
A Pubblica Raffaele Liguori ha intervistato Sonia Lucarelli, politologa, docente di Relazioni internazionali e sicurezza europea all’università di Bologna.
L’arrembaggio di Trump – con i dazi imposti ai paesi di mezzo mondo – rappresenta la fine della globalizzazione, così come l’avevamo vista tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei Duemila?
La globalizzazione era già in crisi. Se vogliamo pensare a un momento nel quale tutti abbiamo percepito questa crisi della fiducia nella globalizzazione è stato il COVID, ma non è l’unico momento. Ancora precedentemente rispetto a questo, in epoca recente, la crisi economica scoppiata nel 2007-2008 negli Stati Uniti e poi protrattasi molto più a lungo, ad esempio in Europa. Questi sono stati i momenti nei quali si è sentito il rischio che economie integrate in questo mondo economico-liberale aperto corrono. Il COVID è stato un altro momento importante perché ci ha fatto capire che questa delocalizzazione della produzione che era avvenuta in modo molto ampio aveva delle conseguenze, anche su cose che ci erano sembrate poco rilevanti, come la produzione delle mascherine. Da lì in poi si è cominciato a pensare a una riduzione della lunghezza delle catene di valore e lo scoppio della guerra in Ucraina ha mostrato altri limiti della globalizzazione legati alle dipendenze che si possono sviluppare, come la dipendenza energetica per l’Europa, la dipendenza dall’approvvigionamento di beni alimentari, in particolare di grano dall’Ucraina e dalla Russia, per i paesi del sud del mondo. Che la globalizzazione esponga anche a dei rischi era cosa nota. Quello che probabilmente non ci si aspettava era un’impennata dell’adozione dello strumento delle tariffe doganali, che è sempre esistito e che anche gli Stati Uniti hanno sempre adottato, in modo così ampio e significativo. Ora questa globalizzazione si era già trasformata e una delle linee di tendenza con lo scoppio delle guerre era stato il friend-shoring, cioè il cercare di compensare la diminuzione dei commerci con alcuni paesi aumentandola con quella di paesi vicini. Gli Stati Uniti sono stati tradizionalmente un paese amico, seppur in competizione economica, con l’Europa, mentre in questo momento si pongono in modo molto rischioso, come un antagonista. Tutto questo avrà senza dubbio delle conseguenze sul modo in cui interpretiamo il libero mercato a livello globale e le scelte che verranno adottate, non soltanto dagli Stati Uniti ma anche dalla controparte, saranno rilevanti per le conseguenze sulla globalizzazione.
L’effetto di Trump sull’ordine internazionale non sarà quello di migliorare quel livello di disuguaglianze che in tutto il pianeta avevamo cominciato a misurare soltanto una decina di anni fa in maniera consistente, no?
La globalizzazione di per sé, cioè la liberalizzazione dei mercati, ha avuto in realtà un effetto di aumento delle inuguaglianze all’interno dei paesi sviluppati, ma ha colmato molti gap, molte distanze fra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati. Il tema delle inuguaglianze è molto valido all’interno, molto meno valido fra paesi. In realtà della globalizzazione hanno beneficiato molti paesi che erano in crescita, la Cina in primis. La Cina non è nata grande potenza, è un paese che ha ancora sacche di povertà significative, che ne aveva molte di più e che ha beneficiato della partecipazione ai mercati globali. Il quadro dell’impatto della globalizzazione è vario. Adesso tendiamo a sottolineare solo gli aspetti negativi di questa liberalizzazione dei mercati, in realtà sono stati moltissimi gli aspetti positivi, per quanto riguarda la trasmissione di conoscenze, la possibilità di espansione dei mercati e per le nostre economie. Il problema è stato il modo in cui dagli anni ’80 in poi, soprattutto dall’amministrazione Reagan e Thatcher, si è interpretato il ruolo dello Stato rispetto all’economia.
Il problema più grosso dell’amministrazione Reagan e Thatcher, i cui risultati ancora si toccano in questi paesi, è stato la riduzione dello Stato sociale. Questo è stato davvero l’impatto più importante e che comunque ha avuto delle ripercussioni anche in una riduzione della presenza delle tutele dello stato per quelle fasce della popolazione e della produzione più a rischio rispetto a questi grandi processi di globalizzazione. La geografia degli scontenti della globalizzazione che abbiamo poi visto nei vari paesi si è manifestata anche a livello elettorale. Era molto evidente, ad esempio, nel primo spareggio fra Macron e Le Pen, nel referendum per la Brexit e nella prima elezione di Donald Trump, dove coloro che più hanno subito le conseguenze negative di questi processi di globalizzazione, senza vedersi compensati i costi da uno Stato presente, hanno abbracciato questa proposta in larga parte populista e protezionista. Donald Trump rappresenta una emanazione di questi processi che già erano in corso, ma anche un amplificatore di questi processi. La crisi del multilateralismo c’era, ma adesso ha assunto delle caratteristiche e una legittimazione che non aveva precedentemente. L’ipernazionalismo, una forma di realismo anche molto brutale, un sovranismo legittimato fino addirittura ad affermare l’irrilevanza delle norme pur di poter affermare quello che è un presunto interesse nazionale definito dal leader. Una presenza sempre più tangibile di una oligarchia economica, soprattutto quella digitale, che assume anche un ruolo politico importante che era già presente, ma che adesso viene amplificata. Trump è il risultato di una serie di processi, ma anche un amplificatore e un’accelerazione di questi processi e, in questo senso, una sfida molto significativa all’ordine liberale. Adesso come unico baluardo di questo che era un ordine liberale rimane solo l’Europa con tutte le sue debolezze. E credo che sia una responsabilità che ci dobbiamo assumere. Sarebbe un gravissimo errore leggere l’ordine liberale complessivo, cioè quello anche fatto di norme, regole e istituzioni, soltanto pensando all’ordine economico liberale, cioè quel liberismo estremo che ha prodotto poi quelle inegualanze di cui parliamo. Credo che si debba stare molto attenti a questo punto di vista, perché la dimensione politica dell’ordine liberale è quella che ci ha garantito democrazia, diritti umani, istituzioni che ci danno rassicurazione rispetto al comportamento degli attori principali. Sono abbastanza preoccupata non solo per l’andamento dell’economia globale, ma anche per l’andamento della tenuta dell’ordine liberale e politico che abbiamo costruito.