A Genova ci sono ancora le macerie, è passata poco più di una settimana. Non sono le uniche macerie rimaste lì. Ci sono ancora, ad esempio, ad Arquata del Tronto (AP). Siamo in totale emergenza, dice il sindaco, solo che lì sono passati due anni dal terremoto del centro Italia.
Si comincia alle 3.36 con la prima scossa, molto forte, di magnitudo 6.0 con epicentro nella valle del Tronto, tra i comuni di Accumuli ed Arquata del Tronto. Le scosse proseguono fino ad ottobre, poi ancora gennaio. 11mila sfollati, 388 feriti, 303 morti. L’Italia è un Paese fondato, o affondato, sulle macerie. Dove un evento è ancora emergenza dopo due anni, dove per qualsiasi evento strutturale duraturo si tira fuori dalla tasca il termine “emergenza“.
“E ancora Brandelli sospesi di vite, ancora macerie, ricordi, lacrime, scricchiolii sotto i piedi ad ogni passo. Troppo qui è ancora“, scrive l’inviato de L’Avvenire da Amatrice. Le zone rosse dei centri storici con le macerie visibili sono ancora lì, strutturali, ormai nel paesaggio urbano. E di ciò che ne resta, tra i cartelli stradali provvisori, provvisori da due anni.
La rimozione delle macerie ormai è programmata, mi auguro che finisca entro la fine dell’anno, come è stato promesso. È essenziale soprattutto per dare fiducia alle persone. Questo probabilmente è il momento peggiore, perchè adesso c’è la convinzione che i prossimi anni saranno così, che si vivrà in maniera precaria e che quello che abbiamo potuto offrire sono le casette, i centri commerciali nuovi e una parte di servizi.
Cercare risposte rischia di diventare persino grottesco ed esercizio retorico tra le promesse fatte dai governi che si sono susseguiti e poco o nulla di concreto, tranne il mega centro commerciale di Castelluccio di Norcia, quello sì che lo hanno iniziato a costruire tagliando in due una delle valli più simboliche d’Italia e della sua ricchezza agroalimentare. Si parla ancora di ripartire, dopo due anni. I sindaci dicono tutti la stessa cosa: la ricostruzione è ferma.
Il punto che deve essere chiaro è che tutto ciò che serve per rimettere a posto i vostri paesi lo mettiamo. Non ci interessa destra o sinistra. (Matteo Renzi)
Le casette, o meglio i moduli abitati, un po’ ci sono e un po’ no. A Posta, altro comune del cratere sismico, le SAE – Soluzioni Abitative di Emergenza, si chiamano così, ancora con quella maledetta parola – ci sono, ma non si possono usare. I moduli abitativi sono già stati assegnati a 18 famiglie, ma sono ancora sigillati perchè mancano le utenze, dice il sindaco Serenella Clarice.
La Regione Lazio le ha consegnate al comune di Posta senza le utente e ha lasciato al comune la patata da risolvere. L’ANAS, per facilitare il tutto, non acconsente a far passare il tubo della corrente vicino alla Salaria, così saranno costretti a far passare un tubo volante che attraversi la Salaria per poter fornire la luce ai nuovi SAE.
Approssimazione, disattenzione, sufficienza.
L’altro terremoto, quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, può cominciare dai piani della Protezione Civile.
Lacrime di coccodrillo. Ve li ricordate i proclami e gli annunci? “Faremo la mappa delle zone sismiche“, “faremo la mappatura degli edifici a rischio“. Il piano nazionale di prevenzione e risposta alle emergenze, che dopo il terremoto sembrava questione di ore, ancora non c’è. Di emergenza ce n’è sempre un’altra pronta a prendere il posto delle altre, per farle dimenticare e far dimenticare le promesse. Così come le responsabilità da scaricare, quelle sì. Le macerie, invece, le hanno scaricate in pochi, forse perchè pesano tanto e comunque meno delle responsabilità.