Avete mai la sensazione di stare diventando pazzi? O meglio, che sia il mondo attorno a voi a deragliare su binari sempre più folli, mettendo in crisi il vostro senso della realtà? Se negli ultimi due anni, o giù di lì, avete provato sempre più intensamente questa sensazione, sappiate che non siete gli unici: condividete il problema almeno con Diane Lockhart, protagonista di The Good Fight, spinoff/sequel della celebrata The Good Wife, ma perfettamente fruibile anche da chi non ha mai visto la serie madre.
La seconda stagione di The Good Fight è approdata da metà settembre, in Italia, sulla piattaforma streaming TIMvision, e anche se la serie è molto meno celebre di altre produzioni tv americane, è davvero imperdibile per chi è interessato a vedere da vicino cosa vuol dire vivere (o sopravvivere) oggi nell’America di Trump. Sotto forma di legal drama – serie ad ambientazione giudiziaria, in cui a ogni puntata corrisponde un caso da dibattere in tribunale – The Good Fight non teme di tuffarsi a capofitto in argomenti delicati e attualissimi, dalle rivendicazioni #MeToo all’epidemia di fake news, dall’immigrazione all’irrisolta questione razziale, e lo fa ogni volta con incredibile intelligenza e impagabile ironia (l’episodio in cui i personaggi trovano – forse – il famoso video di Trump con prostitute russe e piogge dorate, e lo osservano illuminati dalla luce dello schermo come fosse la valigetta di Pulp Fiction, è un piccolo saggio di commedia brillante e amara). E, soprattutto, senza mai perdere di vista per un attimo la complessità della realtà: per Diane – donna fiera e indipendente, che per tutta la vita ha combattuto battaglie democratiche con scaltrezza giuridica ma anche con sincero idealismo – quest’epoca in cui viene meno ogni coordinata di verità, umanità e logica equivale a un incubo surreale, in cui la tentazione di lasciarsi andare, alzando bandiera bianca, è fortissima.
Gli autori dello show sono bravi a calarci perfettamente nei panni di Diane, mescolando realtà e invenzione in modo tale da far sentire sulla pelle l’assurdità della nostra contemporaneità; e a farci navigare fino alla consapevolezza che preservare la nostra sanità mentale e quella del nostro personale pezzo di mondo è il primo indispensabile passo per il contrattacco. The Good Fight, d’altronde, significa “la giusta causa”, e anche “la buona lotta”: non sono tempi, questi, per restare nelle retrovie.