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Tecnopolitica. L’intervista ad Asma Mhalla

Tecnopolitica

A Pubblica si è parlato di “tecnopolitica” con una delle più autorevoli studiose del momento. Si tratta di Asma Mhalla, che insegna a Parigi (a Science Po) e a New York (alla Columbia University). Mhalla è franco-tunisina. In Italia è stata appena pubblicata l’edizione italiana del suo principale lavoro di ricerca che si intitola appunto “Tecnopolitica. Come la tecnologia ci rende soldati” ed è pubblicato dall’editore ADD.
La tecnopolitica – secondo Mhalla – è l’incrocio tra le Big Tech (i colossi della tecnologia che hanno sempre più una loro agenda politica) e il Big State, uno Stato onnipotente che aspira alla forza e alla potenza. E noi cittadini? Come utenti delle ipertecnologie (smartphone, app, etc) siamo nel mezzo tra lo spazio civile e quello militare creato da queste tecnologie. Noi cittadini – racconta Asma Mhalla – possiamo diventare bersagli (di una guerra dell’informazione, di una propaganda, di fake news, di un tentativo di controllo). In quanto bersagli possiamo anche diventare cyber-combattenti.

 

Che cos’è la tecnopolitica?

Il concetto di tecnopolitica lo propongo per affermare che la tecnologia, ancora prima di indicare una tecnica o una gamma di strumenti utili, è un vettore politico. Per capire quello che succede nel nostro secolo – con le sue nuove forme di potere e di potenza – bisogna capire questo aspetto della tecnologia, e cioè che è un vettore politico. Il titolo con la parola “tecnopolitica” serve a comprendere quanto sta avvenendo nel nostro mondo, negli Stati Uniti o in Europa. E’ necessario che gli intellettuali adottino un pensiero che faccia sistema, vale a dire non tante specializzazioni a compartimenti stagni, ma un approccio più globale, sistemico, più interdisciplinare o transdisciplinare. È fondamentale. La parola trae ispirazione dall’inglese technopolitics, che è veicolo di questo intreccio fra discipline.

 

E’ la tecnopolitica responsabile della trasformazione dei cittadini in cittadini-soldati?

Sì, è questo il punto. Una delle tesi di Tecnopolitica è che il maggiore elemento di rottura rappresentato dalle ipertecnologie che descrivo sta nel loro essere per natura – o by design – duali. Double use, in inglese: ovvero sono allo stesso tempo civili e militari. Una volta capito e assimilato questo concetto, si capisce meglio che, ad esempio, uno spazio come i social network – e nel futuro realtà come gli impianti nel cervello o il metaverso, che probabilmente tornerà di qui a poco nel dibattito pubblico – non sono semplicemente strumenti di lavoro o personali (che usiamo per avere informazioni, notizie, come passatempo, per sapere cosa fanno gli amici…) ma sono anche un’arma di guerra. Quegli spazi pubblici sono stati militarizzati. È il caso delle guerre dell’informazione o, per il futuro, delle cosiddette guerre cognitive. Il dualismo di questi strumenti salta agli occhi nel caso dei sistemi di intelligenza generativa.

Possiamo usarli per lavorare, per tradurre un testo o per avere informazioni, ma possiamo usarli anche sul campo di battaglia, la guerra,  per ottenere, ad esempio, uno scenario strategico, un’operazione militare in tempo reale. Così si capisce che i confini finora esistenti tra sfera civile e sfera militare si stanno sfaldando: quello che è civile diventa militare. E viceversa. La conseguenza diretta di ciò è che ogni cittadino – attraverso lo smartphone o le app che ha scaricato – può diventare un bersaglio, bersaglio di una guerra dell’informazione, di una propaganda, di fake news, di un tentativo di controllo o di una manipolazione del suo comportamento o del suo voto, di un confinamento algoritmico ecc.

