro che una gigantesca e sibillina proposta per un “compito di realtà” in Storia (e ancora non l’avessimo capito), vi prego: anche meno, che la cosa vi ha preso un po’ troppo la mano…

Dulcis in fundo, per non farci mancare nulla, la proposta dell’ultima ora è quella – non è una barzelletta – di adottare alla Primaria il libro “Perché l’Italia è di Destra”, di Italo Bocchino. Il titolo è di quelli che ti spingono a far bagagli e trasferirti su Marte; per l’autore, poi… ma che Rodari, Andersen o Saint-Exupery: “Bocchino per tutti”, e bona lì.

Ma non siamo qui per raccontare tragedie, o almeno non solo. Volevo più che altro parlarvi di un paio di mie personali pratiche didattiche di inizio anno, giusto per cercare di non trasformare il fegato in polvere da sparo visto quello che ci arriva dall’alto, che la follia può essere un’eccellente strategia di sopravvivenza a tutto ciò.

La prima attività, una specie di “Hunger Games” emotivo alla Stephen King, prevede il mio ingresso in classe, nei primi giorni dell’anno, con un sorriso inquietante da Joker e la successiva distribuzione di biglietti sui quali chiedo agli alunni di scrivere anonimamente – ma è un anonimato che dura quanto una dieta a Natale – i loro desideri più segreti, le paure più angoscianti, le speranze più luminose in vista del nuovo anno scolastico. In pratica, una specie di “Caro Diario”, ma senza il lucchetto e con più suspense. In contemporanea, io stesso, con la mia calligrafia da referto medico post sbornia e durante un terremoto, scrivo su un foglio “Come vorrei che fosse quest’anno scolastico”: diventa il sigillo di una scatola in cui raccolgo i bigliettini scritti dai ragazzi passando tra i banchi come un monaco questuante.

Poi quella scatola, saldata col foglio della vergogna e lo scotch del mistero, la si lascia lì per tutto l’anno appollaiata su un armadio della classe, quasi un gufo giudicante a fissar gli alunni, mentre raccoglie polvere e un po’ dei loro sensi di colpa, a metà tra l’incombenza di un’urna cineraria e la goffa tenerezza d’un innocuo cucù abbandonato.

L’ultimo giorno di scuola la scatola verrà aperta, come l’armadio di Narnia, e i bigliettini verranno letti: ma al posto di leoni e streghe ci troveremo davanti aspettative schiacciate, sogni infranti e i segreti più reconditi degli alunni, e lì si giocherà di bilancino tra aspettative e realtà. Se l’alunno riterrà di svelarsi alla classe come autore del bigliettino appena letto, bene. Se no, ancora meglio: eviteremo scena da telenovelas brasiliana.

Chiaro che dovrebbero scrivere cose attinenti alla scuola, o frasi simil Perugina tipo “spero che mi trovo bene coi compagni” e bla bla, ma nel corso degli anni sono venute fuori cose da sceneggiatore di Netflix: una ragazzina mogia mogia in una scuola in provincia di tanti anni fa, che sperava nella guarigione della madre (era in terapia per cure complicate… spoiler uno: a fine anno tutto bene, quindi lieto fine); l’alunno con ambizioni olimpiche che sognava per il marzo successivo di vincere i campionati nazionali juniores di non so più cosa (spoiler due: ricordo però che li vinse, quindi applausi); e poco tempo fa, lo strazio d’uno studentello X che manifestò quanto avrebbe gradito fidanzarsi con la compagnuccia Y, durante quell’anno, per una sorta di pubblico “Ti vuoi mettere con me: SÌ / NO” (ma pare che lei lo abbia subito friendzonato in una solitudine che ancora rimbomba nei corridoi, non solo quell’anno ma pure gli altri successivi due di Medie).

