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The big Cigar, la serie TV di Damon Thomas e Don Cheadle

The big Cigar

Ci sono due rivoluzioni che si incontrano nella miniserie The Big Cigar, che comincerà su AppleTv+ il prossimo 17 maggio. La prima, e certamente la più importante, è quella del Black Panther Party, e di Huey P. Newton, che lo fondò nel 1966, a Oakland, in California, insieme al compagno di studi Bobby Seale. Un movimento politico fondamentale nella Storia (non solo) statunitense delle lotte per i diritti civili, che alla pratica della non violenza predicata dal reverendo Martin Luther King contrapponeva quella dell’autodifesa, rivendicando il diritto a portare armi per proteggersi dalle violenze istituzionalizzate della polizia, che opprimevano (e opprimono) le comunità nere. «Contraddizioni», ripete spesso nella serie Huey P. Newton, interpretato da André Holland, soprattutto quando rievoca l’improvvisa campagna dei repubblicani, solitamente sempre schierati a difesa del secondo emendamento, per imporre un maggior controllo delle armi, purché non fossero utilizzate dalle Black Panther. Accanto alle attività di pattugliamento armato – per “controllare i controllori”, cioè i poliziotti, e provare a dissuaderli dagli abusi –, il Black Panther Party, d’ispirazione marxista-leninista e maoista, organizzava e metteva a disposizione delle comunità nere programmi di educazione e di sanità gratuiti, sovrapponendo la battaglia antirazzista alla lotta di classe, oltre a lavorare anche culturalmente per coltivare l’orgoglio black. La serie The Big Cigar rievoca tutto ciò, ma non è un documentario né una ricostruzione storica troppo austera, perché l’altra rivoluzione che racconta è quella di un ambiente molto meno serio, cioè Hollywood: il co-protagonista è Bert Schneider, impersonato dall’attore Alessandro Nivola (visto recentemente nei film Lo strangolatore di Boston e Rumore bianco). Cioè un produttore cinematografico fondamentale per la nascita di quella che verrà chiamata New Hollywood: fu lui a insistere per finanziare e distribuire un certo folle “film sui motociclisti”, ovvero Easy Rider, destinato a diventare uno dei più maggiori cult movie di tutti i tempi, e a fissare per sempre sul grande schermo la controcultura di fine anni 60. Easy Rider non è l’unico capolavoro prodotto da Schneider, gli fanno compagnia anche Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, il documentario sulla guerra in Vietnam Hearts and Minds, e I giorni del cielo di Terrence Malick. L’incontro tra Huey P. Newton e Bert Schneider, mostra la miniserie, è anche quello tra le lotte politiche di fine anni 60 e inizio 70, e i vari movimenti controculturali; ma è anche, soprattutto, l’occasione di mettere in scena una storia vera – anche se, inevitabilmente e dichiaratamente, un po’ romanzata – che ha contorni surreali. Newton – che era già stato in carcere per un omicidio di cui si è sempre dichiarato innocente: recuperate il bellissimo mediometraggio documentario Black Panther di Agnès Varda per uno sguardo in presa diretta sulle proteste per la sua liberazione – all’inizio degli anni 70 si ritrova nuovamente accusato di un delitto, e cerca una via di fuga dal paese, consapevole che difficilmente uscirebbe vivo da una caccia all’uomo ai suoi danni messa in piedi dall’FBI di J. Edgar Hoover, intenzionato a distruggere il Black Panther Party con ogni mezzo necessario (a tal proposito, ecco un altro consiglio cinematografico: il film candidato all’Oscar Judas and the Black Messiah, sulla persecuzione di un altro famoso membro delle Black Panther, Frad Hampton). In fuga, Huey P. Newton si rivolge a Bert Schneider, e i due mettono in piedi un piano spericolato: Newton raggiungerà l’accogliente Cuba di Fidel Castro “nascosto” in mezzo a una produzione cinematografica coordinata proprio da Schneider. Se la trama vi ricorda quella di Argo – il film di Ben Affleck che raccontava la fuga degli ostaggi americani da Teheran attraverso l’ausilio di un film fasullo – è forse anche perché Joshuah Bearman, il giornalista che aveva raccontato quella storia, è anche l’autore del reportage a cui si ispira The Big Cigar. A produrre la miniserie, e a dirigere i primi due episodi, invece, c’è l’attore Don Cheadle, passato qui alla regia per portare sullo schermo un periodo troppo poco rappresentato e una storia, anche hollywoodiana, ancora sconosciuta.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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    Due artisti di teatro si trovano a vivere in un’Italia nuova, in cui non c’è più spazio per i loro spettacolini di sinistra. La storica egemonia culturale è terminata. Purtroppo, non sanno fare nient’altro che spettacoli di teatro. Non c’è via di scampo: devono diventare artisti di destra. Anche perché, se a sinistra lo spazio è poco -sempre meno- e molta la concorrenza, a destra ci sono praterie. C’è lo spazio per una nuova classe dirigente. Per una nuova egemonia, tutta da costruire, della quale essere protagonisti. Il problema è che loro, la destra, non la conoscono bene. Cercano allora di capire come si faccia, uno spettacolo così. Si domandano cosa sia, la destra, che confini abbia. Studiano, si informano, immaginano, fantasticano. Ci provano. Poi cominciano, così: "Hanno vinto loro. E ora dobbiamo obbedire. Spazi, case, televisioni e piazze hanno i loro colori. E noi, sempre più sbiaditi. Se non puoi batterli, e non possiamo, unisciti a loro. Loro sono la maggioranza. E forse un motivo c’è. Nel mondo della cultura c’è bisogno di una nuova classe dirigente. E noi siamo pronti. Dove c’è discordia, porteremo armonia. Dove c’è errore, porteremo verità. Dove c’è dubbio, porteremo fede. Dove c’è angoscia, porteremo speranza. Questo è uno spettacolo di destra. Siamo Nicola e Niccolò e siamo pronti a rinnegare tutto, siamo pronti a salire sul carro dei vincitori. E non faremo prigionieri." Oggi a Cult Ira Rubini ha ospitato Niccolò Fettarappa per parlare dello spettacolo, realizzato insieme a Nicola Borghesi, che debutta proprio oggi all'Arena del Sole di Bologna.

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