Lo vediamo oggigiorno negli USA, soprattutto con X di Elon Musk. Da spazio pubblico, il social network si è trasformato in arma di propaganda di massa. Questo dualismo ci aiuta a capire che, in quanto bersagli, dovremmo prendere coscienza delle implicazioni politiche e geopolitiche delle ipertecnologie e diventare di conseguenza cyber combattenti, che usano meglio e con maggiore consapevolezza certi strumenti. Anche con maggiore diffidenza.

 

Chi sono i soggetti a cui ci riferiamo quando parliamo in modo generico di “tecnologia”? Perchè questi soggetti sono oggi degli attori politici?

Le Big Tech, i giganti tecnologici, non sono semplicemente imprese private. In molte analisi sono state interpretate come grandi aziende quotate in borsa ecc. La verità è che le Big Tech sono grandi entità e attori di natura ibrida: da un lato imprese private, big corporations o mega piattaforme, dall’altro sono anche veri attori militari. Basti pensare oggi a Starlink di Elon Musk in Ucraina, a Palantir di Peter Thiel, anche questo in Ucraina.

Quindi abbiamo degli attori che diventano militari e rappresentano colli di bottiglia geostrategici del cyberspazio. Non forniscono semplicemente servizi o app, ma sono attori geopolitici tecnologici dal punto di vista sia militare sia ideologico. Lo abbiamo visto il 20 gennaio 2025, quando alla cerimonia di insediamento di Donald Trump era presente una broligarchia composta dai guru della Silicon Valley, che hanno giurato fedeltà al presidente: Elon Musk, Mark Zuckerberg, Peter Thiel, David Sacks, Jeff Bezos di Amazon ecc. Così si capisce che abbiamo a che fare con attori sistemici, ibridi e soprattutto globali.

 

Tecnopolitica è un libro sul potere. Il potere della tecnologia è l’ultima forma conosciuta di potere? Il potere tecnologico è più vicino alla democrazia o all’autocrazia?

Ottima domanda. In realtà appare molto chiaro: quando dico che la tecnologia è politica, voglio dire che la tecnica è un veicolo che non è mai neutra, che per forza di cose diffonde e riflette una serie di giudizi, di scelte, di visioni del mondo, valori, priorità politiche e ideologiche…

Detto ciò, oggi abbiamo due problemi dal punto di vista, per così dire, dei contropoteri democratici. Il primo è che è molto difficile trovare un contropotere per queste mega corporations, le Big Tech. L’unica risposta escogitata finora è, soprattutto in Europa, passare attraverso le regolamentazioni legislative, la legge: pensiamo ai pacchetti di norme come il Digital Market Act o il Digital Service Act. Tuttavia, per quanto sia una buona idea, l’applicazione delle regole è stata un po’ più lenta. E poi, oggi, con un’amministrazione americana come quella di Donald Trump, ci rendiamo conto che il rapporto di forza è assai squilibrato, con il rischio che potremmo trovarci costretti a non poter applicare i regolamenti (com’è stato già annunciato).

A questo elemento di risposta se ne aggiunge un secondo. Il fatto che le tecnologie sono a tutti gli effetti infrastrutture di pubblica utilità: un social network è uno spazio pubblico; i satelliti Starlink sono veicoli di connessione (oltre che strumenti di guerra, come in Ucraina). Le IA generative, quando vengono sfruttate a fini politici geopolitici o militari, non sono più semplicemente strumenti a uso privato, a fini pratici o di conforto. Adottando quest’ottica, si nota un dilemma, un problema: disponiamo di infrastrutture di pubblica utilità – anch’esse sistemiche – che però sono nelle mani di un potere arbitrario, nelle mani di poche persone. Persone che possiamo contare sulle dita di una mano. Quindi a essere problematico è lo status giuridico delle Big Tech. Possiamo lasciare nelle mani di pochi, nella mani di un potere arbitrario, delle infrastrutture così importanti, centrali per la civiltà? Negli USA tempo fa si è proposto di cambiare lo status giuridico delle Big Tech, trasformandole in common carriers (in vettori pubblici), ma purtroppo anche in questo caso non si è andati molto lontano. E quindi oggi ci troviamo con dei giganti tecnologici che hanno un’agenda chiaramente antidemocratica e contro i quali disponiamo di scarsissimo potere. La conclusione è che possono diventare un’autostrada verso forme di totalitarismo o almeno di tecno-autoritarismo.

