All’inizio non ci credeva nessuno. Una serie tv di produzione italiana e in dialetto napoletano non avrebbe mai potuto sconfinare. Non sarebbe nemmeno arrivata al pubblico del Nord Italia. Invece Gomorra. La serie ha fatto ricredere in molti. La serie firmata dal regista Stefano Sollima sulla saga della famiglia Savastano ha collezionato ascolti da record (oltre due milioni di telespettatori, con punte di share oltre il 13 per cento) ed è diventata un successo internazionale. Il capo della squadra di sceneggiatori, Stefano Bises, racconta la sfida di raccontare il male. Senza mitizzarlo.
“Questa serie racconta storie di gente che non sbaglia mai e di altri che sbagliano sempre per Dna criminale, perché hanno un destino segnato”, racconta Bises. “Gente che sbaglia sui sentimenti, sbaglia sulle relazioni umane. Questa seconda stagione porta avanti quella che è stata una delle forze della prima, cioè la deviazione di queste relazioni familiari e sentimentali tra i personaggi”.
L’intervista è a cura di Gianmarco Bachi.
Raccontare il fascino del male è sempre una grande responsabilità. Serve grandissima tensione narrativa, è pericoloso, perché si possono costruire modelli. Il male ha sempre un grande fascino.
Questo però è un fatto. Il male è affascinante perché è una parte di noi. La cosa a cui abbiamo cercato di essere più attenti, visto che venivamo dal libro di Roberto Saviano e volevamo confermare il suo sguardo, è di non trasformare questi personaggi in eroi. Io credo che in parte ci siamo riusciti dal momento in cui si fa fatica ad affezionarsi, o meglio ci si affeziona e poi si resta molto delusi. In fondo sono degli antieroi, non diventano mai dei modelli “aspirazionali” perché conducono esistenze miserabili, hanno i destini segnati (galera o morte) si circondano di brutto… Credo che questo metta una distanza e però comunque ci si senta coinvolti dalle loro storie, visto che sono personaggi ispirati alla realtà e si ritrova qualcosa di vero.
Per carità, parla di uno che ha visto 200 volte l’intera serie del Padrino, tanto per dire il condizionamento dell’immaginario cinematografico… Nella narrazione uno spazio sempre più significativo è stato acquisito dalle donne…
Hanno un ruolo importante, ma corrisponde alla realtà in quegli universi in cui le figure maschili esauriscono le loro parabole piuttosto in fretta e quasi sempre in maniera violenta. Poi sono le donne che ereditano segreti, confidenze, relazioni, meccanismi del potere, fino alla gestione di un clan, come fu per donna Imma. In questa seconda stagione c’è una donna Imma che in un certo senso è una donna di camorra, a cui risponde una donna che viene da un altro mondo e arriva da quelle zone, senza aver avuto contatti diretti con la criminalità organizzata. Diventa un racconto dell’ingresso in quel mondo. È un personaggio che alla fine tira fuori aspetti che ne fanno poi un capo, è dotata di un carisma molto particolare. La trovo una figura molto affascinante: racconta come quell’universo ti entra dentro come un veleno, che poi è difficile mandare via.
Stiamo parlando di una serie, ma lo spazio narrativo a cui ormai sono destinate, almeno quello di grande impatto, è quello del romanzo ottocentesco. Un’ultima domanda: quale esperienza avete fatto avvicinandovi al mondo della camorra?
Nella prima serie è stato tutto piuttosto duro, perché stavamo girando alla fine di una faida, quindi è capitato che abbiamo dovuto cambiare location improvvisamente perché qualcuno si è sparato. Stavamo cercando poi nuove storie alla fine della prima stagione e abbiamo incontrato un uomo di 45 anni, di cui 18 trascorsi in carcere, il quale oggi si dedica alla vendita di mozzarelle. Ci raccontava che per lui non c’è possibilità di redenzione fino in fondo, perché comunque la polizia gli dava dei problemi a causa di tutti i suoi precedenti, nonostante li avesse espiati sul piano giudiziario. Questa storia ci era sembrata dolorosa, avevamo sentito empatia. Dopodiché un altro venditore ci ha spiegato che aveva omesso un passaggio nel racconto: lui è il fratello di uno dei boss della zona che non si limita ad offrire le sue mozzarelle. Allora il racconto del primo venditore diventa emblematico di come questa realtà sia difficilissima da leggere: non sapremo mai che queste mozzarelle le imponga o no ma la sua figura basta a destare sospetti. Questa figura è emblematica del groviglio terribile che stritola quei luoghi e impedisce distinguere il bene dal male che poi è la forza più grande del male quella di sapersi camuffare e penetrare sotto spoglie differenti.
Ascolta qui l’intervista completa a Stefano Bises