“Quando arrivammo alla miniera vedemmo solo fumo. Era tutto buio, ma sapevamo che lì sotto, a mille metri di profondità, c’erano 275 minatori, nostri colleghi. Io avevo già partecipato ai soccorsi in altre sciagure, ero allenato, ma quando arrivammo lì sotto abbiamo trovato l’inferno. Non so come noi stessi siamo riusciti a salvarci”.
E’ il racconto di Silvio Di Luzio, minatore-eroe, che cercò, rischiando la vita, di portare aiuto ai suoi compagni intrappolati nella miniera. La sua è una delle testimonianze di quella maledetta giornata dell’8 agosto 1956, il giorno della strage, in cui morirono 262 minatori.
Sono le 8.15. Un incendio scoppia a 975 metri di profondità nella miniera di carbone del Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi, nei pressi della cittadina belga di Marcinelle.
In quel momento nelle viscere della terra lavorano 275 uomini. Un addetto ai carrelli fa risalire nel momento sbagliato un montacarichi, che sbatte contro una trave metallica che va a squarciare un cavo elettrico, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. Poco dopo si scatena l’inferno. L’incendio è immediato e micidiale, non lascia scampo.
Le fiamme si sviluppano rapidamente, favorite da vecchie strutture in legno, da centinaia di litri di olio e dalle ventole di areazione. Non ci sono vie di fuga, le sicurezze obsolete. Manca la dotazione delle maschere con l’ossigeno.
Il 22 agosto, dopo giorni di ricerche, mentre una fumata nera e acre continua a uscire dalla miniera, uno dei soccorritori che torna in superficie lancia un grido di orrore: “Tutti cadaveri”. Morirono 262 persone, quasi tutti soffocati dall’ossido di carbonio, avvolti dalle fiamme.
Persero la vita 136 italiani, 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 3 algerini, 2 francesi, 3 ungheresi, un inglese, un olandese, un russo e un ucraino. Dodici i sopravvissuti.
La storia di questi minatori, questa strage, ci riportano al Dopoguerra, al governo De Gasperi, a una classe dirigente che fin dal 1946 iniziò a organizzare “un’emigrazione di Stato” di lavoratori italiani.
Le piazze e i bar dei paesini, da Nord a Sud dell’Italia, furono tappezzati di manifesti rosa che incitavano a partire per le miniere del Belgio, con allettanti (e false) promesse. Accanto ai centri di emigrazione legale, si creò anche la rete dei trafficanti di migranti. Regolari o irregolari, l’importante era che fossero tanti, un esercito di operai chiamato a produrre più carbone possibile.
Molti dei nostri connazionali, dopo i primi mesi, rimpatriarono o furono arrestati per il rifiuto di sottostare alle condizioni di lavoro e abitative disumane su cui il governo belga e quello italiano si erano accordati: un flusso di almeno duemila minatori a settimana, in cambio di una fornitura di carbone all’Italia. Intanto i minatori morivano, come nella strage di Marcinelle, o per malattie come la silicosi.
Oggi, sessant’anni dopo quella strage, resta il dovere della memoria collettiva, non solo per ricostruire quei momenti storici e politici, ma per riflettere sull’oggi, perché in quella tragedia si riscoprono momenti e contesti che per molti aspetti assomigliano alle drammatiche vicende attuali dei migranti.
Toni Ricciardi è uno storico delle migrazioni. Ha scritto il libro su Marcinelle (Donzelli Editore): Quando la vita valeva meno del carbone. Ricciardi in queste ore è a Marcinelle.
Che cosa l’ha colpita di più in queste ore a Marcinelle?
“Due cose. La prima sono le lacrime degli ex minatori, dei familiari delle vittime della strage, lacrime di commozione per aver impedito che nella zona della miniera, della strage, si facesse un grande centro commerciale. C’ è invece il polo museale-luogo della Memoria, diventato patrimonio dell’Unesco”.
La seconda…
“La seconda cosa che mi ha colpito è la mancanza di polemiche, di accuse verso l’Italia e il Belgio… Eppure gli emigranti italiani di fatto furono venduti con gli accordi tra i due governi del 1946 che testualmente recitavano ‘minatori-carbone’. In sostanza i due Paesi scambiarono merci: il Belgio mise sul tavolo carbone, l’Italia le braccia”.