 

Nell’era attuale del potere della tecnologia, la divisione dei poteri alla Montesquieu esisterà ancora oppure il potere tecnologico aspira a diventare allo stesso tempo esecutivo, giudiziario e legislativo?

Domanda molto interessante. Montesquieu è un pilastro non solo dell’Illuminismo ma della nostra architettura democratica, cosiddetta liberale, vale a dire la separazione dei tre poteri. Oggi quello che osserviamo negli Stati Uniti è molto curioso, perché si assiste un enorme aumento del potere esecutivo, e in parallelo una disistima del potere giudiziario e legislativo. È evidente. Negli Stati Uniti il Congresso si limita a ratificare le decisioni del governo e la Corte Suprema è stata assorbita in un certo senso dalla Casa Bianca e quindi dal potere esecutivo. In molte occasioni sia Donald Trump sia il vicepresidente Vance hanno parlato del loro disprezzo per la legge, o meglio in cui si spiega che la legge sono loro. Quindi sì, esiste una deriva democratica in cui il potere esecutivo pesa sempre di più, è sempre più totalizzante e mostra l’ambizione di porre sotto controllo il potere legislativo e giudiziario.

Questo è ormai un dato di fatto negli Stati Uniti. Il problema che abbiamo qui in Europa è che certi partiti e leader politici sono ora affascinati da ciò che avviene oltre l’Atlantico e vogliono importare e replicare quel modello.

Dobbiamo quindi essere estremamente vigili sulla separazione dei poteri e sull’architettura democratica. E il problema che abbiamo è che le nostre democrazie oggi sono esauste: ci sono stati troppi “tradimenti”,  difficoltà di rappresentanza politica nel modo in cui hanno funzionato negli ultimi anni, in particolare dopo il Covid, poi la guerra in Ucraina e così via. Oltre che nel tenere conto delle richieste delle popolazioni, dei popoli e dei cittadini. E così si arriva a un punto in cui si prova una grande stanchezza o un malessere democratico e, in aggiunta, l’odierno potere politico o esecutivo americano si sta fondendo con il potere tecnologico.

Quindi, se si mette insieme tutto questo, si corre il rischio di avere una bomba a orologeria negli anni a venire. Sì, è così.

 

Avendo a disposizione lo scettro della tecnologia (Big Tech), Donald Trump cercherà di privatizzare la politica, cominciando dalla privatizzazione della pubblica amministrazione, dei ministeri?

La privatizzazione della politica è sotto gli occhi di tutti. Soprattutto con il D.O.G.E. (il dipartimento cosiddetto per l’«efficienza governativa») guidato da Elon Musk. Sì, c’è chiaramente una privatizzazione del potere esecutivo. E ciò che è molto interessante osservare è che oggi, a capo degli Stati Uniti, non c’è più nessun potere politico. A capo di Washington e della Casa Bianca ci sono due uomini d’affari: un uomo d’affari tradizionale, magnate del settore immobiliare e poi star dei reality (che gestisce la politica americana come uno show o un reality) e poi un imprenditore iper-tecnologico della Silicon Valley, che non è più molto presente nella Silicon Valley e che detiene una forma di potere tecnologico. E quindi sì, oggi è persino peggio della privatizzazione della politica. Probabilmente il capitalismo ha cancellato la politica. Assistiamo all’annullamento della politica per mano del potere tecno-capitalista.

Sì, c’è una sostituzione del potere politico. Una privatizzazione, certo; a capo degli Stati Uniti, ci sono solo due uomini d’affari, in un certo senso non c’è praticamente più la politica. Ci sono – come dicevo – due uomini d’affari: uno con il DOGE (il dipartimento sulla pubblica amministrazione) e il potere tecnologico; l’altro, Donald Trump, che rappresenta il potere esecutivo.