La seconda attività è un po’ più creativa. Chiedo ai miei alunni di inventare verbi. Sì, avete capito bene: verbi nuovi di zecca, freschi di fabbrica, neologismi, con tanto di significante e significato, la parola e il senso. Poi, li faccio coniugare come fossero verbi regolari (tanto devono imparare le desinenze, non le radici… tanto vale…). Quest’anno, con i miei alunni, sono saltati fuori verbi tipo pandare (“affezionarsi a una specie in via d’estinzione”, per esempio i prof. con contratto a tempo indeterminato), rigere (“grattare le unghie lunghe contro la lavagna”, cioè il suono dell’Apocalisse), faccere (“guardare dall’alto al basso in modo giudicante”, l’espressione base di ogni docente il lunedì mattina), crogare (“cercare parole sul dizionario per vedere se esistono”), furchire (“fare tanti assaggi di gelato prima di scegliere il gusto), e tardicchiare (“mordere in continuazione Il tappo della penna”). Ma tra i miei preferiti, anche lostincere (“dire sì o no con la testa”, perfetto per il Collegio Docenti), franceloquire (“parlare con gli animali”, che è ciò che faceva il poverello di Assisi ma può tornar utile anche in certe classi di quindicenni), eremare (“isolarsi”, ideale per certi prof. durante gli scrutini), zugrinare (“portare fuori il cane quando piove”, uno sport estremo, in pratica) e barmire (cioè “trovare un senso a verbi inventati per un compito di italiano”). Sì, roba da scrittore di fantascienza che ha esagerato col metadone, ma questi verbi poi li coniughiamo: partendo dal primo, presente indicativo, “io pando, tu pandi, egli…” ecc.

Ecco, mi pare la degna conclusione per augurarvi buona “Giornata Internazionale degli insegnanti” e buon anno scolastico. Meglio inventare verbi assurdi che prendere l’ulcera pensando a quel che succede nei piani alti.

E se tutto va male, ricordate: c’è sempre la possibilità di una carriera come scrittori di dizionari surreali…

 

Che ne pensate? Per qualunque cosa vogliate dirmi riguardo ai miei articoli su questo Blog, dagli apprezzamenti, ai consigli, alle critiche fino agli insulti (questi ultimi però purché formulati rigorosamente in lingue antiche), scrivete a: antonellotaurino1@gmail.com .

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Di viaggi, monasteri buddhisti sul Lago Maggiore e lama dal cuore grande

Albagnano, frazione di Bee, provincia di Verbania. Sono quasi le otto di sera. Piena estate. Dietro di me la fitta vegetazione e i monti. Davanti, giù a valle, il Lago Maggiore. Sulla destra, in fondo a un vialetto protetto da una fila di statue del Buddha che spuntano da cespugli fioriti un particolare impossibile da ignorare: un tempio buddista tibetano. Ha la porta dorata e tutta l’intensità tipica di quegli incredibili colori giallo ocra e rosso scuro. Avete presente “Sette anni in Tibet?”. 
Lo gestisce Lama Michel Rimpoche, un lama brasiliano quarantatreenne dal cuore profondo. Il centro si chiama Lana Gangchen Meditation Center, ed è dedicato a Lama Gangchen, un monaco tibetano che è stato maestro di Lama Michel e pare abbia fatto un gran bene da queste parti. Alla sua stupa ho visto gente prostrarsi commossa come di fronte a un amico e a un maestro al quale si vuole un sacco bene.
C’è una strana energia qui intorno, e poi sembra davvero di essere in Tibet. Da uscirne pazzi, lo so. Eppure è tutto vero. Sto cenando, minestrone di verdure, humus di ceci e riso. La gente parla sottovoce, vedo pochissimi telefonini e nessuno che squilla. È difficile capire chi lavori al centro, chi sia un volontario e chi un semplice ospite. Sono tutti mescolati e non ci sono divise a delineare contorni e tracciare identità. Anche gli idiomi sono tanti e mescolati. Ci sono inglesi, spagnoli, brasiliani ma scorgo anche qualche tibetano.
Dopo cena, passeggio per il centro, e con il buio tutto qua intorno paradossalmente si fa ancora più luminoso, suggestivo, affascinante.
Marcantonio, quasi per tutti Toni, arriva verso le 10, quando sono già in stanza. È una settimana che siamo in giro insieme per registrare le interviste del documentario. 65 anni, una vaga somiglianza all’attore Robert Downey Junior, Toni è un apprezzato regista teatrale che, di malavoglia, ogni tanto si è prestato alla televisione. Nel suo curriculum ci sono alcune puntate di “La Squadra”, “Un Posto al Sole” e “Vivere”. Altro dettaglio divertente di Toni è che in teoria sarebbe un nobile, sua mamma è una Cesarini Sforza, ma lui ha rinunciato al titolo quando, negli anni Settanta, ha deciso di scegliere il marxismo e la sinistra extraparlamentare.
Distrutti da giorni e giorni a destra e sinistra, sveniamo ciascuno nel proprio letto, pronti alla meditazione di domani mattina con Lama Michel. Inizio previsto alle sette in punto.

