
“Sinora non avete fatto nulla. Nulla”. Non lascia spazio a giri di parole, ambiguità, la giudice federale del Maryland, Paula Xinis, che chiede conto all’amministrazione Trump di quanto fatto per far tornare negli Stati Uniti un uomo illegalmente deportato. La storia di Abrego Garcia sta, in effetti, diventando un caso sempre più clamoroso.
Garcia è un cittadino di El Salvador, ha oggi 29 anni, è sposato con un’americana, ha tre figli, è un operaio addetto alla lavorazione della lamiera. È entrato, illegalmente, negli Stati Uniti nel 2011, aveva circa 15 anni. È stato arrestato nel 2019, davanti a una struttura di Home Depot, dove stava cercando lavoro. È finito, subito dopo, davanti a un giudice, che però ne bloccò, allora, nel 2019, la deportazione, perché risultò che il ragazzo avrebbe rischiato abusi e tortura, se fosse tornato in El Salvador. È un atto legale che si chiama withdrawal from removal, esentato dalla rimozione. La vita di Garcia è quindi andata avanti. Moglie, figli, un lavoro.
Alcune settimane fa gli agenti dell’immigrazione lo hanno però arrestato, accusato, con prove piuttosto evanescenti, di essere un membro di una gang salvadoregna, MS-13. E, nonostante ci fosse un ordine di un tribunale che ne bloccasse la deportazione, Garcia è stato messo su un aereo e deportato in El Salvador, in una famigerata prigione di massima sicurezza, Cecot, tra le più pericolose, segnate di abusi, al mondo. A questo punto, la famiglia di Abrego Garcia si è mossa, si sono mossi gli avvocati, che hanno fatto causa al governo degli Stati Uniti per aver illegalmente deportato l’uomo. Due tribunali federali hanno dato ragione alla richiesta degli avvocati di Garcia, e torto al governo degli Stati Uniti. Il caso è arrivato fino alla Corte Suprema, che ha emesso una sentenza più sfumata, ma comunque chiara.
Garcia è stato deportato illegalmente, gli Stati Uniti devono facilitare il suo ritorno. A questo punto, è iniziato un balletto di giustificazioni, dichiarazioni, controdichiarazioni da parte dell’amministrazione, che prima ha riconosciuto che Garcia era stato inavvertitamente deportato. Poi, ieri, alti funzionari, tra cui Stephen Miller, il principale consigliere di Trump per la politica interna, hanno cambiato idea, dichiarando che la deportazione era stata intenzionale e legale. L’amministrazione gioca anche sull’ambiguità di quella parola. Facilitare. Come si fa a facilitare? Se arriverà ai nostri confini, noi faciliteremo la sua entrata negli Stati Uniti.
Il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, ha detto però nel corso di un incontro con Ytrump un paio di giorni fa che lui non pensa di rilasciare Garcia, e quindi Trump dice: vedete, non posso farci nulla. Insomma, un modo molto chiaro, anche piuttosto provocatorio, esibito, derisorio, per aggirare gli ordini dei tribunali. Non avete fatto nulla, ha detto la giudice Xinis agli avvocati del governo, chiedendo a questo punto testimonianze scritte e giurate da parte dei funzionari dell’amministrazione che stanno gestendo il caso. La giudice dice di voler arrivare fino in fondo.
Il braccio di ferro è in corso. L’esito di questa storia è destinato ovviamente a condizionare quanto l’amministrazione potrà, o non potrà fare, in futuro, in tema di deportazioni. Ma la storia di Abrego Garcia è molto di più, è importante per molte altre cose. La tutela del diritto alla difesa negli Stati Uniti, i limiti del potere dell’esecutivo, la sopravvivenza di un sistema di pesi e contrappesi, al cuore di ogni democrazia liberale.