Per celebrare la conclusione del lungo sciopero degli attori di Hollywood, avvenuta lo scorso 9 novembre dopo ben 118 giorni di stop, forse non c’è titolo più appropriato di The Curse, nuova serie cominciata questo weekend sulla piattaforma Paramount+. Perché la sua co-protagonista è una delle attrici più acclamate della sua generazione, cioè Emma Stone: già vincitrice di un Oscar per il ruolo principale in La La Land, il suo ultimo film, Povere creature! di Yorgos Lanthimos, ha vinto il Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia, e in tanti sono pronti a scommettere che potrebbe portarle un secondo Academy Award.
The Curse non è il suo primo progetto seriale, perché qualche anno fa Stone era stata protagonista di un’ambiziosa miniserie Netflix, Maniac. Ma The Curse è molto diversa, sia da quel progetto, sia dalla maggior parte delle serie tv. Accanto a Emma Stone ci sono i co-creatori della serie, Nathan Fielder e Benny Safdie. Nathan Fielder è un comico, autore e regista abbastanza celebre negli Stati Uniti, soprattutto per un bizzarro programma realizzato per Comedy Central e intitolato Nathan for You (se volete recuperarlo, trovate anche questo su Paramount+): nello show, Fielder si presenta come un grande esperto di marketing e offre a varie persone vere la sua consulenza per migliorare la loro attività commerciale. Peccato che le sue idee siano sempre strampalate, inutilmente complesse, tendenzialmente inutili se non direttamente controproducenti. Recentemente Fielder ha curato un altro lavoro per HBO, The Rehersal, che nuovamente mescola la narrazione finzionale al reality, al documentario, alla candid camera, tutte caratteristiche fondamentali di The Curse. Benny Safdie, infine, è noto soprattutto come regista e produttore, la metà insieme al fratello Josh del duo Safdie Brothers: i loro film Good Times con Robert Pattinson e Diamanti grezzi con Adam Sandler – distribuiti da Netflix – sono stati molto apprezzati, facendo dei fratelli Safdie un nome di punta della scena cinematografica indipendente americana, grazie anche alla loro collaborazione con la casa di produzione A24 (la stessa del super premiato agli Oscar Everything Everywhere All at Once, e che guarda caso produce anche The Curse). Benny Safdie è poi apparso come attore anche nel successo dell’estate Oppenheimer, dove interpreta il fisico Edward Teller, “padre” della bomba all’idrogeno.
La serie The Curse nasce proprio dall’incontro tra Nathan Fielder e Benny Safdie, che hanno avuto l’idea di raccontare le bizzarre e inquietanti disavventure di una coppia, Asher e Whitney Siegel, interpretata dallo stesso Fielder e, appunto, da Emma Stone. I Siegel sono gli autori e le star di un fittizio reality show intitolato Flipanthropy, una variazione sul tema dei programmi di makeover di case, quelli in cui un team di esperti si occupa di ristrutturare abitazioni malmesse, per la gioia di proprietari e inquilini. Ma Asher e Whitney Siegel si propongono, almeno davanti alle telecamere, obiettivi più ambiziosi: non semplicemente ristrutturare case, ma trasformarle in unità abitative pienamente sostenibili, nel frattempo combattendo la gentrificazione nella comunità di Española, in New Mexico, dove tutto questo si svolge, una comunità working class formata prevalentemente da indigeni e latinoamericani. Benny Safdie impersona Doug, il produttore del reality show, un tipo manipolatore, determinato a rendere “d’intrattenimento” il programma seminando zizzania tra i coniugi o virando tutto ciò che accade su toni più sensazionalistici. The Curse è, così, una serie fiction che racconta la storia di una serie reality, facendo largo uso sia del linguaggio della real tv sia di quello del documentario (e, in questo, la citata esperienza di Nathan Fielder con le ibridazioni di format è sicuramente fondamentale); è una commedia nera, di quelle che mirano a mettere lo spettatore a disagio, a farlo ridere d’imbarazzo, oppure per l’esagerazione di situazioni paradossali. Ma è anche una satira intelligente che illumina non solo le dinamiche sconcertanti di tanta reality television, quanto, più in generale, la deriva performativa di ogni interazione sociale, anche e soprattutto quando si tratta di agire per “una buona causa”. I Siegel, come tanti altri, si atteggiano a benefattori, parlano di “gentrificazione buona”, di “servizi alla comunità”, ma le persone che vogliono beneficiare, prima di tutto, sono loro stesse, e finiscono per rivelare la propria ipocrisia a ogni passo. The Curse li segue con attenzione, e si rivela sorprendentemente efficace quando ci chiede: quanti di voi si comporterebbero in modo diverso?