L’offensiva dell’esercito israeliano a Khan Yunis sta peggiorando la difficile situazione nella Striscia di Gaza. La popolazione, già sfollata, affronta una crescente crisi umanitaria con migliaia di evacuati da Khan Yunis a Rafah. La sicurezza degli ospedali è ora a rischio, e si teme che gli ospedali di Khan Yunis possano essere i prossimi obiettivi dell’IDF, seguendo quanto già accaduto a Gaza City. Martina Stefanoni ha discusso della situazione con Tommaso Della Longa, portavoce della Croce Rossa Internazionale.
Quello che sta accadendo in queste settimane all’Ospedale Al-Amal a Khan Yunis ci ricorda un incubo che abbiamo già vissuto circa due mesi fa, a Gaza City, con l’Ospedale Al-Quds. Lì i bombardamenti sono iniziati esattamente allo stesso modo: intorno all’ospedale. Poi si sono avvicinati, le ambulanze sono state praticamente bloccate e per circa 10 giorni non c’era via d’accesso all’ospedale. Mancavano medicinali, acqua, cibo, sicurezza e accesso. Abbiamo dovuto chiudere l’ospedale e, tra virgolette, abbiamo festeggiato, il fatto di essere riusciti ad evacuare l’ospedale. Tuttavia, ciò significava che non c’era più un ospedale aperto. Speriamo sinceramente che questo non accada anche a Khan Yunis. Lì, ci sono ancora centinaia di pazienti e più di 10.000 sfollati. Questi luoghi devono essere rispettati e protetti, non solo da un punto di vista morale, ma anche da un punto di vista legale.
Se succedesse anche a questo ospedale quanto è già successo negli ospedali del nord, quale sarebbe la situazione degli ospedali funzionanti?
Sostanzialmente, ne rimarrebbero pochi, parliamo ormai di un numero esiguo di ospedali nella zona di Khan Yunis o di Rafah che sono ancora operativi. E quando diciamo “operativi”, intendiamo ospedali come quelli di Khan Yunis o Al-Amal, dove l’elettricità viene razionata da giorni. Alcune aree del compound, dove non ci sono trattamenti salvavita, non sono illuminate. Le persone vivono in una situazione di stress e panico, poiché non sanno cosa accadrà e quando toccherà anche a loro essere nel bel mezzo di un bombardamento.
Parliamo di una situazione in cui i bisogni sono immensi, i pazienti aumentano, ma il limitato aiuto umanitario che entra dal valico di Rafah non è sufficiente a portare i medicinali necessari per offrire i servizi richiesti. Ci vuole meno tempo per esaurire le scorte di medicinali che per portarne di nuovi, e ovviamente ciò è preoccupante al di là dei bombardamenti stessi. Il sistema sanitario è essenzialmente collassato, e alcune strutture sanitarie continuano a fare del loro meglio, anche se in condizioni praticamente disperate.
Prima hai menzionato la questione dei pochi aiuti che arrivano da Rafah. Dopo l’accordo della scorsa settimana, mediato da Qatar e Francia, in cui si diceva che sarebbero entrati medicinali per gli ostaggi e aiuti umanitari per la popolazione di Gaza la situazione è migliorata?
Non molto. Non voglio sminuire l’importanza del fatto che il valico di Rafah sia ancora aperto, rappresentando una lifeline per la gente di Gaza. Tuttavia, il numero di convogli umanitari che riescono ad entrare è limitato e sembra più un esercizio di relazioni pubbliche, una goccia in mezzo all’oceano. È importante che ci sia, certo, è meglio di niente, ma non è sufficiente per fornire una risposta dignitosa al popolo palestinese.
Ciò che genera più rabbia e frustrazione è che abbiamo previsto tutto questo. Non perché abbiamo una palla di cristallo, ma perché sapevamo che senza i necessari aiuti umanitari, senza uno spazio sicuro dove operare, senza acqua, cibo e supporto sanitario, saremmo arrivati a una situazione di disperazione, quasi a una carestia. Un’influenza o un problema gastrointestinale può diffondersi all’interno dei luoghi dove i palestinesi cercano rifugio come un incendio. Ciò mette a rischio le vite delle persone, e avremmo bisogno di tre, quattro, cinque volte più aiuti umanitari di quelli attuali. Ma oltre agli aiuti umanitari, serve la sicurezza. Senza sicurezza, non può esserci un’operazione umanitaria, senza uno spazio sicuro, non è possibile operare. Questa è l’altra richiesta di aiuto che rivolgiamo alla comunità internazionale.
Le persone continuano sempre più a concentrarsi a Rafah, e abbiamo visto immagini di tende e persone ovunque. Come si vive concretamente a Rafah nella vita quotidiana?
Si vive un incubo che diventa realtà giorno dopo giorno. Non saprei come definirlo meglio. Il lato positivo è che le persone di Khan Yunis sono drammaticamente resilienti. Si sono abituate a questo negli anni di conflitto, valichi chiusi, e così via. Quindi, in qualche modo, sanno come sopravvivere, come organizzare una tendopoli o una sorta di accampamento improvvisato. Ma questo non è sufficiente. Parliamo praticamente dell’intera popolazione di Gaza che non sa dove trovare cibo, acqua o cure sanitarie. Questo non è accettabile nel breve termine e neanche immaginabile nel lungo termine. Ora parliamo del freddo e delle piogge, ma tra qualche mese parleremo del caldo e delle epidemie che, prima o poi, si diffonderanno in luoghi così sovraffollati. Ribadisco che tutti sanno che questo sarebbe successo, ma non vediamo azioni concrete per evitare la sofferenza delle persone. Questa è la nostra più grande frustrazione.