Se fuori il tempio appare affascinante, dentro è addirittura incredibile; c’è tutta una storia dietro le statue del Buddha colorate e le varie raffigurazioni sul muro, una storia che riguarda i cinque elementi o qualcosa del genere, ma faccio una gran fatica a capirli tutti, nonostante Gabriella me le spieghi con tutta la cura e l’attenzione possibile.
Siciliana ma nata a Torino, conosce Lama Michel da quasi trent’anni, da quando era un piccolo e promettente discepolo di Lama Gangchen. All’epoca Gabriella stava attraversando un periodo di confusione, aveva vent’anni e la mente inquieta. Decise di partire e tirò una moneta. Testa Messico, croce India. Uscí croce e la sua vita cambiò. In Nepal incontrò Lama Gangchen e capí che aveva trovato il suo maestro. Qualche tempo dopo conobbe anche questo ragazzino prodigio con la mente limpida come un torrente di montagna. Era Lama Michel. 
Mi perdo nei racconti di Gabriella mentre camminiamo lungo un sentiero stretto, protetto da una lunga fila di ortensie fino allo stupa dedicato a Lama Gangchen. Lí riposano le sue membra mortali, insieme ad alcune reliquie tipiche della tradizione. Il tutto nell’attesa che lo stato italiano autorizzi la cremazione nello stile tibetano, come consueto per un lama di tale lignaggio.
Giriamo un paio di scene vicino allo stupa, mentre il sole caldo inizia a farsi sentire ripenso alla meditazione di stamattina col Lama. È stato qualcosa di diverso dal solito, che ha coinvolto vari aspetti, dal controllo della respirazione ai mantra, fino all’esecuzione di alcune mudra. Quella che si fa qui non è solo una sessione di meditazione ma anche un processo guidato di vera e propria autoguarigione, un aspetto pregnante dell’opera di Lama Ganghen, che oggi Lama Michel porta avanti con attenzione.
L’intervista con lui è fissata subito dopo pranzo. Saluto Gabriella, finisco di registrare le mie parti video con Toni e poi mi perdo a visitare il centro. È incredibile come da un agriturismo in disuso e tanti ettari incolti, in pochi anni sia nato tutto questo. Ci sono diverse stanze per gli ospiti, una sala ristorante, un bar, un centro per i trattamenti di guarigione, uno shop con i libri dei vari Lama e diversi oggetti di arte tibetana. Compro un piccolo porta candele a forma di loto, alcune immagini sacre, tra cui l’ipnotica Tara Verde, e “Il mio nome è Gindala”, il memoir di Franco Ceccarelli sulla sua vita al fianco di Lama Gangchen. Mi bastano cinque righe lette di corsa in piedi per capire che quel libro mi lascerà qualcosa.
Dopo pranzo, alla reception incontro Cinzia, che è stato il mio primo gancio con il centro. Fu lei, qualche anno fa, a chiamarmi dopo che avevo mandato una copia del mio “Intervista col Buddha” a Lama Michel. E da lì si aprí il contatto che oggi ci ha portato qui.
Sono venuto a contatto con il messaggio di LM all’inizio del 2019, imbattendomi in uno dei suoi illuminanti video su internet. Da allora è diventato una presenza costante nella mia vita: le notti trascorse nel mio letto ad ascoltare in cuffia i suoi discorsi mentre moglie e bimbi dormono si sono trasformate in una piacevolissima consuetudine.
Durante il 2020, quello che con forse un eccesso di melodramma definisco “il mio anno nero”, Lama Michel è diventato addirittura salvifico per il sottoscritto. Nell’arco di pochi mesi ho perso mio fratello, si sono ammalati prima papá e poi mamma, ed è esplosa la pandemia. Ben ricordo quella maledetta notte in cui credetti di impazzire. Mi trovavo a Milano per una serie di incontri quando in mattinata ricevetti quella telefonata. Era il primario che aveva in cura mio fratello Fabrizio. Aveva appena visto la tac e mi informava che quella maledetta massa che gli aveva intasato la gola non era operabile e a Fabrizio restavano da due a sei mesi di vita. Fu un bello schiaffo, che però non metabolizzai subito ma diverse ore più tardi, in albergo. Una sensazione orribile che difficilmente scorderò. La mente assalita da centinaia di pensieri negativi. L’agitazione che cresceva secondo dopo secondo. Un senso di pericolo tutto intorno che si mangiava l’aria. Una sensazione di profonda inquietudine non mi faceva trovare pace qualsiasi cosa facessi. Non stavo bene a letto. Non stavo bene in piedi. Non funzionava distrarsi con un libro, il tablet, la TV. Non servirono