“Sempre più lutto!”, ha scritto su Facebook la mamma di Giulio Regeni dopo aver appreso che l’Italia ha deciso di rimandare il suo ambasciatore in Egitto e dopo aver letto le rivelazioni del New York Times, secondo cui l’amministrazione Obama, pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo, aveva informato il governo Renzi del fatto che i massimi vertici del Cairo “sapessero senza ombra di dubbio” che il ricercatore era stato torturato e ucciso dagli apparati di sicurezza egiziani. Ma la ragion di Stato ha finito per prevalere. Oggi Palazzo Chigi dice: “E’ vero, gli Stati Uniti ci hanno informato ma non ci hanno fornito le prove”.
Riccardo Noury è il portavoce di Amnesty Italia, ha seguito il caso Regeni fin dalle prime ore ed è tra i promotori della campagna “Verità per Giulio Regeni”. Silvia Giacomini lo ha intervistato.
Noury, la posizione del governo italiano si aggrava dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times?
“Questo articolo del New York Times – su cui hanno lavorato per mesi, almeno da gennaio 2017 – mette in difficoltà il governo. La prima questione è che fosse evidente sin dall’inizio il coinvolgimento di apparati di sicurezza egiziani, ma chiunque conosca l’Egitto ne era certo da subito. Giulio Regeni è scomparso il 25 gennaio e noi di Amnesty già dall’inizio di febbraio abbiamo parlato di un ‘delitto di Stato’ che coinvolgeva gli apparati di sicurezza come in centinaia di altri casi simili a quello di Giulio. Ora il punto è se il governo italiano sapesse, quanto sapesse e da quanto tempo. Vedere che sul dolore di una famiglia prevale l’assenza di trasparenza, la sensazione che ci siano dei giochi politici a qualche piano più alto, che si sappia e non si prendano iniziative, che poi si decida nel silenzio il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo aspettando il momento propizio di Ferragosto per farlo…”
Il ritorno dell’ambasciatore al Cairo era evidentemente preparato da settimane.
“Non si sono proprio trattenuti. Neanche il pudore di aspettare qualche giorno, se non altro per evitare di farlo nel quarto anniversario del peggiore massacro della storia egiziana, quando il 14 agosto del 2013 al Cairo vennero uccisi 900 manifestanti nel giro di poche ore. Il ritorno dell’ambasciatore era preparato, io avevo questa sensazione già da luglio quando un po’ di persone avevano cambiato idea e soprattutto quando il partito di maggioranza, con un suo autorevole rappresentante, Nicola Latorre, era andato al Cairo, e lì mi pare che si fosse concordato il tutto. Non è stata mai smentita la fonte egiziana indipendente che sosteneva che Latorre si fosse impegnato a ripristinare le normali relazioni diplomatiche entro settembre. E poi è arrivata la coincidenza del comunicato congiunto delle Procure sul ‘passo avanti nella collaborazione’, e a quel punto non si sono più trattenuti”.
Gli “interessi altri” del governo italiano in Egitto – i giacimenti di gas gestiti dall’Eni, la necessità di stabilità geopolitica della regione – sono così forti che non ci dobbiamo aspettare sforzi istituzionali nella ricerca della verità sull’uccisione di Giulio Regeni?
“Siamo ad agosto, il parlamento è chiuso, non ci sono tanti organi di informazione a seguire la notizia costantemente, quindi può essere che sia facile tenere bassa l’attenzione. Certo è che in questa vicenda il governo egiziano ha depistato, ha fatto di tutto per perdere tempo. A quello italiano io imputo una mancanza di decisione, una mancanza di coraggio. Si potevano fare altre dieci cose oltre a richiamare l’ambasciatore e a quel punto rimandarlo sarebbe stato anche accettabile, se fossero rimaste in piedi le altre. Ma qui una cosa sola è stata fatta e questa cosa non c’è più”.
Come mai il New York Times pubblica le notizie su Regeni solo oggi?
“Io posso dire che su questo articolo il New York Times stava lavorando da mesi, almeno da gennaio quando ha contattato anche Amnesty International e da fine luglio era in corso il fact-checking, su cui sono stato interpellato anch’io per questioni marginali. Quindi sapevo che l’articolo sarebbe stato pubblicato in questo periodo. E’ il governo italiano che, riprendendo oggi le relazioni diplomatiche con l’Egitto, ha fatto sì che ci fosse questa coincidenza”.
C’è un po’ di rassegnazione rispetto alla possibilità di far luce sull’uccisione di Regeni?
“Beh, dopo tanti e tanti episodi in cui tutto si è visto tranne che le istituzioni fare il loro dovere, cioè cercare la verità sulla morte di un cittadino italiano, è chiaro che questa sensazione possa prevalere. Però non dobbiamo demordere assolutamente. Se il ritorno dell’ambasciatore al Cairo sarà – come immagino – confermato, noi continueremo a incalzare il governo puntualmente e regolarmente chiedendo conto degli sviluppi. Altrimenti il governo dovrà assumersi le sue responsabilità e dire: ‘In nome dei buoni rapporti con il generale Haftar in Libia che minaccia di bombardare le nostre navi, in nome dei dossier immigrazione, terrorismo, Libia, economia, gas, turismo eccetera eccetera, a noi della verità sul caso Regeni non importa più nulla, ammesso che ci sia mai importato”.