Il racconto dell’ancella non è mai passato di moda, anzi: dal 1985, quand’è stato pubblicato, in poi, si è installato nelle liste delle letture obbligate, fossero elenchi di imprescindibili romanzi femministi o di irrinunciabili titoli distopici. Quando lo sceneggiatore Bruce Miller e la regista Reed Morano, qualche anno fa, hanno cominciato a lavorare a un adattamento seriale del libro di Margaret Atwood, hanno dunque suscitato subito trepidazione e attesa tra le varie generazioni di lettori, mai pienamente soddisfatti dall’unico altro adattamento, un film del 1990. Ma nessuno poteva aspettarsi che la serie tv The Handmaid’s Tale sarebbe andata in onda in un momento in cui l’America stessa sembra avvicinarsi a una distopia, con l’ultra-destra al potere, i diritti di donne e minoranze sotto attacco, perfino una neolingua nelle fake news (non è un caso che sia Il racconto dell’ancella sia 1984 di Orwell siano balzati ai primi posti nelle classifiche dei bestseller).
Per tutto il 2017, la serie tv The Handmaid’s Tale è diventata un simbolo dell’opposizione a Trump, e ha contestualmente raccolto quasi tutti i premi possibili nelle varie cerimonie di settore. Ora la seconda stagione ha, nella necessità di ripetere l’exploit della prima, un compito non facile: innanzitutto perché gli sceneggiatori sono costretti a camminare da soli, senza più il sostegno del romanzo di Atwood, i cui eventi si sono esauriti con la prima annata.
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Dai primi due episodi, sembra che abbiano deciso di puntare su un’esplorazione più approfondita del mondo futuribile in cui è ambientato il racconto (mostrando per esempio le Colonie, dove le donne che non hanno nessuna utilità per il regime vengono spedite a raccogliere rifiuti tossici finché non muoiono), e anche di dedicarsi a vari personaggi secondari (con aggiunte di peso nel cast, come Bradley Whitford, Cherry Jones e Marisa Tomei).
L’altra sfida è poi, dopo aver dipinto un paesaggio distopico di angosciante e plausibile desolazione, trovare il modo di ipotizzare una via d’uscita e di riscatto: per questo percorso, la serie torna a concentrarsi sulla protagonista June, interpretata straordinariamente da Elisabeth Moss, e su una sua possibile fuga dall’incubo. The Handmaid’s Tale resta, anche in quest’inizio di seconda stagione, un pugno nello stomaco, una storia dura e proprio per questo importante da guardare.
Come già nella prima stagione, i momenti più agghiaccianti sono quelli dedicati ai flashback, che individuano nel nostro presente i semi della catastrofe di domani: l’apparentemente innocente richiesta a una madre di scegliere tra figli e lavoro; l’omofobia più o meno casuale che contamina i rapporti umani. Così The Handmaid’s Tale ci ricorda che l’oppressione può nascondersi anche nei piccoli gesti, e che il peggio sta acquattato a un passo dalla nostra sedicente normalità: vale negli Stati Uniti come qui, e sta a noi, tutti, fare attenzione, tenere gli occhi bene aperti, e resistere, allo stesso modo, con ogni nostra scelta, piccola o grande che sia.