nè la meditazione nè un ansiolitico che miracolosamente trovai nella borsa. Mi sembrava di impazzire. Con un frullatore impazzito al posto del cervello mi vestii di corsa, deciso a lasciare l’hotel e saltare gli incontri del giorno dopo. Volevo solo tornare da Daria e i bambini. Volevo solo perdermi in loro. Tornare a casa. Ma anche mettermi in macchina, di notte, nella fastidiosa nebbia di Milano, mi metteva addosso una grande ansia. A Genova non c’erano solo mia moglie e i miei figli. C’erano anche i miei genitori malati. C’era papá che lentamente se ne stava andando. C’era mamma assalita da quella maledizione chiamata Alzheimer. Ma soprattutto c’era Fabrizio. Cosa dovevo dirgli? E con quali parole? Ed ecco il frullatore vorticare con pensieri sempre più veloci. Preda della tachicardia mi misi un momento sul letto, aprii you tube alla ricerca di un po’ di musica rilassante, e fu in quel momento che la cronologia mi ricordó di Lama Michel. Cliccai su un suo video e tentai di ascoltare. Il lama parlava di accettare il cambiamento, l’impermanenza che è insita nella più profonda natura della realtà. Niente rimane uguale a se stesso, tutto cambia, e va accettato. Fu un bel discorso il suo, anche se non ricordo bene gran parte di quello che disse. Quello che invece ben ricordo è che mi calmò, mi calmò così tanto che riuscii ad addormentarmi.
Quelle quattro cinque ore di sonno mi salvarono. L’indomani onorai gli incontri previsti e tornai a Genova col cuore pesante ma una rinnovata forza nel dare supporto a Fabrizio in quelli che sarebbero stati i suoi ultimi mesi di vita.
E lo feci, prima con lui e subito dopo con papá.
Quando incontro Lama Michel e gli racconto questa storia mentre ci stiamo avviando di buon passo verso il tempio per le riprese, lui mi dice solo: “Vieni qui”. E poi mi abbraccia. Ecco, per tutta la vita ho letto che certi esseri umani illuminati o quantomeno speciali, quando ti abbracciano riescono a scioglierti qualcosa dentro. A me non è mai capitato, anzi il mio scettico interiore ha sempre dubitato di certe doti. Eppure quando Lama Michel mi abbraccia, stringendomi forte al suo petto, sento qualcosa di intenso e bellissimo montarmi dentro, come venissi invaso da un’energia profonda e ben canalizzata. Se l’abbraccio fosse durato ancora qualche secondo sarei scoppiato a piangere, come se si stesse sciogliendo qualcosa.
Un’altra esperienza incredibile di questo strano viaggio chiamato vita.
La seconda cosa che mi colpisce di Lama Michel è la sua velocità di ragionamento. L’intervista è lunga, articolata, si parte dagli Otto Nobili Sentieri del Buddha – che scopro essere più di 30 nella tradizione tibetana – per poi arrivare al concetto di rinascita, di karma fino a lambire la sua storia personale. Ecco, qualsiasi domanda tiro fuori lui socchiude gli occhi e dieci secondi dopo ha già elaborato una risposta chiara, profonda e coerente in ogni aspetto. E c’è un’altra cosa davvero speciale. Nelle due ore che passa con noi, LM è profondamente e completamente assorbito da noi. E la stessa cosa accadrà a chi verrà dopo e a chi è venuto prima.
“Se sono con te, cerco di darti tutto me stesso e la mia attenzione, altrimenti non ha senso” mi confida. E questa è una lezione immensa. Credo non esista dono più grande che una persona possa fare a un’altra. Il tempo è l’unica cosa che non possiamo ricomprare.
Qualche ora dopo, mentre con Toni siamo in macchina diretti a Milano, dove un volo ci porterà a Napoli dentro un’altra storia di questo stralunato documentario, ripenso alle tante cose che ci ha detto Lama Michel.
È stata come una lunga seduta da uno psicologo, ma di quelli proprio bravi. Tra le tante, una in particolare continua a risuonarmi in testa. 
“C’è un verso del Buddha che tradotto dal tibetano dice “Io sono il mio proprio protettore, io sono il mio proprio nemico”.
Questo mi aveva detto Lama, seduto a gambe incrociate sull’erba, per nulla infastidito dal sole delle due che gli batteva sulla testa. Sta a noi scegliere di proteggerci e non di danneggiarci.
E subito ero stato invaso da un grande coraggio e da un’iniezione di fiducia che mi aveva scaldato il cuore. Proprio come era successo quattro anni prima, in quella dannata camera d’albergo a Milano.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Il ritorno di Manu Chao