Quindi fu un emigrazione di Stato?
“Sì, lo fu. L’Italia mise in piedi, a partire dal 1946, il più grande sistema di esportazione di manodopera che la storia occidentale ricordi”.
Per questa operazione furono creati centri per l’emigrazione statali, ma nello stesso tempo si formò una rete di trafficanti di migranti.
“Sì, come accade con i migranti di oggi, quasi in maniera identica, anche se in un contesto ovviamente diverso. C’erano finte cooperative, intermediari pagati dalle potenti società minerarie che andavano direttamente nei comuni reclutando minatori in modo sbrigativo, senza visite mediche e controlli”.
Come giudica da storico il comportamento della classe politica dell’epoca?
“Dopo il 1948, il comportamento della classe dirigente di allora fu vergognoso. Da Fanfani a De Gasperi sino a un giovanissimo Moro vennero più volte in Belgio… Ed erano consapevoli di come venivano trattati i minatori, le condizioni in cui vivevano. Ma non fecero nulla”.
In che condizioni vivevano i migranti italiani e di altri Paesi a Marcinelle?
“Ai nostri emigranti era stato promesso che avrebbero trovato alloggi confortevoli. In realtà vennero portati in baracche di ex campi di concentramento, senza luce e con bagni uno per accampamento”.
C’era anche un certo disprezzo verso gli italiani.
“Sì, li chiamavano ‘maccaronì’, come anni dopo li chiameranno nella Svizzera tedesca e in Germania ‘mangiatori di spaghetti’. Erano etichette dispregiative. Poi dal giorno della strage di Marcinelle le cose cambiarono nell’opinione pubblica belga perché si resero conto che c’era qualcuno che, con lavori durissimi e nocivi, contribuiva al loro benessere”.
Ci furono pene severe per la strage, furono puniti i veri responsabili?
“In primo grado i cinque rinviati a giudizio furono assolti. Poi venne trovato un capro espiatorio: in secondo grado venne condannato il direttore del pozzo della miniera, ma con una pene leggera di 6 mesi di carcere che non scontò mai”.
Una vergogna.
“Sì, certamente, ma guardi che la storia si è ripetuta in modo peggiore dieci anni dopo a Mattmark in Svizzera. (Nel 1965 ci fu una strage di lavoratori. Una valanga di più di 2 milioni di metri cubi di ghiaccio seppellì 88 lavoratori. Di questi 56 erano italiani. Anche in questo caso i responsabili restarono impuniti, ndr).
Ritorniamo a Marcinelle, una miniera senza sicurezze…
“La miniera doveva essere chiusa da anni, ma non fu chiusa perché arrivò manodopera a basso costo, pronta ad accettare condizioni miserevoli di lavoro. E quindi gli interventi per la sicurezza furono procastinati. Marcinelle era un miniera con ancora le armature in legno, non esistevano porte stagne, quindi l’incidente mortale era dietro l’angolo”.
Noi italiani migranti di allora, oggi quelli di altri Paesi che vengono da noi. Il contesto è diverso, ma lei che similitudini vede, che riflessione fa?
“I raccoglitori di pomodori a due euro all’ora oggi in Italia non sono dissimili dai minatori di allora. Manodopera a basso costo che si deve accontentare di condizioni misere di lavoro”.
Quindi l’importanza della memoria…
“Sì. E’ importante la memoria, sapere cosa siamo stati, cosa abbiamo subìto, per capire l’oggi. Le migrazioni sono una costante dell’umanità. E non esiste comunità, società che si sia evoluta chiudendosi dietro a un muro, al filo spinato. Dobbiamo avere la forza di spiegare che le migrazioni sono sì anche un problema, una difficoltà, ma sono soprattutto una risorsa. E non solo in termini di crescita sociale, culturale, ma anche economica. E lo dimostra la lunga epopea della migrazione italiana nel mondo”.
Ascolta qui l’intervista integrale a Toni Ricciardi