
Il grande successo di The Last Dance, nel 2020, ha riacceso l’interesse – o, meglio, l’ha espanso anche oltre la cerchia di appassionati – per il basket, più precisamente per l’NBA. Secondo qualche ironico commentatore, The Last Dance – miniserie doc, disponibile su Netflix, che ripercorre la straordinaria carriera di Michael Jordan incastonandola, tra interviste, flashback e flashforward, nel racconto della sua ultima stagione con i Chicago Bulls – non è troppo lontana da Il trono di spade: le sfide nei palazzetti sportivi equivalgono a epiche battaglie, la propensione di Jordan a legarsi al dito qualsiasi minimo sgarbo si trasforma sempre in sete di vendetta. All’estremo opposto, a livello di immaginario, di Michael Jordan c’è – e probabilmente c’è sempre stato – Magic Johnson: al secolo Earvin Johnson Jr., di qualche anno più grande di Jordan, è come il collega considerato uno dei maggiori sportivi della Storia, ma laddove Michael non nasconde la competitività esasperata e la litigiosità, Magic promuove un più deciso spirito di squadra e ottimismo.
La sua straordinaria carriera conta cinque titoli NBA vinti e, soprattutto, ha coinciso con una vera e propria era sportiva per la sua squadra, i Los Angeles Lakers, chiamata “Showtime”: i passaggi di Johnson e l’infallibilità a canestro di Kareem Abdul-Jabbar davano vita a uno spettacolo veloce, pirotecnico e indimenticabile. Ma Johnson ha fatto la Storia anche fuori dai palazzetti, quando ha scoperto di essere sieropositivo: invece di tacere, ha reso pubblica la propria condizione – uno dei primissimi sportivi di sempre a farlo – contribuendo così a combattere lo stigma sociale che negli anni 80 e 90 perseguitava le persone che avevano contratto l’HIV. Tutto questo e molto altro è al centro, quasi in contemporanea, di due serie diverse e complementari. They Call Me Magic, su AppleTv+, è per certi versi il corrispettivo di The Last Dance: si tratta di una miniserie documentaria in cui è lo stesso Magic Johnson a raccontarsi in prima persona, concedendosi a un’intervista lunga e generosissima intervallata da tanto materiale di repertorio. Johnson è qui anche produttore esecutivo ed è inevitabile che They Call Me Magic assuma a tratti dei toni quasi agiografici, parlando anche del successo da imprenditore del cestista dopo il ritiro dai campi da basket. L’altra serie s’intitola Winning Time, e comincia il 2 giugno su Sky Atlantic e sulla piattaforma NOW: in questo caso non parliamo di un documentario, ma di una serie tv di fiction, per quanto ovviamente basata su una conosciutissima storia vera. Con lussuosa e storicamente accurata produzione HBO, ci riporta alla Los Angeles degli anni 80 per riraccontare l’ascesa della dinastia Lakers, come recita il sottotitolo: l’attore John C. Reilly interpreta l’imprenditore Jerry Buss, proprietario di maggioranza dei Lakers e presunto deus ex machina dietro la straordinaria infilata di vittorie della squadra.
La serie è prodotta da Adam McKay, il regista di La grande scommessa e Don’t Look Up, che ne ha diretto anche l’episodio pilota, e lo sterminato cast è ricco di ottimi interpreti, oltre a Reilly: Quincy Isaiah, i premi Oscar Sally Field e Adrian Brody, Jason Clarke, Gaby Hoffman, Tracy Letts, Jason Sagel, Julianne Nicholson, Lola Kirke, Gillian Jacobs… A differenza di They Call Me Magic, però, Winning Time, non troppo sorprendentemente, non è piaciuto a Magic Johnson, a Kareem Abdul-Jabbar e ad altri dei reali personaggi rappresentati. L’ex giocatore Jerry West non ha gradito il proprio turbolento ritratto e ha minacciato di fare causa a HBO, la quale però ha risposto che «sebbene sia naturale prendersi qualche licenza poetica quando si adatta una storia vera, Winning Time è frutto di un grande lavoro di ricerca, e molto accurato». D’altronde tutti gli idoli hanno luci e ombre, e poi come dice l’adagio: the show(time?) must go on.