Dopo 17 anni Manu Chao annuncia “Viva Tu”, il suo nuovo disco d’inediti, che uscirà il prossimo 17 settembre. E pubblica l’omonima traccia con relativo video, la sognante Viva Tu. In anni bui, stretti fra guerre, pandemie e ignoranza in libera uscita, il delicato augurio del clandestino è questo – viva tu, che vuol dire pressapoco “lunga vita”. Un augurio a volerci bene, resistere, ritagliarci dei momenti sereni per imparare a essere e andare avanti.
Diciassette anni dicevamo, diciassette anni pieni di viaggi, concerti, esperienze, tanta vita ma nemmeno un disco da vendere, promuovere, utilizzare per alzare le richieste di concerti. Pochissimi artisti al mondo potrebbero permettersi una simile scelta, e Manu è fra questi. D’altronde il suo percorso è sempre stato “diverso”, anche qui sta il suo fascino.
“Clandestino – Alla ricerca di Manu Chao” di Peter Culshaw – uno dei libri di “letteratura musicale” più pazzeschi che mi sia capitato di leggere – racconta una vita veramente fuori dal comune.
Ma cosa ha fatto “il clandestino” dai tempi di “La Radiolina”, il suo ultimo disco?
Per un periodo è ancor più sparito dai radar, volando sempre più basso, fino quasi a scomparire. E ha viaggiato, si è spostato, come ha sempre fatto: Sud America, Africa, Francia, Spagna, tanto Brasile, dove vive suo figlio.
Poi, dopo qualche anno di stop, è tornato a produrre nuova musica con una certa frequenza, collaborando con tanti artisti, ma senza realizzare dischi completi. Solo singoli, rilasciati quando ne ha avuto voglia e scaricabili gratuitamente sul suo sito ufficiale. Un percorso personale ben lontano dai circuiti del mainstream ma che, sorprendentemente, non gli ha fatto pagare dazio. Nonostante abbia da poco compiuto sessant’anni, non esca con un disco d’inediti da 17 anni e non conceda interviste da quasi 10, Manu Chao ovunque vada a suonare riempie, e il suo pubblico non ha smesso di seguirlo; ai suoi concerti è ormai sempre più frequente vedere padri coi figli grandi e, c’è da scommetterci, presto arriveranno anche i nipoti.
Fra le tante collaborazioni in cui si è speso Manu negli ultimi anni, non si può non citare quella con la celebre Calypso Rose, autentica regina della musica caraibica. I due si sono incontrati al Carnevale di Trinidad e Tobago nel 2015. “Si è presentato al mio hotel con delle ciabatte vecchie, dei pantaloncini e una chitarra piccola e rovinata”, racconta lei. E l’ha incantata, come fa con tutti.
I due sono finiti a lavorare insieme all’album Far From Home, uscito nel 2016. Quel disco, un irresistibile mix di calypso e soca, con un pizzico di reggae e l’inconfondibile chitarra di Manu a insaporire il tutto, è diventato un successo mondiale che ha portato la quasi ottantenne cantante nativa di Trinidad ad esibirsi al Coachella, diventando l’artista più anziana ad aver calcato il palco del celebre festival americano.
I due hanno continuato la loro collaborazione, incidendo una nuova versione della canzone “Clandestino”, uscita nella ristampa dell’omonimo disco rilasciata dalla Because per il ventennale – Clandestino Bloody Border – insieme a due brani inediti: Roadies Rules e Bloody Border.
La prima risale ai tempi di Clandestino e agli anni della depressione, infatti parla della malinconia, della tristezza e della disperazione di quelli che non hanno: “Nessun motivo per svegliarsi domani”.
“Bloody Border” è invece dedicata alle terribili condizioni di vita dei migranti nelle tendopoli in Arizona; Manu la scrisse a seguito del tour americano del 2011, che Peter Culshaw ha così ben documentato nel suo libro.
Dal 2017, i singoli rilasciati da Manu e scaricabili gratuitamente sono stati tantissimi. C’è stato il progetto Ti.Po.Ta. (acronimo di Transe Indie Progressiv Organik Trash Amor), realizzato insieme all’ex fidanzata, l’artista greca Klelia Renesi. Un rilassante mix etnico che ha regalato altissimi momenti in brani come Winds, Do you ear me Calling, Athina Vrazi, Anatoli e, soprattutto, l’ipnotica Moonlight Avenue. E poi ci sono state le release firmate dal solo Manu, seppur spesso avvalendosi del featuring di altri artisti. Una lunga serie di canzoni in grado di riempire ben più di un disco. In mezzo a questa ritrovata epifania artistica, un doloroso lutto nella vita del desaparecido, con la morte del leggendario padre, lo scrittore Ràmon Chao, che è passato dall’altra parte nel maggio del 2018.
Nel periodo covid, complici le limitazioni, Manu ha messo su un progetto acustico più snello, “El Chapulin Solo – Manu Chao Acustico”, composto da solo tre elementi, che ha portato in giro dando l’impressione di divertirsi un mondo. Insieme a lui sul palco, lo hanno accompagnato due musicisti giovani ma straordinariamente preparati come Luciano Falico alla chitarra e Mauro Mancebo alle percussioni.
Sono andato a vederlo nel 2021, sempre nella mia Genova. Un concerto particolare per tutta la città e, forse per l’intero paese, visto che coincideva con i 20 anni esatti dal G8 e dalla morte di Carlo Giuliani. E un concerto importante per il sottoscritto, dato che portavo mio figlio Alessandro di appena sette anni – un super “manuista” – ad assistere al suo primo live.
Quando vidi Manu, dopo quasi 10 anni, e mio figlio gli corse incontro abbracciandolo come se lo conoscesse, con il “desaparecido” che ricambiava l’abbraccio sorridente, non nego mi commossi. Sarà che era il primo evento pubblico dopo un anno e mezzo di una pandemia che ci aveva messo tutti a dura prova, sarà che nella vita ultimamente me n’erano capitate un po’ troppe, a partire dalla scomparsa del mio adorato fratello, ma assistere a un momento così libero, pulito e spensierato come l’abbraccio fra un bambino e l’artista che ama, mi emozionò.
Manu era sempre lui, forse un po’ invecchiato, ma alla fine nemmeno troppo. Quello sguardo consapevole, un po’ da sciamano timido, era ancora lì, profondo e bellissimo. La stessa persona sobria, garbata, per bene e tranquilla che già avevo avuto modo di apprezzare in passato.
Ci sedemmo dietro al palco, a un passo dalle acque melmose del porto di Genova, e passammo un po’ di tempo insieme.
Poi lui salì sul palco e Alessandro cantò a squarciagola tutte le canzoni, godendosi a pieno il suo primo concerto. Una signora vicino a me scoppiò a piangere appena Manu attaccò “Otro Mundo”. Poco dopo, a due ragazzi decisamente più giovani si inumidirono gli occhi mentre veniva suonata “La Vida Tombola”. Personalmente, il momento lacrima mi colse mentre partiva il ritornello di “Mala Vida”. E di sicuro, tutti sentimmo qualcosa di simile a un groppo in gola mentre cantavamo a squarciagola “Clandestino” e “Desaparecido”.
Verso la fine, dal pubblico si alzò il grido “Carlo è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”; a quel punto Manu cominciò a battere ritmicamente il microfono sul cuore. Bom. Bom. Bom.
Fu un momento potentissimo. Di quelli che non si dimenticano.
Mentre tornavo verso casa, con mio figlio che saltellava felice ricantando tutte le canzoni sentite al concerto, realizzai che Carlo Giuliani, avrebbe avuto 44 anni. E magari, esattamente come me, sarebbe stato al concerto di Manu Chao, con un bambino piccolo per mano che sta spalancando gli occhi verso il futuro.
Go masai, go masai, be mellow.
Go masai, go masai, be sharp…