Entrambi, il potere esecutivo e quello tecnologico, si sono fusi. E in un certo senso è una grande vittoria del tecno-capitalismo, soprattutto.

 

Secondo lei, la finanza, la grande industria mondiale, determinano sempre le scelte politiche? Wall Street conta ancora o è in ritirata di fronte al potere delle grandi imprese tecnologiche?

Le due cose non si escludono a vicenda, Wall Street è comunque un riflesso dei nuovi poteri. Il capitalismo ha questa particolarità di evolversi con i tempi, in un certo modo. Quindi oggi non c’è Wall Street da una parte e il potere tecnologico dall’altra. Wall Street oggi riflette la forza del potere tecnologico.

D’altra parte, quando Elon Musk ha assunto la guida del DOGE con lo smantellamento dello Stato federale, quello che abbiamo osservato è che una parte della società civile aveva iniziato a lanciare operazioni contro Tesla, con l’operazione Tesla takedown, per esempio, ma questo non ha avuto successo, non ha inciso sul valore di mercato di Tesla.

Quindi, in un certo senso, non si è riflesso sul potere finanziario di Musk. Il potere tecnologico e il potere finanziario si alimentano e si proteggono a vicenda, nonostante le operazioni della vita reale, nonostante la protesta politica.

 

La guerra porta morte e distruzione. Oggi, attraverso la guerra e la corsa agli armamenti, esiste una potenza che crede di poter riequilibrare i rapporti di forza su scala planetaria?

Oggi c’è un principale rapporto di forze che determina il futuro e la morfologia del prossimo ordine mondiale e che è quello tra Stati Uniti e Cina. Questo è molto chiaro. Si è cristallizzato intorno alla questione dell’intelligenza artificiale, in particolare quella a uso militare, perché è la vera posta in gioco, la questione della leadership mondiale. Non si può pensare all’egemonia senza il predominio militare. Da questo punto di vista, l’intelligenza artificiale è al centro di un nuova corsa agli armamenti.

Il primo elemento è la rivalità geostrategica: gli Stati Uniti contro la Cina. E poi ci sono gli altri conflitti, per esempio con l’Ucraina, e oggi vediamo il tira e molla e la buona intesa tra Washington e Mosca, tra Trump e Putin. Quindi l’interpretazione che potremmo dare, ma che andrebbe verificata nel tempo, è che abbiamo tre blocchi, diciamo tra Cina, Russia e Stati Uniti, che stanno ridefinendo le loro sfere di influenza.

Presa mezzo a tutto questo c’è l’Europa, stretta tra la Russia e gli Stati Uniti. Temo che la questione ucraina sia in realtà uno stress test o un tentativo di Washington e Mosca di ridefinire i confini delle rispettive zone di influenza intorno alla questione europea.

Ma sta anche diventando sempre più chiaro che l’Europa è assente e impercettibile in questa nuova distribuzione delle sfere di influenza e temo che non siamo più un soggetto. Non siamo più soggetti del nostro destino o attori, ma siamo diventati una posta in gioco. Quindi a un certo punto dovremo ripensare la nostra esistenza e la nostra identità politica, alla luce di questo nuovo equilibrio di poteri e questo nuovo stato di cose.

Ecco perché abbiamo bisogno di politici estremamente coraggiosi, ma soprattutto che lavorino. In altre parole, al di là dei discorsi e delle promesse e così via, dobbiamo lavorare davvero sulla nostra esistenza e questa non può, diciamo, avere sostanza se non abbiamo una vera strategia tecno-industriale per esistere.

Se non abbiamo una vera visione militare per poter esistere nell’equilibrio delle potenze, e non solo su base individuale, cioè l’Italia da una parte, la Francia dall’altra, il Regno Unito dall’altra ancora, la Germania qui, ecc.. Dobbiamo davvero raggiungere un accordo su progetti strategici comuni, ma progetti reali, non solo summit e discorsi.

E qui siamo ancora lontani dall’obiettivo.

  • Autore articolo
    Raffaele Liguori
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