Non vedo l’ora sia il 17 settembre.
Viva tu
viva noi
Buona estate

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Sbilanciamoci

Promemoria: mettere in bilancio la partecipazione

La recente uscita dell’ultimo Open Budget Survey, autorevole Rapporto indipendente sui bilanci statali in oltre 120 Paesi al mondo pubblicato ogni due anni dall’International Budget Partnership, ci aiuta a riflettere su un tema tanto importante quanto poco considerato e dibattuto.

Parliamo del livello di trasparenza e accessibilità dei dati di finanza pubblica e delle opportunità di partecipazione dei cittadini ai processi di formulazione, implementazione e controllo delle scelte di bilancio. Il modo in cui le risorse pubbliche vengono reperite e allocate è a tutti gli effetti una questione cruciale che impatta sulle vite di noi tutti e che non può essere lasciata nelle sole mani degli addetti ai lavori.

Per l’Italia, l’Open Budget Survey 2023 conferma il trend delle ultime edizioni: buono il risultato su trasparenza e supervisione del processo di bilancio – si distingue in positivo l’operato di istituzioni di controllo quali la Corte dei Conti e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio –, pessimo il riscontro sulla partecipazione pubblica. In quest’ultimo caso, il nostro punteggio nella classifica mondiale del Rapporto è di 15/100, molto al di sotto della media dei Paesi Ocse (24/100) e dei Paesi sul podio: Corea del Sud (65/100), Nuova Zelanda (55/100) e Regno Unito (54/100).

Con Sbilanciamoci!, denunciamo da anni lo svilimento del ruolo del Parlamento e il troppo poco tempo a disposizione per discutere e approvare il bilancio, al pari del sistematico ritardo nella presentazione del Disegno di Legge di Bilancio al Parlamento: basti pensare che l’ultimo Ddl Bilancio è arrivato in Senato il 30 ottobre 2023, dieci giorni dopo rispetto a quanto previsto dalla legge, mentre il penultimo è stato presentato alla Camera con ben 40 giorni di ritardo, il 29 novembre 2022.

Per sostenere e rendere effettiva la partecipazione pubblica al processo di bilancio, chiediamo poi di restituire centralità alle audizioni parlamentari sulla Legge di Bilancio, che ormai hanno un ruolo meramente formale, nonché di dare voce alle parti sociali e alle organizzazioni della società civile aprendo canali di dialogo strutturati e permanenti con le istituzioni, anche grazie alla condivisione di competenze e strumenti – a cominciare da una revisione del Bilancio in breve – per poter decifrare la complessità del mondo della finanza e della contabilità pubbliche.

Ana Patricia Muñoz, Direttrice dell’International Budget Partnership, si esprime così: «Dobbiamo batterci per processi di bilancio che non siano solo formalmente aperti, ma che permettano davvero alle persone di accedere alle informazioni rilevanti e di attivare le leve per garantire che i soldi pubblici siano raccolti e spesi in modo più equo. La trasparenza non basta a ridurre le disuguaglianze e ad aumentare il benessere delle comunità, ma è un ingrediente necessario che deve essere abbinato a uno spazio civico aperto e alla partecipazione attiva della società civile e dei gruppi sociali tradizionalmente esclusi».

Ci sentiamo di sottoscrivere in pieno queste parole, augurandoci che possano essere da ispirazione per tutti coloro i quali hanno a cuore il tema della legittimità delle politiche di bilancio e, in buona sostanza, della qualità delle nostre istituzioni e procedure democratiche.

  • Giulio Marcon

    Portavoce della campagna Sbilanciamoci!, è stato negli anni '90 portavoce dell'Associazione per la pace e Presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà. È stato deputato indipendente di SEL nella XVII legislatura, facendo parte della Commissione Bilancio. Tra i suoi libri: (con Giuliano Battiston), La sinistra che verrà (minimum fax 2018) e (con Mario Pianta), Sbilanciamo l'economia (Laterza 2013)

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Appunti sulla mondialità

L’Europa al bivio?

Una delle frasi fatte che ascoltiamo più spesso quando si parla dell’Europa comunitaria è quella che la descrive come eternamente “al bivio”. Ma tra quali possibilità? I punti di vista divergono sempre tra chi vorrebbe un rafforzamento delle istituzioni comuni, opzione che presuppone un maggiore trasferimento di sovranità a Bruxelles, e chi vorrebbe invece un recupero di sovranità da parte degli Stati su temi quali l’economia o le politiche ambientali, senza per questo chiedere lo smantellamento dell’Unione. A distanza di 67 anni dai Trattati di Roma, le due anime europee continuano a misurarsi senza mai approdare a una sintesi. L’anima che si ispira all’utopia di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli degli Stati Uniti d’Europa e l’anima nazionalista che è interessata solo ai vantaggi che l’Unione offre in quanto grande mercato interno. Per decenni quest’ultima posizione è stata apertamente sostenuta dal Regno Unito, ma in modo meno esplicito è stata condivisa anche dalle potenze continentali che hanno frapposto ostacoli a una reale trasformazione dell’UE da unione a federazione: soprattutto dopo i referendum franco-olandesi del 2005, responsabili dell’affossamento della Costituzione che avrebbe permesso la nascita di un “superstato”. Nel frattempo, l’Unione cresceva e l’aumento degli Stati membri ha allontanato sempre di più la possibilità di raggiungere l’unanimità necessaria per i passaggi cruciali.

Bisogna però ricordare che esiste già un meccanismo, quello della cooperazione rafforzata, che permetterebbe a un gruppo di Paesi europei di andare oltre i Trattati, ad esempio gestendo in comune la difesa e la politica estera. Ma sono temi molto sensibili. Per i 27 Stati mantenere il comando ciascuno del proprio esercito è sempre gratificante, per quanto il comando sia finto, essendo questi eserciti quasi tutti membri della Nato a trazione nordamericana. Parigi, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha rimesso al centro la questione della difesa comune, ovviamente costruita attorno alla Francia in quanto unica potenza nucleare dell’Unione. Delle altre materie non si parla: cittadinanza comune, gestione dei flussi migratori, welfare, fiscalità. I grandi nodi che potrebbero fare la differenza tra la realtà ibrida attuale e uno Stato sovranazionale. Abbiamo l’euro, anche se solo per 20 Paesi, l’unica moneta nella storia che non viene coniata da uno Stato ma è gestita da una Banca Centrale che deve fare i conti con 20 ministri dell’economia e 20 debiti sovrani, e quindi con lo spread, un fenomeno impossibile da immaginare con qualsiasi altra moneta. Questa anomalia doveva essere solo temporanea, invece sta diventando permanente. Questo lento galleggiare è diventato pericoloso. Nelle campagne elettorali, comprese quelle per le elezioni europee, ormai si parla solo di questioni interne e cresce il disinteresse dei cittadini per un’Unione che sembra molto lontana, ma che in realtà ormai da anni condiziona la nostra vita quotidiana. Volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, molte delle scelte fatte in campo ambientale, agricolo, economico e culturale sono state dettate dall’UE, che resta un bastione della democrazia e dei diritti a livello mondiale. Non esiste area al mondo dove gli indicatori economici, sociali e politici siano così alti. Ed è proprio questo punto che rende l’insipienza della politica europea un danno non solo per i cittadini comunitari ma anche per il resto dell’umanità. Manca drammaticamente sulla scena internazionale un protagonista con le caratteristiche dell’Unione. Diverso rispetto alle potenze governate da autoritarismi o totalitarismi quali la Russia, l’Iran o la Cina, ma anche diverso rispetto agli Stati Uniti dove la democrazia si sta rapidamente deteriorando ed è nato il “doppio standard” sui diritti in politica estera. Il vero bivio dell’Europa sta qui: deve scegliere se essere protagonista in positivo sulla scena mondiale oppure un semplice conglomerato per lo scambio di beni e servizi. Due posizioni diverse, entrambe rispettabili, sulle quali si spera che gli elettori diano un segnale chiaro.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    1) Le minacce di Mosca. “il lancio del missile ipersonico di ieri è stato un successo, continueremo i test” ha detto Putin, mentre il premier polacco Tusk avverte: il rischio di conflitto globale è serio. (Lorenzo Cremonesi - Corriere della Sera) 2) Il mandato d’arresto per Netanyahu non ferma il massacro. A Gaza 38 morti da questa mattina. Il mondo si divide su come comportarsi davanti alla decisione della corte penale internazionale, ma i paesi che la riconoscono hanno degli obblighi giuridici. (Chantal Meloni - Università degli studi di Milano) 3) Stati Uniti. Donald Trump nomina Pam Bondi procuratrice generale dopo il ritiro di Matt Gaetz per gli scandali sessuali (Roberto Festa) 4) La polizia brasiliana incrimina formalmente l’ex presidente Bolsonaro per tentato colpo di stato. Se riconosciuto colpevole, potrebbe rischiare fino a 20 anni di carcere. (Luigi Spera) 5) A Buenos Aires femministe di Non Una di Meno e Nonne di Plaza de Majo insieme contro la violenza sulle donne e le politiche del governo di Milei. (Andrea Cegna) 6) Storie Estreme. Il caso Shell e il futuro della lotta ai combustibili fossili (Sara Milanese) 7) Mondialità. Il cacao e il caffè sono ancora insostenibili (Alfredo Somoza)

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    Putin avverte: la Russia continuerà a testare altri missili ipersonici

    Il presidente russo Vladimir Putin questa sera è tornato a parlare del missile Oreshnik lanciato ieri su Dnipro, in Ucraina. Il capo del Cremlino ha detto che il test del missile ipersonico è stato un successo ed ha avvertito che la Russia continuerà a testarne altri. Putin ha anche detto di aver ordinato la "produzione in serie" di questo tipo di missili che – ha detto - "Nessun sistema al mondo è capace di intercettare”. Il comandante delle truppe missilistiche russe ha anche detto che questi missili possono raggiungere obiettivi in tutta Europa. Queste dichiarazioni arrivano nel contesto di un’escalation del conflitto che lo stesso Putin ha definito “quasi globale”. Oggi il premier polacco Donald Tusk ha detto che le ultime ore dimostrano che la minaccia di un conflitto globale è seria e reale. Abbiamo raggiunto a Kiev l’inviato del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi e gli abbiamo chiesto come è stato visto il lancio di questo missile in Ucraina.

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    Poveri ma belli di venerdì 22/11/2024

    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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